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Si deve ripensare la filosofia in funzione del progresso scientifico?

di Francesco Lamendola - 31/01/2014


Tecnoscienza


 

Gli assunti della filosofia sono perenni oppure devono essere continuamente ripensati in funzione dell’evoluzione storica; e, nel nostro caso, in funzione del moderno progresso scientifico, elemento caratterizzante della civiltà contemporanea?

Posta così la domanda, è quasi impossibile evitare la sensazione che, se si risponde negativamente, automaticamente si passerà per ottusi conservatori e per sostenitori presuntuosi di una supposta immobilità della “sophia perennis”; in altre parole, per individui che sono rimasti fermi al cosmo geocentrico e alla pretesa che l’universo debba seguitare a girare intorno all’uomo, alle sue certezze, alla sua pretesa di una conoscenza fuori del tempo.

Sarebbe meglio, comunque, chiedersi preliminarmente che cosa sia la filosofia e che cosa voglia dire, in concreto, filosofare; soltanto in seguito si potrà tentare di rispondere. Ebbene, fare filosofia significa, semplicemente, pensare: ma pensare a trecentosessanta gradi, pensare all’intero e non alle parti, dunque pensare anzitutto il problema dell’essere e solo in via collaterale pensare le singole questioni, che di tale problema non sono che il riflesso e la conseguenza. Come dice Platone: filosofo è chi sa considerare l’intero; e chi no, no. Dunque la filosofia della politica, la filosofia della religione, la filosofia dell’arte, la filosofia della scienza e così via, altro non sono che riflessi e conseguenze della filosofia in quanto tale, che è la filosofia del tutto, vale a dire l’ontologia, la filosofia dell’essere.

La filosofia moderna è ancora una filosofia di questo tipo? Si direbbe proprio di no: da Kant in poi, essa ha rinunciato a porsi la domanda sulla cosa in sé; e, dall’avvento dei vari storicismi, esistenzialismi,  della fenomenologia, del cosiddetto pensiero debole, ha limitato sempre più il suo campo, fino a concentrarsi sui dettagli, senza più vedere l’intero. Il filosofo contemporaneo è, di solito, uno strano signore, che concentra tutta la sua ricerca su singoli aspetti del reale e pretende di giungere a delle conclusioni di portata universale, ignorando però l’intero. In un certo senso, egli è l’esempio vivente della mentalità riduzionista oggi imperante: di quella mentalità, cioè, secondo la quale il medico può curare l’organo malato senza curarsi dell’intero organismo; l’ingegnere può progettare e costruire ponti, dighe, laghi artificiali, senza tener conto dell’ambiente circostante; e lo studioso di linguistica può cercar di spiegare la nascita e l’evoluzione di una lingua, senza mai domandarsi cosa sia il linguaggio, quali rapporti sociali lo influenzino, quali vicende storiche lo modifichino.

La filosofia, dunque, è lo sforzo della ragione umana per fondare la conoscenza del reale – non di questa o quella realtà, ma del reale in se stesso – su delle basi solide e permanenti, secondo procedimenti logici, e senza escludere affatto la possibilità che il reale, mano a mano che si tenta di penetrarne il segreto, si riveli talmente complesso da non lasciarsi accostare con procedimenti puramente logici, ma rinvii a delle forme di conoscenza le quali, pur non essendo affatto nemiche della logica e del pensiero razionale, vanno però molto al di là e al di sopra di essi.

Se tale è la filosofia, ne consegue che il pensiero filosofico non viene sostanzialmente modificato dall’evoluzione del contesto culturale: cambierà, semmai, il linguaggio, il modo di descrivere la ricerca, ma non la ricerca in se stessa: perché la ricerca filosofica è la ricerca intorno all’essere, e l’essere, per definizione, non cambia: è sempre uguale a se stesso, fermo eppure causa del movimento di ogni cosa, così come il perno della ruota (la similitudine è dantesca) sta fermo al centro del movimento dei raggi della ruota stessa.

Nondimeno, l’epistemologia contemporanea, avendo per oggetto un campo di ricerca che ha compiuto, e continua a compiere, progressi sbalorditivi quasi ad ogni giorno che passa, e che hanno letteralmente rivoluzionato il mondo intorno a noi, da qualche tempo avanza la pretesa di rimettere in discussione tale certezza, anzi, ritiene di averla già messa in soffitta, in nome di un’altra concezione, secondo la quale il rapido sviluppo della scienza esige che la filosofia si adegui ad esso e si sottoponga a una radicale modifica del proprio statuto essenziale. In altre parole, la scienza moderna pretende che la filosofia si metta al passo con i suoi cambiamenti e che divenga non più ricerca intorno all’essere, ma riflessione intorno alle mutevoli verità, che la scienza medesima viene via via scoprendo ed affermando; che sorga, insomma, una filosofia nuova, fatta su misura per l’età della scienza e della tecnica, in luogo della vecchia e sorpassata filosofia, costruita intorno a un mondo concettuale che tendeva a rimane fermo o che, tutt’al più, evolveva solo con estrema lentezza.

Gilbert Hottois, filosofo belga nato nel 1946, professore all’università di Bruxelles, è, fra gli altri, di questo parere; e il suo libro «Il simbolo e la tecnica. Una filosofia per l‘età della tecno-scienza» va proprio, sin dal titolo, in tale direzione. Hottois è anche membro di svariati comitati etici ed è considerato un esperto di questioni etiche legate alla scienza; ed è chiaro che gli sviluppi folgoranti e dirompenti della ricerca scientifica, mettendo in crisi certezze morali acquisite e consolidate da secoli, pongono continuamente problemi nuovi, davanti ai quali tutti ci sentiamo impreparati, e che tendono a scavalcare non solo il sentire comune delle persone, ma anche la legislazione dei parlamenti e dei governi, troppo lenti, anch’essi, a recepire il senso dei cambiamenti in atto e a trarne le necessarie conseguenze. Questo, però, non significa che l’etica, e più in generale la filosofia, debbano rivedere continuamente le proprie acquisizioni; significa semplicemente che devono rivedere il contesto storico nel quale esse sono applicabili. Opinare diversamente, significa trarre delle conclusioni maggiori di quanto non sia presente nella premessa, cioè che la tecno-scienza sta ponendoci ogni giorno davanti a problemi etici impensati; la conclusione non è detto che debba consistere in una “revisione permanente” dell’etica, ma potrebbe essere, invece, che le verità dell’etica, di per sé stabili e definitive, devono essere interpretate alla luce delle nuove situazioni. Così, almeno, ragiona chi crede nella filosofia come ragionamento sull’essere: perché l’essere, ripetiamo, non cambia a seconda dei tempi e delle mode; l’essere è eterno, assoluto, perfetto, e solo la conoscenza intorno ad esso sarà, necessariamente, imperfetta, parziale, contingente.

A monte di tale discussione, comunque – non possiamo e non vogliamo nasconderlo - sta una questione di portata molto più generale: la filosofia, e l’etica che ne è una diramazione, è stata considerata, dai pensatori del passato, come una ricerca intorno all’uomo, o, almeno, incentrata sull’uomo, visto come una “eccezione” nel panorama del reale, vale a dire come il solo ente capace di auto-riflessione e, dunque, il più evoluto del cosmo; il solo che meriti di essere considerato come soggetto e non solo come oggetto, in senso proprio, della ricerca medesima. Ma, si obietta oggi da più parti, se tale pretesa fosse infondata; se l’uomo non fosse affatto l’”eccezione”; se la sua posizione nell’ambito del reale fosse pari a quella di tutti gli altri enti, e, dunque, se la sua pretesa di essere l’unico soggetto pensante non avesse alcun fondamento? In tal caso, si potrebbe ancora fare filosofia alla vecchia maniera, cioè fondando la ricerca sul concetto dell’essere?

In particolare: se si assume come punto di partenza l’evoluzionismo biologico, bisogna per forza di cose ammettere che l’uomo, come le altre specie viventi, non è una specie fissa e immutabile, ma si va modificando; e che, in un futuro imprecisato, sarà diventato radicalmente altro da quello che è attualmente: non sarà più “l’uomo”, così come lo conosciamo oggi, ma una forma vivente che, allo stato attuale, possiamo a fatica immaginare. Potrebbe diventare, per esempio, una specie in parte naturale e in parte artificiale, una sorta di cyborg dotato di ogni attrezzatura tecnologica per fronteggiare molte possibili evenienze storiche, climatiche, ambientali, e per sopravvivere senza bisogno di soddisfare quei bisogni che sono, invece, assolutamente vitali per l’uomo odierno, oltre che senza bisogno di ricorrere a improvvisazioni empiriche, ma facendosi guidare in ogni circostanza da un elaboratore elettronico capace di esaminare, soppesare e scartare, o adottare, milioni di scelte in un tempo incredibilmente breve.

Ecco come Paul Valadier ha posto la questione in un articolo intitolato «L’umanità, un’eccezione?» (apparso su «La civiltà cattolica», n. 3846, 2010, pp. 459-60):

 

«…Se si può annunciare “la fine del’eccezione umana”, è anche perché lo stato attuale dell’umanità non è che una tappa provvisoria in una prevista evoluzione più generale. Gilbert Hottois avanza “un’ipotesi insostenibile per i fautori degli umanesimi tradizionali, religiosi o filosofici”, che è questa: “L’analogia che invita a pensare a un futuro molto lontano alla luce di un passato molto lontano suggerisce semplicemente che le entità, derivanti dalla nostra umanità attraverso un numero indefinito di punti imprevedibili, potranno essere tanto diverse da noi, quanto noi siamo diversi dalle prime forme della vita terrestre” (“Dignité et diversité des hommes”, Paris, 2009, p. 178).

Prolungando la freccia dell’evoluzione, perché non intravedere una umanità completamente diversa dalla falsa “eccezione umana” una sorta di super-umanità, i cui tratti saranno tanto diversi da noi quanto noi lo siamo dalle specie animali o dalle forme di umanità descritte nei discorsi evoluzionisti? Non mancano poi ricerche e programmi per “migliorare” la specie in nome di una plasticità integrale dell’essere umano; non solo il suo statuto attuale non è definitivo, ma, specialmente per mezzo delle scienze cognitive, e delle nano scienze, sarà possibile fornire all’uomo capacità fino allora sconosciute. Che cosa serve, dunque, vantarsi di una eccezionalità che senza dubbio non è che una fase provvisoria e breve, nel corso di una lunga avventura che cela tante possibilità umane ancora sconosciute? […] Nella stessa linea, alcuni annunciano che noi stiamo andando verso una “post-mortalità”, poiché “l’entrata del cyborg – un essere in completa simbiosi con la tecnica – e del post-umano sulla scena culturale e attesta, in modo più globale, la volontà di prolungare indefinitamente la durata dell’esistenza umana per mezzo di una fusione uomo-macchina” (C. Lafontaine, “La societé postmortelle”, Paris, 2008, p. 69). Ciò che noi consideriamo un’eccezione, in realtà non è che una tappa verso una umanità completamente diversa, più intelligente (perciò, si suppone, meno saccheggiatrice e meno “criminale”), non soggetta alla morte (perciò meno angustiata e quindi meno violenta), più capace di comprendere l’universo e, in particolare, gli animali nostri amici. Inoltre questa volontà di “perfezionare la vita per mezzo delle tecniche corrisponde all’abbandono della credenza nell’emancipazione politica” (Lafontaine): la rivoluzione tecnologica prenderà ampiamente il posto delle rivoluzioni politiche, così dispendiose in fatto di vittime e del resto inutili. Si profila dunque un’altra epoca che abolirà la fase attuale, falsamente considerata come eccezionale o come situazione non superabile della specie umana.»

 

Bello, davvero: possiamo solo augurarci di non vivere abbastanza da vedere la realizzazione di questo paradiso in terra. E non perché abbiamo la benché minima forma di nostalgia verso le rivoluzioni politiche e le stragi ad esse collegate; né, meno ancora, perché consideriamo l’uomo perfetto così com’è, o nutriamo una qualche forma di gelosia anticipata verso una sua possibile versione migliorata e perfezionata. Non certo per queste ragioni: ma perché l’idea di “migliorare” l’uomo mediante la tecno-scienza nasce da un progetto totalitario, a paragone del quale i progetti totalitari del passato, basati sulla politica, non erano che i balbettii di un bimbo in fasce; un progetto che finirebbe, qualora si realizzasse, per creare una specie mista umana-cibernetica, potenzialmente o effettivamente immortale, che non avrebbe origine da un umano atto di amore - per quanto, si capisce, lacunoso e imperfetto – ma dalla programmazione arrogante di una intelligenza fredda e spietata, il cui scopo sarà abolire qualunque forma di sofferenza e che, per fare ciò, non esiterà di fronte ad alcuna manipolazione, ad alcuna forzatura, ad alcun sovvertimento etico.

Questo, riguardo ai contenuti di una eventuale società post-umana e post-mortale. Riguardo ai fini e ai compiti della filosofia, ci permettiamo l’umile domanda: che scopo avrebbe ancora essa, intesa come ricerca intorno all’essere, da parte di una specie che volesse auto-promuoversi da ente ad essere, facendosi creatrice di se stessa e degli altri enti? Una simile post-umanità avrebbe ancora bisogno di filosofare? Crediamo di no: le basterebbero i computer per decidere, di volta in volta, come realizzare gli scopi pratici di una esistenza in cui le parole “bene” e “male” diverrebbero prive di senso, e verrebbero sostituite da “risposta giusta” ed “errore”. Come da programma informatico...