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Il modernismo e i suoi feticci: il falso mito del progresso

di Martina Turano - 12/01/2014

Fonte: lintellettualedissidente


In De Vita Caesarum  Svetonio, biografo ed erudito romano di età imperiale, raccoglie una serie...

In De Vita Caesarum  Svetonio, biografo ed erudito romano di età imperiale, raccoglie una serie di biografie di imperatori da Cesare a Domiziano, mescolando al racconto di fatti storici, inediti pettegolezzi riguardanti la vita privata degli imperatori o curiosi -e talvolta attendibili- aneddoti. Stando ad uno di questi, l’imperatore Vespasiano avrebbe finanziato un  ingegnere pur impedendogli la realizzazione del progetto che, con l’impiego di nuovi macchinari, avrebbe facilitato il trasporto di colonne sul Campidoglio consentendo così risparmio di tempo e denaro. Vespasiano rifiutò l’applicazione del macchinario, pur apprezzandolo,  “onde permettere alla plebicula di sfamarsi” (plebicula pascere) col compenso del lavoro svolto al posto del macchinario. L’imperatore dunque remunera e incentiva il progresso, ma si arroga il diritto di applicarne o meno le innovazioni nella materia tutta “sociale” dei lavori pubblici.

 

A differenza della mentalità modernista di oggi, in cui il progresso è visto come una inarrestabile marcia verso il futuro, con la continua integrazione nella vita quotidiana di strumenti che la semplificherebbero, il pensiero antico presenta ancora delle riserve. Nella storiografia attuale, il periodo lungo trenta secoli che va dal 2500 a.C. e il 500 d.C è caratterizzato da ristagno tecnologico, nella misura in cui Greci e Romani, nonostante la innegabile evoluzione riscontrabile in ogni campo (dalla politica all’economia, dall’arte alla letteratura), non favorirono il “progresso” – ovvero il progresso nell’ unica accezione in cui oggi restrittivamente lo intendiamo:  quello tecnico.  L’aneddoto, vero o falso che sia, è comunque figlio del suo tempo ed è dunque testimonianza  non di un attenersi in modo ottuso alla tradizione, ma di una attitudine alla valutazione e alla scelta; storicamente è stato ad esempio dimostrato, che il mulino ad acqua diffusosi in Europa nel Medioevo, era già conosciuto dai Romani i quali però ne limitarono l’uso a vantaggio della forza lavoro umana.

Fino al Medioevo, in cui le innovazioni tecnologiche si succedettero a un ritmo sempre più intenso, il progresso tecnico venne considerato con dubbiosa ambivalenza: contrapposta all’entusiasmo c’era infatti la valutazione ponderata delle conseguenze che la novità avrebbe potuto causare. Oggi invece il progresso sembra non incutere timore, nella misura in cui qualsivoglia strumento di ultima generazione ( che sia materiale come un tablet o virtuale come un social) sembra essere da noi padroneggiato, sfruttato. Eppure se ci guardiamo bene, siamo tanto tragicamente quanto inconsapevolmente incastrati tra due dimensioni: quella dell’uomo primitivo che scopre il fuoco e istupidito dall’entusiasmo  lo venera come divinità, e quella dell’uomo che superato lo stupore, del fuoco si serve. Mentre siamo convinti di favorire la modernità e il progresso, sfruttando quotidianamente nuove strumentazioni, diveniamo schiavi di queste ultime, legati a queste ultime da catene d’oro che ci rendono incapaci di odiare la schiavitù. Sembra di assistere a quella che alcuni definirono “meccanizzazione della concezione dell’universo” in riferimento alla nuova concezione filosofico universale del Seicento. In quest’ansia di correre verso il futuro senza domandarsi quale futuro realmente  ci aspetti, la società lentamente si trasforma ai ritmi imposti dal progresso che i più identificano con la incalzante evoluzione tecnologica; la società si adegua ad un mondo che il mercato vuole consumista, che il progresso vuole connessa in tempo reale, che la modernità vuole social. Tutto di conseguenza viene vissuto in modo distorto, superficiale, malato; la nuova schiavitù invisibile da soggetto trasforma l’uomo nell’ oggetto di un’auto rappresentazione ai limiti del surreale: L’uomo moderno, è perennemente specchiato nel proprio riflesso  e pure perennemente in vetrina. Non  scatta foto ma si auto ritrae, non  legge ma  ha sempre qualcosa da raccontare. Siamo noi che siamo in stallo, noi che non riusciamo a vedere il progresso al di là della parola progresso, che restiamo assuefatti dalla modernità e dalle sue proposte, senza saper scegliere ciò che può esserci utile e scartare ciò che è solo ostacolo al vero progredire: quello dell’umanità. In tutto questo, la storiografia chiama “fallimento classico”, “stallo”,  il periodo in cui gli antichi non impiegarono nuove tecniche pur essendone a conoscenza. Eppure proprio da quell’epoca, derivano i fondamenti dell’arte, dell’architettura, della letteratura. Il vero fallimento è quello moderno, che si consuma sotto i nostri occhi ed è il più grave di tutti, perché l’uomo regredisce, mentre ha in mano gli strumenti del progresso.

“Temo il giorno in cui la tecnologia andrà oltre la nostra umanità: il mondo sarà popolato allora da una generazione di idioti.”