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Progresso, crisi e tecnica. In viaggio verso Godenholm

di Gian Maria Bavestrello - 31/01/2014

Fonte: heimat


Tra il progresso tecnologico e il regresso spirituale  sembra intercorrere una relazione direttamente proporzionale. Più disponiamo di strumenti sofisticati meno siamo motivati a utilizzarli come motori di evoluzione sociale. Un esempio è facebook: la povertà di contenuti che regna nel principale social network è allarmante, al punto che se lo considerassimo indice del nostro stato di salute collettivo avremmo di che preoccuparci.  Tempo fa sentii Moni Ovadia, a una conferenza, sottolineare come la rete contenga l’intero scibile umano.  Peccato, aggiunse Ovadia, che il suo principale utilizzo sia pornografico. O, il che per certi aspetti è lo stesso, zoofilo, visto l’ossessivo impulso di condividere gattini che affligge molte persone. Forse il prezzo del progresso, o di quello che chiamiamo progresso, è la rinuncia all’evoluzione personale?  Pensiamoci bene: Santi, mistici e filosofi non possedevano nulla se non lo stretto necessario per vivere. La loro tecnologia era esclusivamente interiore, i loro strumenti fabbricati con la sola forza della mente o, nel caso dei taoisti cinesi, del Qi, l’energia vitale che permea ogni aspetto della realtà.
Da sempre la saggezza sembra diffidare della tecnologia o almeno di una certa tecnologia. Perchè?

Forse perché la tecnologia che utilizziamo noi, essenzialmente esteriore, è ben lungi dall’essere una semplice protesi delle nostre facoltà.  La gerarchia tra uomo e strumento vede questo sopra e quello sotto: non siamo noi a utilizzare la tecnologia informatica o, per portare ad esempio un altro tipo di “tecnologia” non meno pericolosa, i mercati finanziari. Sono loro che utilizzano noi. Abbiamo creato idoli, modelli vitelli d’oro, ai quali sacrificarci. Se, nicianamente parlando, “Dio è morto”, noi lo abbiamo sostituito con una schiera di demoni, fabbricati da noi stessi, dai quali non sappiamo o non vogliamo liberarci.

Questa è la portata della crisi che stiamo vivendo. Una crisi morale, intrinseca al rapporto tra l’uomo e la tecnica.

Alcuni scrittori hanno colto lucidamente i pericoli insiti in quest’epoca. Uno di essi è Ernst Junger.  Prova ne è, tra le tante, “Visita a Godenholm”, un dittico edito da Adelphi in cui il racconto omonimo è saggiamente affiancato da una storia breve, “La caccia al Cinghiale”. Qui un adolescente, durante una battuta di caccia, vive un’esperienza determinante: se fino allora aveva sognato ogni notte di possedere un fucile, di fronte al cinghiale profanato dalle mani dei suoi carnefici prova “una stretta al cuore; gli pareva quasi indecoroso che gli occhi si pascessero alla vista dell’animale ucciso. Mai una mano lo aveva toccato. E adesso lo afferravano per le orecchie e per le zampe, lo voltavano e lo rivoltavano senza posa”. L’animale, da quel momento, prenderà, nei suoi sogni, il posto dell’arma. Il simbolismo della storia è di straordinaria potenza: il fucile indica la tecnica, la ricerca di efficacia e precisione del design industriale, il feticismo dell’uomo verso lo strumento e il potere che esso esercita su di lui. La caccia conduce l’individuo dentro la foresta, luogo arcaico abitato da energie pure, spontanee e primordiali a cui possiamo attingere per rigenerarci dalla corruzione della civiltà ma che invece amiamo profanare; simbolo di questa blasfemia è la macellazione del cinghiale (non tanto la sua uccisione), in cui la squadra di cacciatori vede una semplice bestia, un essere ontologicamente inferiore e non il mito della tradizione iperborea che raffigura l’autorità spirituale e si pone in rapporto con il ritiro solitario, nella foresta, del druido.

Anche nel racconto principale, “Visita a Godenholm”, un’isola sperduta del Mare del Nord dove un piccolo gruppo di persone si raccoglie intorno a un uomo misterioso che conduce vita ritirata, il tema della ricerca interiore è dominante. Il racconto è fortemente geo-filosofico. In questo luogo remoto e dalla popolazione rarefatta, “si aveva l’impressione che tutto fosse possibile, anche se non accadeva quasi nulla. Forse dipendeva dal fatto che lì la vita era simile al sonno, tanto più che il colore dominante era il grigio. Ma se nel grigio si celano tutti i colori, in quella luce crepuscolare sembrava fosse avvolta la possibilità di un violento risveglio e di un’azione vivace. Lì in fondo si viveva fuori dalla storia, oppure si entrava a forza in essa”. Per modificare i destini di un’epoca, suggerisce Junger, bisogna sottrarsi ad essa, evadere dai suoi centri nevralgici e dal suo incantesimo malvagio, giungere all’estrema periferia dello spazio (che in ultima istanza è uno spazio interiore o uno spazio da cui si accede al sé) e qui, raccogliendo le forze del Cosmo, restituire senso, direzione e potenza all’azione. Non tutti sono all’altezza di questo compito. La ribellione di Junger non è la ribellione delle masse che solletica la fantasia della rete: “E’ sempre esistita una coscienza, una visione superiore alla necessità storica. All’inizio potè attecchire soltanto in pochi, e nondimeno fu proprio muovendo da quel punto che il pendolo invertì la sua oscillazione. Ciò doveva essere stato tuttavia precorso dall’iniziativa spirituale di fermare il pendolo”.

Di tal portata è la sfida che l’uomo contemporaneo ha davanti a sé, se non vuole  consegnare definitivamente la propria anima alla tecnica che gli ha ispirato la propria volontà di potenza. Quella tecnica che oggi lo umilia, evidenziandone le nevrosi e le debolezze; che ne rescinde le radici, sia quelle terrigne che quelle celesti; quella tecnica che nonostante tutto, vittima di una paradossale sindrome di Stoccolma,  adora come motore del “Progresso”.