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1914-2014. Senza guerra né pace

di Lucio Caracciolo - 12/01/2014

Fonte: La Repubblica





Cento anni fa scoppiava la «guerra per finire tutte le guerre», come la definì già nell’agosto 1914, in una fortunata serie di articoli poi raccolti in libello, lo scrittore britannico Herbert George Wells. Sentenza degna del padre fondatore della fantascienza, resa poi celebre da un leader politico molto immaginifico, il presidente americano Woodrow Wilson.
Da allora il mondo ha conosciuto centinaia di conflitti, di cui almeno una cinquantina ad alta o media intensità, che hanno falciato almeno centotrenta milioni di vite umane, oltre la metà delle quali nelle due guerre mondiali (quindici nella Prima, sessanta nella Seconda). Attualmente sono in corso una decina di conflitti che producono più di un migliaio di morti all’anno. Il più tragico è quello di Siria: oltre centotrentamila morti. La tendenza umana ad annientarsi reciprocamente per quote di potere, territorio e ricchezza — e per qualcosa che usiamo chiamare “onore” — visibile fin dall’alba della storia, ha avuto ragione dell’ottimismo di Wells.
Ma come è cambiata la guerra, dalla Grande Guerra a oggi? Molto, anche se meno di quanto correntemente si pensi. I principali mutamenti sono di tre ordini: riguardano gli attori, e quindi le vittime; le tecnologie belliche; la relazione con la politica.
Fino alla Prima guerra mondiale (inclusa), i conflitti moderni erano condotti essenzialmente da e fra soldati, in spazi limitati. Militare era per conseguenza la maggior parte dei caduti. Già nella Seconda guerra mondiale il numero dei morti civili eccede quello dei militari. Non solo perché i combattimenti escono dalle trincee e dai campi di battaglia per dilatarsi spesso nel cuore dei centri abitati, ma anche per le nuove tecnologie, a cominciare da esplosivi sempre più potenti e impiegabili a vasto raggio. La guerra area, in particolare i bombardamenti terroristici contro la popolazione civile — che i britannici identificano con Coventry (e Londra), i tedeschi con Dresda, i giapponesi con le bombe convenzionali su Tokyo e le atomiche su Hiroshima e Nagasaki — segna una svolta sia nelle dottrine militari (ricordiamo il nostro Giulio Douhet, che nel 1921 pubblica il suo Dominio dell’aria) che nella percezione delle opinioni pubbliche. Al punto che “solo” tremila morti civili — non le centinaia di migliaia dei bombardamenti a tappeto della Seconda guerra mondiale — in un attacco aereo non convenzionale contro le Torri Gemelle di New York, l’11 settembre 2001, marcano un tornante storico.
Una nuova frontiera tecnologica è offerta dalla guerra cibernetica (cyberwarfare), che viene incontro a una necessità assai sentita nelle società occidentali o comunque benestanti: ridurre la visibilità del conflitto e limitare al massimo le perdite. Almeno le proprie, specie se civili. Ma proprio tali caratteristiche ci rendono più vulnerabili al terrorismo, agli attacchi “asimmetrici”, in cui il duellante più debole sfrutta a proprio vantaggio la strapotenza del più forte.
La scarsa disponibilità occidentale a morire per la patria e a impegnarsi in guerre massicce e prolungate, accentuata dall’«inutile strage» del 1914-18, ha indotto alcuni studiosi a dichiarare la morte della guerra, almeno nel senso tradizionale del termine. I conflitti nei quali sono impegnate le Forze armate dei paesi Nato (esemplare il caso afgano) non vengono ufficialmente definiti tali, ma declassati a “operazioni di pace” per non turbare le troppo sensibili opinioni pubbliche e forse anche le coscienze di alcuni decisori che hanno bisogno di credere alla propria propaganda.
Se fino a metà del secolo scorso le guerre potevano essere rappresentate come esplosioni di violenza delimitate nello spazio e nel tempo, i conflitti attuali sarebbero leggibili come un continuum: una costante tensione latente che ha i suoi picchi e le sue pause, non più un inizio e una fine (si pensi ai Balcani, da Sarajevo a Sarajevo, e oltre). Così a morire non è tanto la guerra quanto la pace.
Di sicuro è in crisi, se non defunto, il paradigma classico che vuole la guerra continuazione della politica con altri mezzi. L’impiego della forza è spesso astrategico, nel senso che non persegue un fine politico determinato. O quanto meno, gli obiettivi sono alquanto fungibili e mutevoli, soprattutto in conseguenza degli umori delle opinioni pubbliche domestiche e internazionali.
Lasciamo stare i Balcani o l’Afghanistan: qualcuno è in grado di spiegare in una frase l’obiettivo della guerra americana al terrorismo, dopo l’11 settembre? Certamente non seppe farlo George W. Bush — si contano una trentina di sue spiegazioni, spesso contraddittorie — mentre l’attuale presidente Barack Obama ha preferito rinunciare a chiamarla per nome, per proseguirla in modo meno visibile (cibernetica, droni, operazioni coperte) ma non meno letale.
In ogni guerra, specie in quelle a noi contemporanee, riposa dunque una componente irrazionale, che spin doctor, accademici e strateghi militari — talvolta la stessa persona con tre cappelli — cercano di ridurre ad algoritmo. A questa costante non si può sfuggire. La guerra è anzitutto e sempre avventura, sanguinosa e paradossalmente fascinosa. Poiché lo spirito d’avventura appare troppo umano per essere debellato, la profezia di Wells dovrà sopportare, per il tempo prevedibile, le dure repliche della Storia.