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Tentazioni pericolose

di Adriano Segatori - 12/01/2014

 

 

A osservare lo spettacolo quotidiano che l’apparato informativo ci offre c’è la tentazione di lasciar perdere ogni velleità di cambiamento, o quanto meno di ritirarsi in un volontario isolamento, lontano dalle agitazioni afinalistiche che caratterizzano questa epoca inesorabilmente alla deriva.

Ma c’è un’altra opzione non trascurabile, quella che molte decine di anni fa aveva un po’ suggestionato alcuni di noi: aumentare il più possibile la condizione di caos, fare implodere il sistema esasperando gli stessi obiettivi che stava perseguendo, con l’obiettivo riportato in una efficace rappresentazione, cioè ‘accelerarne l’emorragia e seppellirne il cadavere’.

L’ideologia del progresso è oramai oggettivamente in crisi, e tutti i benefici che erano stati esaltati si sono dimostrati non solo effimeri ma addirittura falsi, e comunque dannosi.

Addirittura il <<pensiero debole>> che secondo Vattimo avrebbe dovuto sostituire i grandi miti del passato si è ulteriormente liquefatto nell’indifferenzialismo, sia nella forma che nel contenuto. Siamo arrivati alle <<differenze variabili>> e alle <<identità flessibili>>, secondo una felice definizione di Alain de Benoist[1].

La famiglia, elemento essenziale dell’organismo comunitario, si è trasformata in una aggregazione tra soci, senza una funzione psichica e spirituale tra i suoi componenti, ma solo un contenitore di diversi egoismi e di reciproche insoddisfazioni. Padre e madre sono diventati ‘genitore a’ e ‘genitore b’, se di sesso diverso, mentre il figlio nato da questo accoppiamento – unione ha ben altra valenza e valore simbolico – può non essere identificato anagraficamente come maschio e femmina, ma anche ‘neutro’, istituzionalizzando una terza identità sessuale.

La sessualità – nella sua doppia componente erotica e pulsionale – ha negato decisamente la prima, ispirata al desiderio ed alla relazione,  liberando la seconda – espressione meccanica e vegetativa della voglia e della sua soddisfazione. L’antichissimo avvertimento di Sant’Agostino: “Ama; e fai ciò che vuoi”, è stata sostituita dalla prescrizione del Marchese De Sade: “Godi; e fai ciò che vuoi”, con ciò riportando l’uomo allo stadio di oggetto, di strumento effimero delle proprie distrazioni, di semplice congegno in comodato d’uso.

La gioventù è sempre stata vista e vissuta come una componente della trasmissione di princìpi della tradizione nell’ottica di una loro attualizzazione e valorizzazione nel presente e, quindi, di dispositivo per configurare il futuro. Oggi, in una esasperazione del novum, in una patologica agitazione neofilica, essa è diventata un contenitore insaziabile del relativismo progressista e contemporaneamente – per esogena induzione – una fonte inesauribile di sempre più manipolante esigenze.

Nell’attacco all’istituzione familiare non poteva essere trascurata l’offensiva nei confronti del Padre, scritto volutamente con la P maiuscola in quanto inteso come un diverso e un di più della semplificazione in ‘papà’, ‘paparino’, ‘papi’ o affini, ma quale rappresentazione simbolica della Legge, del Limite, del Reale, quindi del divieto e della proibizione. In una società dove la trasgressione è norma e la perversione è orientamento, salta ogni dispositivo limitante dato dall’esempio educativo paterno: <<Come vi può essere educazione – e dunque formazione – se l’imperativo che orienta il discorso sociale s’intona perversamente come un “Perché no?” che rende insensata ogni esperienza del limite?>>[2].

Ma prima di essere Padre, l’uomo è anche maschio – almeno secondo le leggi di natura –, e questo si confronta con una donna che – sempre secondo le stesse leggi – è anche femmina. Oggi, questi due generi identitari stanno svanendo. La donna in una mascolinizzazione di ruoli e di abbigliamento, con una disposizione al maternage malvissuta se non esplicitamente negata. L’uomo, d’altro canto, è stato svirilizzato nella sua espressività sociale e relazionale, quando non castrato da una campagna di criminalizzazione generalizzata all’insegna della denuncia mediatica del ‘femminicidio’. Il messaggio che viene fatto passare è il seguente: “Vedete quanta violenza si nasconde in un rapporto eterosessuale ed in una famiglia tradizionale?”. Le conseguenze sono più che evidenti.

Nel momento in cui l’Organizzazione Mondiale della Sanità, in accordo con l’agenzia governativa tedesca per l’Educazione sanitaria, dirama ai ministeri della Salute e dell’Istruzione europei un documento, qualificato come “Standard di Educazione Sessuale in Europa”, nel quale si definisce uno scadenzario di informazioni per i bambini e i giovani (da 0 a 4 anni sulla masturbazione; tra i 4 e i 6 sull’amore omosessuale; tra i 6 e i 9 su mestruazioni, eiaculazione e metodi contraccettivi; tra i 9 e i 12 sui rischi delle esperienze sessuali non protette; tra i 12 e i 15 sull’impatto della maternità in giovane età e cosa fare in caso di gravidanze indesiderate), vuol dire che si è abbandonato ogni discorso sull’inconscio, sull’affettività e sul legame sentimentale, per lasciare libero sfogo alle pulsioni e delegare alla regola meccanica della scienza e della tecnica qualunque indicazione pratica di approccio e di controllo del ‘problema’.

E quando l’Associazione Americana di Psichiatria, nel nuovo Manuale Diagnostico e Statistico delle malattie mentali (DSM-5), arzigogola un ragionamento pseudo clinico tra “pedofilia” e “disordine pedofiliaco”, per il quale la pedofilia passa da “disordine mentale” a diverso e banale “orientamento sessuale”, ciò vuol dire che si oltrepassa ogni barriera di ordine, per tracimare nella più pericolosa deriva relativista.

Quello che si nasconde dietro alla “retorica dei diritti” è un attacco concentrico contro l’uomo, in quanto essere differenziato in maschio e femmina, con funzioni fisiche e psichiche complementari, ultimo avamposto di una secolare legge di natura.

La “politica dei diritti” altro non è che la “dottrina delle voglie” egoistiche, l’attacco estremo agli ultimi residui del senso comunitario, con l’apoteosi dell’uguaglianza democratica: la fine della diversità fenotipica. Oramai, l’unica agenzia che osa ancora parlare di identità è quella preposta allo studio del genoma, che conferma una diversità ben nascosta tra le sequenze dei cromosomi. Per il resto, in ogni ambito della vita umana – dall’abbigliamento all’attività lavorativa, dall’estetica del corpo alle prestazioni sessuali, dalle competenze psichiche alla strutturazione dell’inconscio – tutto deve essere ridotto ad una melassa indifferenziata, ad una impersonale unità mobile.

Dove un tempo c’era un confronto – e se vogliamo anche un costruttivo ed indispensabile conflitto da gestire –, ora c’è solo una continua uniformizzazione reciproca su domande e richieste che vengono circolarmente proposte. Alla fine, ci si trova di fronte ad una massa di infiniti Falsi-Sé, di maschere eterodirette senza una reale espressione di desideri personali, ma solo continuamente modificate da nuove voglie e nuove esigenze artatamente sobillate.

La cosa fastidiosa e ridicola insieme è che mai come negli ultimi decenni – da sociologici, psichiatri e filosofi alla moda – si continua a parlare di “soggetto”, con un chiaro riferimento a quel dispositivo tutto moderno di porre la soggettività al centro di tutto. Ma nessuno ha il coraggio di denunciare la trasformazione del tutto in una unica soggettività, senza sfumature, competenze particolari e peculiarità di forma e di contenuto. L’uomo ‘nuovo’ è un non-uomo, è un essere privo di connotazioni, buono per ogni pubblicità e per ogni manipolazione. È questo, in fondo, il risultato del conformismo, con la conseguente necessità – o se vogliamo perversione – di dover definire una pseudo unicità attraverso becere manifestazioni esibizionistiche prive di ogni valore simbolico.

A questo punto, la tentazione confessata all’inizio è grande. Invece di faticare a sistemare qualche argine a questa visibile tracimazione del nulla, verrebbe la voglia di mettere fine a quelle che in altre occasioni ho definito “le cure palliative di una civiltà terminale” per prendere atto semplicemente della fine di un ciclo storico e umano. Forse non siamo pronti a riconoscere questo stadio, come i parenti dell’ammalato che credono sempre ad un possibile miracolo. Preso atto di ciò, almeno abbiamo la coscienza pulita per non essere mai stati complici di nessuna illusione, e accettiamo il ruolo di testimoni critici di questo sfacelo.

 

 

 

 



[1] A. de BENOIST (Presentazione a), L. IANNONE, Il profumo del nichilismo, Solfanelli, Chieti, 2012, p. 9.

[2] M. RECALCATI, Cosa resta del padre?, Raffaello Cortina, Milano 2011, p. 104.