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Gioacchino da Fiore e il “simbolismo sociale”

di Ippolito Emanuele Pingitore - 06/01/2014

Fonte: lintellettualedissidente


La produzione di Gioacchino è imbevuta di un linguaggio metaforico-simbolico che non rappresenta una pura scelta stilistica, bensì un metodo altamente sistematico. Siamo nel periodo di fioritura della cosiddetta <>, quel tipo di teologia che tentava di procedere speculativamente alla conoscenza metafisica del mistero divino

Gioachino-da-fiore
Chiunque volesse intraprendere una rapida lettura su Gioacchino da Fiore rimarrebbe incantato – e forse impaurito – dalla infinita letteratura critica che pullula sul suo pensiero, uno tra i più affascinanti della storia, intriso di immagini mistiche e simboliche ma non prive di una certa logicità, che ha influenzato una insospettata parte della storia successiva a cominciare da Dante che lo cita nella Divina Commedia, affascinando persino Hegel e giungendo sino ai giorni nostri con la <<riscoperta>> storiografica del ruolo di Gioacchino da Fiore da parte di Herbert Grundman in Germania e da Ernesto Buonaiuti in Italia intorno agli anni 1927 – 1930 come evidenzia Antonio Crocco, uno tra i massimi studiosi dell’abate calabrese. Certamente – come ben ravvisa Antonio Staglianò, vescovo di Noto  - la produzione di Gioacchino da Fiore non si darebbe affatto se non fosse presente il problema della Trinità. E’ qui il nodo cruciale – quasi maniacale – su cui l’abate calabrese spende tutta la sua vita in ore e ore di studio, in cerca di una soluzione, in cerca di scoprire, o forse tentare di comprendere, quel mistero nella sua pienezza. Importante ai fini di una comprensione dottrinaria del tema trinitario sono le tre opere a cui Gioacchino si dedica tra il settembre 1182 e l’agosto 1183 mentre è a Casamari, in Lazio: la Concordia Novi ac Veteris Testamenti, l’Expositio in Apocalypsim e lo Psalterium decem chordarum. La struttura trinitaria si riflette anche nella loro disposizione strutturale: è evidente infatti la preminenza dell’una o dell’altra Persona nelle tre opere. Preminenza che non isola difatti la Persona dall’agire in comune con le altre due.

Occorre riprendere la distinzione mediante la quale si può intendere la Trinità. Una Trinità immanente o ontologica, che costituisce la Trinità nel suo essere intesa nella formula <<tre Persone uguali e distinte>> e una Trinità economica, che indica l’operare della Trinità nella storia della salvezza. E Gioacchino è profondamente convinto dell’operare nella storia della Trinità, tanto è che si può ben dire che la storia rispecchi la struttura della Trinità stessa, così come anche la vita. Dovremmo a tal punto parlare di una filosofia della storia, o meglio di una teologia della storia, poiché – come scrive Giovanni Di Napoli, uno tra i più autorevoli studiosi del pensiero gioachimita <<tutto nella vita e nella storia deve venire pensato triadicamente ad immagine della Trinità, adoperando quegli strumenti-concetti che riguardano insieme il mistero trinitario e il plesso delle forme di vita e degli eventi storici>>.

Una delle tante opere di Gioacchino – dalla discussa paternità, ma certamente “gioachimita” – può a prima vista suggerirci informazioni utili circa il suo modo di procedere, il Liber Figurarum, appunto. La produzione di Gioacchino è imbevuta di un linguaggio metaforico-simbolico che non rappresenta una pura scelta stilistica, bensì un metodo altamente sistematico. Siamo nel periodo di fioritura della cosiddetta <<teologia dialettica>>, quel tipo di teologia che tentava di procedere speculativamente alla conoscenza metafisica del mistero divino. Tale teologia, che vedeva tra i suoi massimi esponenti Abelardo, di certo non interessava le mire dell’abate silano, che, rifacendosi alla tradizione monastica (e reinterpretandola per alcuni versi), cercava di conciliare la speculazione con il simbolismo immaginifico e figurale. Le parole non sono adatte ad esprimere un mistero così potente e alla fine non possono che rivelarsi inutili chiacchiere: più che la speculazione solo la fede può dare le risposte cercate, specialmente <<in un’epoca dominata dalla nascente Scolastica […] orientata ed impegnata in uno sforzo di classificazione e di sistematizzazione filosofico-concettuale dei dati del dogma trinitario (si pensi all’esperienza teologica di Abelardo di poco anteriore a Gioacchino)>>, la quale – come scrive Antonio Crocco – <<minacciava agli occhi del mistico di ridurre e impoverire la pregnanza sacrale del mistero supremo della fede in un arido paradigma di astratte nozioni metafisiche (quella di sostanza, ipostasi, ecc.)>>.

Fede, preghiera e contemplazione. Gioacchino studiava profondamente e allo studio affiancava la pura contemplazione. L’esperienza orante cui si rifà il mistico calabrese deriva dalla tradizione monastica. Essa non è speculazione ma riflessione spirituale. Ed in effetti la contemplazione spirituale dei monaci si praticava all’interno della cosiddetta Lectio in Sacra Pagina, e più nello specifico nella Lectura in Sacra Pagina proprio perché la Parola (le pagina della Bibbia) veniva sottoposta ad interpretazione simbolica al fine di una intima comunione con Dio. Con questo non si vuole dire che il procedere allegorico di Gioacchino si configuri come spazio evasivo di creazione fantastica o immaginaria privo di ogni collegamento con la realtà. Egli è un fine teologo, conosce bene la materia, studia giorno e notte e probabilmente le sue elucubrazioni – concordiamo con il Di Napoli – sono più il frutto di insonni fatiche che di ispirazioni mistiche. Il procedere di Gioacchino è un procedere logico, non casuale, che, appunto, combina la speculazione con il simbolo. Da qui la consapevolezza dell’abate che, indicibile e al di fuori dei limiti umani, il mistero della Trinità si può solo spiegare mediante il suo simbolismo figurativo che – si badi bene – cede comunque dinanzi alla grandezza del mistero. Solo la fede può spianare la strada alla conoscenza del mistero, altrimenti la Rivelazione nel giorno di Pentecoste, giorno in cui a Gioacchino si offrì in una visione folgorante il mistero della Trinità, non avrebbe nessun senso. Ciò manifesta appunto l’importanza che egli attribuisce alla fede, al credere incondizionatamente, che, per sua stessa definizione, è un procedere verso un <<mondo>> ignoto, del quale, a parole, si può capire ben poco, se non almeno ricercare in esse una via verso la comprensione. L’apparizione del salterio dedacorde nel giorno della Pentecoste fu così l’appagamento per Gioacchino di un desiderio di comprensione che lo portò a completare il primo libro dello Psalterium.

Dunque sottolineiamo ancora una volta l’importanza del simbolo, della figura, come chiave interpretativa del suo pensiero; questo anche alla luce della lettura della Concordia, in cui l’abate proponeva la lettura degli avvenimenti veterotestamentarii, cioè la littera, il significato, come figura, significante, da rapportare al Nuovo Testamento, sì che gli episodi narrati nel Vecchio Testamento trascendessero il significato alla lettera e potessero essere letti in chiave simbolica attualizzati nel messaggio di Cristo. Tale procedimento è invasivo nel metodo di Gioacchino, tanto che tutta l’economia della salvezza può essere letta in questa chiave. E certamente tale linguaggio non può che riflettere lo spirito del Medioevo il quale – come scrive Crocco – è per eccellenza l’età del simbolo. La lettura del Crocco riguardo al simbolismo del linguaggio gioachimita definisce quest’ultimo come la parte più caduca ed arcaica del pensiero dell’abate florense, tranne se tale simbolismo venga letto come portatore di un valore sociale <<nella misura in cui metteva a disposizione delle masse una struttura espressiva e adeguata alla comprensione degli incolti, dei simplices e dei rudes>>. Non si può che concordare con il Crocco, eccezion fatta che per la caratterizzazione negativa del simbolismo caduco e arcaico in Gioacchino, considerando che il valore sociale attribuito al simbolismo stesso si proclama come negazione di fatto della sua grettezza. D’altra parte non c’è pensatore medievale che non faccia sovente riferimento ad un linguaggio simbolico astruso ed incomprensibile proprio perché la parola di per sé letta non può che fuorviare il lettore e lasciarlo al di là del messaggio di salvezza recato nell’interpretazione della parola stessa. Tutto ciò che si legge merita di essere interpretato poiché ogni cosa, anche la minima, porta il segno della salvezza specie nell’ottica di Gioacchino e nell’imminente attuazione di un  Terzo Stato, quello dello Spirito appunto.