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È fondata l’idea che Spinoza sia stato un precursore del pensiero ecologista?

di Francesco Lamendola - 21/01/2014




 

Capita abbastanza spesso, da alcuni anni a questa parte, di imbattersi in pensieri e riflessioni, soprattutto nella galassia ambientalista, che tendono proporre Spinoza nelle vesti di precursore dell’idea ecologista, insomma nelle improbabili vesti di un Murray Bookchin, o magari in quelle di un Arne Naess, del XVII secolo.

Diciamo “improbabili vesti” perché si tratta di una operazione culturale - peraltro non solo poco fondata criticamente, ma perfino, in molti casi, scarsamente consapevole - che non può non lasciare estremamente perplessi, sia per ragioni di metodo che di merito. Di metodo, perché scoprire e rintracciare simili parentele e simili affinità, tra epoche diverse e differenti paradigmi culturali, è sempre cosa di dubbio valore e significato, tanto è vero che consente di affermare tutto e il contrario di tutto (un metodo di lavoro intellettuale che, secondo la nota formula di Popper, non è falsificabile, e dunque non è scientifico). Di merito, perché il pensiero di Spinoza è panteista e naturalista; e dal panteismo e dal naturalismo si può benissimo far derivare una sensibilità “ambientalista”, ma a patto di una forzatura evidente, visto che l’ambientalismo e l’ecologismo non corrispondono a un puro e semplice riconoscimento della centralità della natura, ma ad una riflessione critica su come contemperare le necessità umane con la salvaguardia di essa. Del resto, di Spinoza come ecologista abbiamo già avuto occasione di parlare e di dubitare seriamente (cfr. il nostro precedente articolo: «I filosofi e gli animali: i ragni di Spinoza e le mosche di Leibniz», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 11/12/2007).

Ciò non toglie che la leggenda di uno Spinoza filosofo dell’ambiente e intrepido difensore della natura continui a propagarsi e venga continuamente raccolta e ripresa, ora qui, ora là, specialmente da parte di quegli ambientalisti e di quegli ecologisti i quali sembrano non poter fare a meno del sostegno ideologico e, si direbbe, morale, di qualche filosofo importante del passato, di qualche pensatore conosciuto da ampi strati di pubblico, da arruolare nel loro schieramento e da sventolare vigorosamente, ad ogni occasione possibile, come una bandiera.

Questo modo di pensare nasce da un ulteriore equivoco, e cioè dall’idea che, ai tempi di Spinoza, il problema ecologico non esistesse – lo vedremo anche nello scritto che ci accingiamo a citare – e che, pertanto, criticando l’antropocentrismo, Spinoza sarebbe stato particolarmente lungimirante, ovvero avrebbe dimostrato una sensibilità “moderna”: espressione, quest’ultima, che piace tanto a tutti coloro i quali ritengono la modernità (anche quando la criticano) una specie di parola magica, una bacchetta fatata, che ispira di per sé attenzione e rispetto. Strana circolarità del ragionamento. Pensano: la modernità ha prodotto la devastazione ecologica, ma è pur sempre un valore auto-evidente, un insieme di cose e di idee che nessuno potrebbe ragionevolmente misconoscere; dunque, dare la patente di moderno a qualcuno equivale a nobilitarlo; ed eleggere questo qualcuno a proprio  nume tutelare, significa nobilitare, di riflesso, anche se stessi.

Non è forse quello che fanno molti storici della letteratura, quando dicono con enfasi, per esempio, che Petrarca è stato un poeta “moderno”, magari mettendolo a confronto con il “medievale” Dante, incapace quest’ultimo, secondo loro, di liberarsi dalle armature ideologiche del suo tempo: l’allegoria, la Scolastica, l’aristotelismo, la concezione tolemaica dell’universo e, di conseguenza, l’antropocentrismo, sia pure subordinato al piano del divino? E non si accorgono, a quanto pare, codesti signori, che Petrarca, coi suoi dubbi e travagli interiori, con la sua accidia e con la sua lacerazione spirituale, è vero, risulta senz’altro più “moderno” di Dante: ma proprio perché Dante non è “medievale”, o non è solo medievale, bensì è poeta assoluto, tanto più grande di Petrarca quanto il mare, che spazia immenso, è più grande dei fiumi che si affrettano e si affannano verso di esso, ora gonfi di pioggia, ora talmente inariditi da mostrare il greto asciutto e sassoso. Potenza delle parole: anche quanti criticano gli aspetti negativi della modernità, non riescono a sottrarsi al fascino dell’espressione: dire moderno a qualcuno equivale a fargli un complimento; dire che non è moderno, significa sminuirlo, rimpicciolirlo.

Un esempio della pretesa sensibilità ecologista di Spinoza è offerto da un articolo di Ugo Macchia, di cui riportiamo una parte (U. Macchia, «Spinoza ecologo ante litteram? Suggerimenti per una  filosofia ambientalista negli scritti di Benedetto Spinoza», in: «Ricerche di stile», a cura di Elena Passerini, Gruppo di Lavoro Stili di Vita del WWF Italia, 1996, pp. 16-25):

 

«Negli ultimi tempi le teorie ecologiche hanno sentito l’esigenza di confortare con più solidi fondamenti le istanze portate avanti sino ad ora. […] In Spinoza c’è una forte polemica sul concetto antropocentrico del mondo, pur non rinunciando al principio della libertà umana; la natura non è sottomessa alla ragione umana, ciò che quest’ultima considera cattivo non lo è affatto se si considerano l’ordine e le leggi dell’universo; il pregiudizio nasce dall’attribuzione del concetto di perfezione a sfere che non sono interessate ad esso. Per Spinoza essere e perfezione sono sinonimi:  la natura dell’uomo non è di violare la legge della natura, ma di poter salire e scendere nella potenza di esistere; in ogni caso non c’è violazione delle leggi naturali neanche nelle passioni umane. Dal punto di vista soggettivo c’è casualità, dal punto di vista oggettivo c’è necessità. Si tratta di comprendere ciò che è necessario; in questo modo le possibilità del soggetto aumentano e la libertà non scompare, perché subentra per il singolo la possibilità di inserirsi in giochi di necessità da cui era escluso e così, in un certo modo, il necessario genera dal suo interno il possibile. [Segue una lunga citazione dall’«Etica» del filosofo ebreo olandese, di cui riportiamo solo l’inizio e la fine.]

“Tutti i pregiudizi che qui mi propongo d’indicare, dipendono da questo solo pregiudizio, cioè che gli uomini suppongono comunemente che tutte le cose della natura agiscano, come essi stessi, in vista di un fine, e anzi ammettono come cosa certa che Dio stesso diriga tutto verso un fine determinato: dicono infatti che Dio ha fatto tutto in vista dell’uomo, e ha fatto l’uomo perché lo adorasse. […] Gli uomini sogliono formare, tanto delle cose naturali che delle cose artificiali, delle idee universali che ritengono modelli delle cose e credono che la natura stia a guardare e si proponga come modello. Quando dunque vedono accadere nella natura qualche cosa che s’accorda poco col modello preconcetto che essi hanno di una tale cosa, allora credono che la natura stessa si sia trovata in difetto. […] Vediamo quindi che gli uomini sono abituati a chiamare perfette o imperfette le cose naturali più per pregiudizio che per una vera conoscenza di queste cose.”

Spinoza è dunque un ecologista ante litteram? Probabilmente non erano queste le sue intenzioni, né ai suoi tempi c’era bisogno di ecologi. Tuttavia egli ci dà delle utili indicazioni di massima; a nostro modo di vedere, un’etica credibile non può prescindere da qualche principio che posa conferire unità e coerenza al comportamento e, al contempo, costituire una base comune di con divisibilità.

Quel che può allora insegnarci il filosofo olandese è soprattutto l’esigenza di riconoscere la nostra limitatezza, da cui deriva lo sforzo di avere idee il più possibile adeguate di ciò che ci circonda, al fine di non essere completamente succubi di potenze esterne. Ma questo tentativo di affrancamento dalla passività non va inteso come asservimento della natura, ma come continuo adeguamento e inserimento in qualcosa che non dipende da noi se non in minima parte. In ciò ci può dare senz’altro una mano la fiducia nella ragionevolezza, che ci aiuta, prima d tutto, a costruire un dialogo con i nostri simili e, in secondo luogo, a rintracciare un senso nel mondo naturale. Si noti che per ragionevolezza intendiamo non una ragione autarchica  che divora se stessa, ma una ragione che si lascia guidare dalla natura, in conformità all’antica filosofia stoica di cui il Nostro era buon conoscitore.»

 

Abbiamo già osservato quanto sia gratuito immaginare che il problema ecologico, ai tempi di Spinoza, non si ponesse; e ciò è tanto più vero in un paese come l’Olanda, dove le modificazioni radicali apportate dall’uomo all’ambiente naturale erano notevolissime, in particolare con la costruzione delle gigantesche dighe sul Mare del Nord, per strappare ad esso superfici coltivabili, mediante il prosciugamento degli acquitrini salmastri venutisi così a creare. E che dire dei cacciatori di foche, di trichechi e di balene olandesi, che si spingevano su tutti i mari del mondo, portando queste specie di mammiferi vicine all’estinzione, come accadde – per gli uccelli -  al famoso Dodo dell’isola Mauritius? Ma lasciamo stare ciò, e limitiamoci all’aspetto puramente speculativo del cosiddetto pensiero ecologista di Spinoza. Il filosofo ebreo olandese svolge tutto il suo ragionamento sull’etica a partire da una concezione rigorosamente panteista, la qual cosa lo porta a criticare aspramente la visione antropocentrica: non è vero, egli dice, che ciò che è buono o cattivo per l’uomo, sia buono o cattivo dal punto di vista della natura; e, siccome per lui la natura è Dio, non si può nemmeno dire che quelle tali cose siano da giudicarsi buone o cattive in assoluto.

Questa, semplificata al massimo (ce ne rendiamo conto), la posizione di Spinoza: vediamo adesso perché una tale concezione non ha niente a che fare con l’ecologismo. Quel che Spinoza vuol dimostrare è che Dio e il mondo sono una cosa sola («Deus sive Natura»); di conseguenza, tutto ciò che è naturale, è, per lui, anche necessario; ma l’uomo si è distaccato dalla natura, dunque si è distaccato anche da Dio. Critica il finalismo perché il suo Dio non è creatore, non ha fatto il mondo, ma È il mondo; e se è il mondo, allora non mira a nient’altro che non sia già all’opera nella natura, non tende a nulla, non ha altro scopo che se stesso. Non si capisce bene a cosa serva un Dio del genere (e abbiamo il diritto di domandarlo, visto che Spinoza critica quanti credono in un Dio che ha creato il mondo per essere adorato dagli uomini): dopotutto, per quel che ne sappiamo, non si dovrebbe nemmeno escludere che la natura, in realtà, tenda a qualcosa. Tuttavia, siccome ciò urta contro il dogma spinoziano di base, ossia il panteismo, quest’ultima possibilità viene scartata senz’altro e, anzi, il finalismo viene portato ad esempio di un modo di ragionare tipicamente umano, limitato e presuntuoso. Gli uomini, dice Spinoza, tendono sempre ad un fine, perché hanno un interesse; ma Dio, che non ha alcun interesse da difendere, non ha bisogno di tendere a niente. Non è un ragionamento particolarmente raffinato, perché contiene già, nelle premesse, la tesi che vuole sviluppare; ma pazienza: ci basta qui averlo evidenziato.

In che cosa questo panteismo a-finalistico sarebbe parente del pensiero ecologista? Forse nel fatto che Spinoza critica l’estensione del finalismo dal piano dell’etica umana a quello della necessità divina? Ci sembra veramente troppo poco: tanto più che, se fosse vero che l’uomo pensa ed agisce solo in base ad un interesse, allora anche il rispetto della natura non scaturirebbe che da un misero opportunismo, dalla volontà di non provocare il proprio danno. Questo, almeno, data la premessa antropologica: che l’uomo, cioè, sia un essere sempre e comunque interessato.

La concezione ecologista è una cosa completamente diversa: essa non nasce solo da un calcolo d’interesse, ma dalla consapevolezza della necessità d’un equilibrio globale fra gli esseri umani e la natura. Per il pensiero ecologista, l’uomo non può essere in guerra contro la natura, perché anch’egli fa parte della natura: un concetto, questo, assai arduo da applicare alla filosofia di Spinoza, che è una tipica espressione del razionalismo del XVII secolo. Spinoza non si pone dal punto di vista delle altre creature viventi, non fa questione di un loro “diritto” al rispetto da parte dell’uomo; si limita a negare che l’uomo possa applicare ai processi della natura i propri concetti di “buono” e “cattivo”, che possa estendere al mondo fisico i propri giudizi etici. In altre parole, non è interessato alla giustizia nei confronti delle creature non umane; il suo approccio è puramente teorico e razionale: gli basta che l’uomo non applichi al mondo della natura le proprie categorie di giudizio. La natura è perfetta, perché è divina: e l’uomo deve rendersi conto che non può giudicare imperfetto ciò che è divino, anche se produce degli effetti che, per lui, risultano negativi, come le malattie.

Il pensiero ecologista può sposarsi con il pensiero cristiano (vedi San Francesco: lui sì, se proprio vogliamo fare di questi esercizi, un precursore dell’ecologismo), perché quest’ultimo vede la natura come una mirabile opera di Dio, niente affatto cattiva in se stessa, anzi originariamente buona, poi ferita dal trauma del peccato, ma destinata, infine, alla redenzione. Invece il panteismo non può in alcun modo conciliarsi con il cristianesimo, perché al panteismo ripugna profondamente l’idea di un Dio creatore, il quale, per giunta, si fa uomo, muore e risorge per amore delle sue creature…