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La lezione della storia profonda

di Michele Vignodelli - 31/01/2014

 

 

La nostra cultura ci ha insegnato che la storia umana comincia 7.000 anni fa con la nascita delle prime civiltà urbane stratificate. Tutto ciò che la precede non è altro che pre-istoria, il brutale prologo animale od ominoide dell’autentica vicenda umana. 

Ora però sappiamo con certezza che Homo sapiens esiste da quasi 200.000 anni con il pieno delle sue capacità intellettive, linguistiche e sociali. L’illusione che queste si fossero sviluppate solo negli ultimi 35.000 anni, in Europa (e dove se no?), non era altro che una favola miope e razzista: non appena la ricerca sistematica è arrivata in Africa sono saltati fuori reperti “mesolitici” vecchi più di centomila anni (1). 

Questo tempo lunghissimo senza “progresso” accumulativo non è quindi la premessa insignificante alla vera Storia, ma il vero Antropocene, l’era della simbiosi armoniosa tra umanità e biosfera, cultura e natura: la nostra storia profonda.

Non è più accettabile la sua definizione in negativo come mancanza di civiltà: la vita sociale paleolitica era estremamente complessa e articolata, secondo uno schema caratteristico e completamente diverso da quello che oggi ci fanno credere sia “normale” per gli umani.

Si viveva in società di piccola scala, altamente fluide nella loro composizione e rigorosamente egualitarie e anarchiche. Erano egualitarie non per “pigrizia”, per mancanza di stimoli a competere, ma per una affermazione attiva e una ricerca costante dell’uguaglianza, attraverso la ridicolizzazione, l’ostracismo, l’espulsione e nei casi estremi anche l’omicidio degli ambiziosi, arroganti ed egoisti. In un contesto stabile e pacifico, infatti, le comunità egualitarie sono più efficienti di quelle gerarchiche e stratificate; tra l’altro, corrono minori rischi di estinguersi perché tendono alla stabilità demografica (2).

Le decisioni erano decentralizzate e la leadership ad hoc; non esistevano capi. C’erano sporadici scontri tra individui, ovviamente, ma non esistevano conflitti organizzati tra gruppi. Nè esistevano forti concetti di proprietà privata e quindi il bisogno di difesa territoriale. Queste norme sociali si applicavano anche ai ruoli di genere; le donne erano importanti produttori e avevano potere, e i matrimoni erano tipicamente monogami.

Mantenere questo livellamento era questione di sopravvivenza. Questi gruppi di raccoglitori nomadi su piccola scala non immagazzinavano molto cibo, e data la natura imprevedibile della caccia – il fatto che in un certo giorno o settimana si poteva tornare a mani vuote – era necessario condividere e cooperare per assicurare a tutti qualcosa da mangiare. Chiunque avesse cercato di imporsi o di ottenere più della sua parte sarebbe stato ridicolizzato od ostracizzato per la sua arroganza. La soppressione delle gerarchie di dominanza dei nostri antenati primati e l’affermazione di questi valori egualitari fu un adattamento centrale dell’evoluzione umana, perchè promosse la cooperazione e ridusse i rischi.

Questo modo di vivere era altamente ottimizzato con la natura umana e armonicamente integrato con gli ecosistemi. In mancanza di una “corsa agli armamenti” tra i gruppi, l’evoluzione tecnologica era bi-direzionale: andava verso una maggiore complessità solo in risposta a variazioni negative dell’habitat, ma andava verso la semplificazione quando procurarsi cibo e riparo diventava più facile, ad esempio in risposta a un clima più umido e caldo. Produrre attrezzi sofisticati in piccole società egualitarie è infatti un costo oneroso che grava su ogni individuo e a cui si rinunciava volentieri non appena possibile. Raggiunto il livello di sussistenza, nelle società egualitarie si tende a lavorare di meno, occupando più tempo nella socialità. Per questa ragione il livello di complessità della tecnologia paleolitica rimase sostanzialmente e “inesplicabilmente” stabile (1).

Poi, improvvisamente, in qualche remoto luogo del mondo è accaduto qualcosa di sorprendente: in seguito a una violenta transizione climatica, connessa alla fine dell’ultima glaciazione, c’è stato uno “switch”, un salto di fase in cui alcune società sono diventate chiuse, aggressive e militarizzate, rinunciando ai valori che avevano sempre affermato come centrali.

I cereali, a cui si erano affidate completamente, si trasformarono autonomamente in armi formidabili nella competizione tra i gruppi: producevano una esplosione demografica locale, generando tensioni interne ed ambientali che ora potevano essere alleviate solo con una politica di espansione territoriale, facilitata dalle dimensioni stesse dei gruppi. Le società bellicose ed espansioniste funzionano meglio se sono rigide, autoritarie e gerarchizzate, anche perché possono concentrare le perdite alla base della piramide organizzativa, tutelando i livelli superiori (un esercito egualitario e liberale è votato alla sconfitta). Quindi la spinta primaria e istintiva verso l’eguaglianza venne subordinata al becero entusiasmo per facili vittorie, orge e conquiste. Le “magnifiche sorti” dell’avvenire, unico motivo per cui gli “ultimi” accettano addirittura con entusiasmo di essere seviziati dai potenti che li guidano. Queste nuove società stratificate avevano successo su quelle egualitarie proprio grazie alla sofferenza che creavano: generavano masse di diseredati, oppresse e decimate da ricorrenti carestie, che premevano per migrare altrove e farsi una nuova vita. In questo modo si espandevano e si stratificavano sempre di più.

Questa nuova organizzazione sociale si potrebbe chiamare “fascismo profondo”. Sul piano psicologico è una sorta di patologia paranoica, alimentata dall’angoscia per la perdita di autonomia individuale. Per la grande maggioranza delle persone è una vera “sindrome di Stoccolma”: adorazione dei propri carnefici, fino al punto di sacrificare la vita per il Re, per Dio o per la Patria.

All’inizio della prima guerra mondiale, 300.000 giovani britannici si arruolarono volontari e morirono quasi tutti nei quattro anni successivi. Simili esempi di follia suicida sono innumerevoli nella “storia”. La complessa sovrastruttura tecnica e organizzativa delle società urbane ha fin da subito cominciato a sottrarsi al controllo sociale, evolvendosi autonomamente per i propri fini espansivi (3). Persa la propria autonomia di sussistenza, divenuti dipendenti da innumerevoli stimoli artificiali che formano un involucro tra sé e il mondo esterno, gli individui e le famiglie possono essere accuratamente manipolati e sviati dal loro interesse personale, in favore dei macro-sistemi oppressivi in cui sono incapsulati.

I sistemi ideologici del passato (fede, nazione) sono stati largamente sostituiti da un potente condizionamento trans-culturale di natura tecnologica, a cui siamo così devoti da rinunciare addirittura a fare figli per inseguire le esche universali del consumo-comunicazione-lavoro compulsivo. I macro-sistemi urbani non hanno più bisogno di grandi eserciti per affermarsi, la loro capacità di reclutamento parla oggi una lingua universale che ha travolto ogni confine. L’esito finale è ben visibile: l’emarginazione dell’umanità a corollario imbelle e inetto di una mega-macchina globale. Ben venga quindi il suo inevitabile collasso sistemico, a cui sopravviverà solo chi avrà saputo prendere le distanze dalla trappola tecnologica.

 

(1) – John J. Shea, Un’idea sbagliata sulle origini dell’uomo – Le Scienze, Marzo 2012

http://www.lescienze.it/archivio/articoli/2012/03/01/news/un_idea_sbagliata_sulle_origini_dell_uomo-880738

 

(2) – Deborah S. Rogers, The Spread of Inequality

http://www.plosone.org/article/info%3Adoi%2F10.1371%2Fjournal.pone.0024683

 

(3) – Kevin Kelly, Che cosa vuole la tecnologia – Codice Edizioni (2011)