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Aborto, dono, comunità. Contro la società cronica

di Gian Maria Bavestrello - 06/01/2014

Fonte: heimat


Nessun motivo è così legato a doppio filo al tema dell’aborto quanto il rifiuto del dono. Non solo, infatti, la vita è un dono in sé che proviene dal Mistero che l’uomo è a sé stesso, ma è anche una relazione concreta tra due generazioni. Questa relazione si basa, come spiega lo psicanalista Claudio Risé ne “La crisi del Dono”, sulla disponibilità al cambiamento, sull’accettazione della vita come apertura “al nuovo che ogni giorno nasce e ci chiede accoglienza ed amore”.  “Significa accettare di sacrificarci per lui, per il bimbo che viene nel mondo, anziché sacrificarlo al nostro piacere, ma soprattutto al nostro, soltanto immaginato, potere su un esistente, la realtà, che invece nella sua incessante trasformazione ci oltrepassa e ci trascende, in ogni momento”.

Il tema dell’aborto interroga gli uomini in quanto tali, a partire dalla loro psiche individuale e collettiva. A partire dalla loro capacità di “donare”. Solo al tramonto di una civiltà fondata sul “dono”, infatti,  l’interruzione della gravidanza ha potuto indietreggiare a questione “biologica” interna al corpo della donna e imporsi come diritto. Un diritto che, probabilmente, è il simbolo stesso dei nostri tempi.

Dono e comunità. Cos’è, concretamente, una civiltà fondata sul dono? Nota Roberto Esposito in “Communitas. Origine e destino della comunità”,  come la parola comunità derivi etimologicamente da “munis”, dono che una volta ricevuto si è moralmente obbligati a ricambiare. Il legame comunitario trae cioè origine da un debito di riconoscenza, da un dono che pur elargito gratuitamente richiede, tacitamente, di essere contraccambiato. Appare difficile non vedere la matrice di questo modello nella relazione tra genitori e figli: nel dono della vita, in quello della protezione e dell’educazione, agisce la silenziosa consapevolezza che, negli anni della vecchiaia e della debolezza, i figli si prenderanno cura dei propri anziani, chiudendo il circolo di munificenza aperto all’atto del concepimento. La comunità presuppone quindi quell’apertura al futuro che coincide con l’accettazione del cambiamento e del superamento dei ruoli: è un’entità fluida e dinamica che, adattandosi al tempo, conquista il diritto a un passato e a un futuro, a una storia e a un domani

Il tramonto del dono e la società cronica. La modernità, col suo portato di individualismo e di utilitarismo,  ha  sostituito al dono la relazione contrattuale fondata sul consenso esplicito.  Solo in questa coincidenza di diritto e desiderio, di libertà e affermazione spinta dell’ego,  l’aborto ha potuto ergersi a diritto di consentire o meno al nascituro di venire al mondo. Con il diritto all’aborto, frontiera ultima e radicale del diritto inalienabile dell’individuo a sé stesso, la modernità è giunta così a compimento. La definizione di Bauman, che focalizzata sulla precarietà relazionale identifica la società attuale come “liquida”,  non aiuta a chiarificare l’essenza del mondo moderno quanto l’idea che la nostra civiltà abbia un rapporto patologico col tempo ben identificato dal mito di Crono, Titano padre di Zeus. Benché sia noto per il vezzo di divorare i suoi figli, Esiodo rivela che quando Crono regnava ancora nel cielo, prima di essere evirato e incatenato, “gli uomini vivevano come dei, il cuore libero dalle preoccupazioni, lontano e al riparo dalle pene e dalle miserie: la vecchiaia non pesava su di loro, e braccia e garretti sempre giovani, si divertivano nei festini, lontano da tutti i mali”. Nell’atto di divorare i suoi figli Crono rifiuta la vita stessa e i suoi cicli, il proprio superamento, l’avvento di forze nuove con le loro potenzialità di cambiamento.  La società cronica è popolata da uomini su cui non pesa la vecchiaia, che vivono in un perenne stato di giovinezza e di spensieratezza, che hanno arrestato il tempo e pretendono di detenerne il controllo, istituendo una dimensione di perenne e perfetta stagnazione in cui non può esservi spazio per quell’evoluzione che discende dall’accettazione del nuovo e dalle responsabilità che esso comporta.

La società dell’aborto. Il diritto all’aborto , parte integrante del diritto al rifiuto del dono, segna simbolicamente e fattivamente l’avvento di questa nuova società cronica in cui l’uomo rivendica in nome del piacere il diritto a manipolare il flusso della vita e, in caso di scarsità del bene, di importarla come merce sotto forma d’immigrazione. Ma la società dell’aborto è dedita anche a distillare la giovinezza e ad astrarla dal naturale alternarsi delle stagioni umane. E’ una società che rifiuta pedissequamente il passaggio all’età adulta e che sposta questa transizione sempre più in là negli anni. Corollari di questi “tic” sono l’aspirazione a prolungare indefinitamente la vita umana attraverso la scienza medica ( i suoi metodi invasivi, i suoi meccanismi di controllo sociale,  i suoi precetti contraccettivi…) e il ricorso alle più complesse strategie di manipolazione narcisistica del corpo per restituire l’immagine di un ego che, nonostante tutto, infine svanisce in un mortale melodramma, lasciando dietro di sé una ghignante scia di ridicolo.

Della necessità di riattivare il dono. Il regno di Crono non può che andare incontro allo scacco vitale, ossia all’evirazione. Vittima della sua sterilità indotta, rinsecchisce e si disgrega sotto il peso insopportabile di un “hic et nunc” che non conosce né passato né futuro e che, in assenza del sentire comunitario, non ri-conosce più  la necessità di conquistarsi il diritto al domani attraverso il dono reciproco, la cooperazione e il mutuo soccorso.  Il regno di Crono priva la “con-vivenza” degli uomini di senso e di destino, impiantando sul cadavere della comunità un mero spazio di affermazione egoica, un banale campo di desideri capricciosi (persino i figli, quando arrivano, sono spesso il frutto di un capriccio o uno strumento per colmare un “vuoto di senso”) destinati a perire sotto il peso della condizione umana, tanto più miserabile quanto più ignara della propria finitudine. L’individualismo che vuole ridurre la questione della “nascita” a un’esperienza intima della donna, o nel migliore dei casi della coppia, non riesce ad elevarsi al di sopra di una prospettiva che non rende giustizia alla centralità politica, morale e culturale del tema, che va ben oltre il problema filosofico di stabilire in che momento esatto della gravidanza si possa parlare di “essere umano” e dunque di diritto alla vita. Se lo Stato oggi ha ancora un senso, se la politica ha ancora un ruolo,  questo senso e questo ruolo non possono che costituirsi di fronte al problema del benessere in quanto “esser bene”, in quanto esser dentro quella circolarità del dono che sola può produrre e legittimare l’uso della parola “domani”.  Ripristinare la sacralità della vita, non solo sul piano legale ma innanzitutto sul piano psicologico e culturale, non solo modificando una legge ma creando le condizioni sociali ed economiche perché lo spirito della moratoria sull’aborto possa penetrare fluidamente come un farmaco nel tessuto della società per ri-attivarne la vitalità demografica e il legame inter-generazionale, è l’unico ponte che ci può condurre nel ventre di quel futuro che sta evaporando, lentamente, di fronte a noi.