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La guerra come forma estrema del conflitto

di Carlo Gambescia - 31/07/2006

Fonte: metabasis

 

(UN’ANALISI SOCIOLOGICA CHE PRENDE SPUNTO DA UNA “POLEMICA” DI JULIEN FREUND)

 

 

Prologo. La “benevolenza” non basta

C’è un aneddoto che riguarda la vita del sociologo Julien Freund, ricordato da Jeronimo Molina[1], veramente illuminante per capire, grazie alla causticità di Freund, la natura del conflitto, del nemico, della guerra e del pacifismo.

Nel 1965 durante la discussione della tesi di dottorato, consacrata all’ Essence du politique[2] uno dei commissari presenti, Jean Hyppolite, studioso di Hegel e Marx, fece notare a Freund, che se la sua tesi sulla natura polemologica del politico, fondata appunto sulla distinzione amico-nemico, si fosse rivelata esatta, a un fervente pacifista come lui, sarebbe rimasta, come sola via di fuga, il giardinaggio. La riposta di Freund fu bruciante: Hyppolite non avrebbe potuto dedicarsi neanche ai suoi fiori, perché il nemico non glielo avrebbe permesso. A sua volta, Hyppolite replicò che allora non gli sarebbe rimasto che il suicidio. Dando così una risposta patetica che evidenziava, ed evidenzia, la natura nichilistica e irrazionale del pacifismo, non meno distruttiva, per l’individuo, della guerra.

Ma in realtà, il grande valore dell’osservazione di Freund, è nel fatto che disvela una verità “effettuale” tremenda, che lascia attoniti, e ovviamente inaccettabile per qualsiasi forma di moralismo pacifista: la benevolenza non sopprime il nemico, dal momento che è il nemico stesso che ci designa come suoi nemici mortali.

 

I tre fattori sociologici della guerra

E’ una tesi, come è noto, che Freund riprende da Carl Schimtt[3], ovviamente sviluppandola sul piano euristico, in modo personale, originale e innovativo. Anche noi la utilizzeremo, come punto di partenza per una breve ricognizione in argomento. 

Dal punto di vista sociologico perciò il primo fattore che distingue la guerra, come forma estrema di conflitto, è quello riconducibile alla dicotomia amico-nemico[4]. Il che ci porta al secondo fattore: la guerra implica l’esistenza di gruppi sociali organizzati, e non di individui dediti a coltivare i propri interessi privati. La nozione di gruppo sociale organizzato chiama in causa a sua volta, come terzo fattore, il fatto che ogni gruppo, di regola, si organizza intorno a valori e istituzioni pubblicamente condivisi.

Riassumendo, i tre fattori sociologi della guerra sono: a) presenza della distinzione amico-nemico (Freund-Schmitt); b) di un gruppo organizzato; c) di valori culturali condivisi.

Come può essere determinato il “peso specifico” di ogni singolo fattore?

La dicotomia amico-nemico ha un’importanza fondamentale. Ma, innanzitutto, si tratta di una “dicotomia” antropologica o sociologica? Senza pretendere di risalire al fondamento etologico della socialità umana, si può asserire che la distinzione amico-nemico discende dalla capacità umana di organizzare la conoscenza per categorie sociali. E’ quindi un “dato” antropologico. Che tuttavia ha una ricaduta sociologica: dal momento che il giudizio, come forma di categorizzazione sociale del mondo che ci circonda (come classificazione per categorie, nei vari settori della vita sociale, di quel che deve o non deve essere) si traduce sempre in una “gerarchizzazione” della realtà sociale[5]. Quindi contrariamente a quanto ha sostenuto lo stesso Freund, il conflitto non è frutto di uno scontro tra due volontà ostili volta a mantenere, affermare o ristabilire un diritto (o comunque non è solo questo)[6], ma è sempre conseguenza della capacità umana di giudicare il mondo: giudicare significa designare le differenze, e sulla base delle differenze nascono le discriminazioni, e da queste ultime i conflitti[7]. Se non ci fosse giudizio, ci sarebbe solo cieca potenza. Il conflitto è la conseguenza del tentativo di ridurre le differenze: di ridurre il molteplice, frutto della categorizzazione sociale, all’unico. Ovviamente dove non c’è giudizio, cioè intelligenza delle categorie sociali, non può esserci conflitto, ma solo animalesco contrasto.

Non meno importante è l’esistenza del gruppo sociale organizzato. Dal momento che si tratta di un fenomeno strettamente collegato alla categorizzazione sociale, nel senso che lo sviluppo del primo non può escludere quello della seconda: organizzazione e categorizzazione vanno di pari passo[8]. La possibilità di giudicare chi appartenga o meno a un certo gruppo rinvia alle categorie sociali del “noi” e del “loro”, che ritroviamo in tutti i gruppi organizzati. E quanto più il gruppo è strutturato, e quindi quanto più significative sono le capacità di categorizzazione, tanto più grave è il rischio di conflitti e di guerre. Ad esempio, al gruppo semplice, prestatuale, poco strutturato di cacciatori e raccoglitori, che confligge esclusivamente sulla base di una istintualità animale legata alla pura difesa del territorio, può perciò essere contrapposto, il gruppo complesso, statuale, molto strutturato, rappresentato dallo stato-nazione, che confligge con altri gruppi statuali, sulla base di forme di categorizzazione sociale, molto sofisticate, che lo allontanano dalla istintiva territorialità animale (ideologie politiche, principi religiosi, dottrine razziali, teorie sociali ed economiche), ma ben più pericolose di questa, come mostra la storia moderna, dall’emergere dello stato assoluto ai totalitarismi novecenteschi. Tra questi due estremi vanno poi collocate, senza però seguire alcuna linea evolutiva prefissata, istituzioni politiche e sociali molto diverse, dalla Città-Stato al Comune mercantile, dall’Impero allo Stato regionale premoderno[9].

Resta infine da esaminare il terzo fattore, non meno importante dei due precedenti, ai quali del resto è collegato: i valori condivisi (pubblicamente) costituiscono il sostrato socioculturale del conflitto. Quanto più il gruppo condivide e sostiene i “valori fondanti” tanto più aumenta la sua capacità di giudicare e gerarchizzare l’altro[10]. La condivisione è così importante dal punto di vista della categorizzazione e riproduzione sociale, che le élite dominanti, regolarmente, al minimo indizio di crisi, come spesso accade nella storia, tentano di rinsaldare i valori comuni, indicando un nemico esterno. Pertanto le situazioni di crisi sociale e culturale, se non sfociano in rivolte e rivoluzioni, finiscono sempre per produrre conflitti e guerre. Anche nel caso dei valori condivisi, tra una condizione di assoluta anomia e una segnata dal forte senso delle identità collettive (e conoscitive) vanno registrate situazioni intermedie[11]. In genere, livelli elevati di anomia, spesso frutto nella storia delle cosiddette pax imperiali, coesistono con una forte centralizzazione del potere, che di solito è tanto più assoluto, quanto più l’individuo è privo di qualsiasi riferimento identitario[12].

Questi tre fattori riguardano la costituzione e lo sviluppo di ogni gruppo sociale, a prescindere dal tipo di organizzazione politica (democratica, non democratica, a-democratica) che esso possa darsi. Sono dunque concatenati e hanno, per rispondere alla domanda iniziale, sia sul piano euristico che su quello “effettuale” lo stesso “peso specifico”.

Per riprendere il classico linguaggio aristotelico, la guerra, come forma estrema di conflitto, è una “potenza”, uno “stato” in divenire, della società insita nell’organizzazione stessa del gruppo sociale, che nel tempo si trasforma o si realizza pienamente, come “atto”, passando per tutta la gamma a cui danno luogo le relazioni di inimicizia: coercizione, pressione, polemica, opposizione, concorrenza e competizione, lotta fisica, combattimento. Il seme-guerra contiene la pianta-guerra in potenza: la pianta-guerra sviluppata è il seme-guerra divenuto atto. E il periodo che trascorre tra la guerra-potenza e la guerra-atto, racchiude quelli che sono gli stretti confini o limiti di un periodo di pace[13].

 

Case study: gli Stati Uniti

A questo punto può essere interessante fornire qualche esempio concreto, di come interagiscano nella pratica i tre fattori sociologici individuati usando l’attuale politica statunitense come case study[14].

La politica americana, dalla dissoluzione del comunismo sovietico (1989-1991) a oggi è stata caratterizzata dalla progressiva assunzione di “obblighi” imperiali, in un quadro politico semi-unipolare, privo della figura essenziale del Terzo (aspetto su cui torneremo più avanti), e dove appunto la Cina, come potenza, gioca un ruolo politico (ma non economico) per ora ancora marginale.

Dal punto di vista della sociologia del conflitto, gli Stati Uniti possono essere definiti una nazione a forte categorizzazione sociale (come è testimoniato ad esempio dalla tendenza a “gerarchizzare”, in politica estera, i nemici secondo categorie morali)[15]; ad alto livello di istituzionalizzazione (come è evidenziato dalla natura oligopolistica e accentrata del potere politico-economico)[16]; e con un patrimonio di valori “costituzionali” condivisi pubblicamente, che tuttavia rischia si essere eroso dal crescente senso di anomia, che va diffondendosi nella società americana, soprattutto tra gli americani di recente immigrazione (i latinos) e le fasce marginali di popolazione (neri e bianchi “poveri”)[17].

Quest’ultimo aspetto è molto importante, dal momento che se per un lato, spinge la politica estera americana verso la scelta di obiettivi militari “esterni”, per rinsaldare l’unità interna (le avventure militari, oltre ad alimentare un patriottismo da categorizzazione sociale, possono costituire una valvola di sfogo a breve termine per l’economia e uno sbocco professionale per le fasce svantaggiate della popolazione), per un altro lato provocano invece nelle classi medie, sconcerto e sfiducia nelle loro prospettive di ascesa sociale a medio e lungo periodo, che una situazione di guerra, dai costi economici e sociali crescenti ed elevati rischia di compromettere[18].   

Da questo punto di vista l’impegno militare americano nel mondo, post-crisi sovietica, che risale non all’11 Settembre, ma alla Prima Guerra del Golfo, è destinato a durare e avere successo, solo nella misura in cui, il conflitto militare riuscirà nel suo scopo di rinsaldare l’unità interna, integrare le ultime generazioni di immigrati, o comunque tenere sotto controllo la crescente situazione di anomia e incertezza in cui versano i ceti medi. 

Va poi aggiunto, e questo è un elemento complementare, rispetto a quello rappresentato dai tre fattori indicati, che una condizione segnata da un forte sforzo economico-bellico, di regola, implica il progressivo accentramento delle istituzioni politiche, sociali ed economiche. Di qui la possibilità che gli Stati Uniti possano trasformarsi, nel tempo, in uno stato di polizia burocratizzato e militarista, incapace di sostenere economicamente un costoso gigantismo amministrativo e politico, e quindi di “autoriprodursi, come è accaduto per altre entità macropolitiche ( l’Impero Romano ad esempio)[19]. Sussiste insomma il rischio che la guerra possa mettere in moto quei meccanismi centrifughi, attraverso i quali i tre fattori sociologici qui individuati (designazione del nemico, riorganizzazione sociale e sviluppo di valori condivisi), iniziano a riprodursi e proliferare all’interno di quelle microunità politiche che sorgono quando le macrounità entrano in un’età di sconvolgimenti e decadenza, fase che purtroppo prelude sempre alla loro eclissi definitiva[20].   

 

Ancora sulla “benevolenza”

E’ giunto il momento di ritornare a Julien Freund, e alle sue secche e taglienti parole di risposta a Jean Hyppolite. Se è il nemico a puntare il dito contro di noi, per la “benevolenza” o comunque per la volontà di pace, non c’è proprio alcuno spazio?

Non è facile rispondere, soprattutto se la pace deve essere intesa, come abbiamo notato, come quel periodo sociale che intercorre tra la guerra in potenza e la guerra in atto. Certo, si può cercare di prolungare questa fase intermedia, ma non si può per sempre evitare la guerra, come non si può evitare a una pianta, a un organismo, a un bambino di crescere. Così come del resto non è possibile evitare il conflitto, anche nelle sue forme meno pericolose della contesa politica, economica, culturale e religiosa.

Si dirà: ma un organismo “tumorale” come la guerra deve essere in qualche modo fermato. Ma si è sicuri che la guerra possa essere definita in questi termini? La guerra, come i conflitti in genere, implica la cooperazione: la solidarietà interna ai gruppi che si contrastano, spesso è il rovescio della medaglia-guerra. Nelle relazioni sociali la cooperazione è una costante sociale, alla stessa stregua del conflitto. Il punto è che il conflitto richiede la cooperazione e la cooperazione il conflitto: ci si organizza sempre “con” i simili e “contro” i dissimili[21]. E qui basta ricordare, anche solo a livello di linguaggio simbolico, il ruolo assunto nella vita sociale dagli “eserciti” sindacali o del “lavoro”, delle “armate” della fede, della “cultura” e non solo degli eserciti veri e propri.

La tesi della guerra, non come organismo ma come “escrescenza tumorale” (per essere più precisi), potrebbe avere “eccezionalmente” un valore “morale”, nei riguardi della guerra atomica, o comunque verso una guerra, che implicasse l’immediata e automatica distruzione non solo della specie umana, ma dell’intero pianeta.

Ma è moralmente giusto, oltre che euristicamente corretto, costruire e sostenere una teoria sociologica “pacifista” della guerra, che tra l’ altro è di solito usata come strumento per politiche belliciste e di potenza?  E magari proprio sulle basi di una eccezionalità (dal momento che l’uso dell’arma “totale” è possibile ma non probabile) più morale che storica? Eccezionalità, che proprio perché tale, non spiega il comportamento effettivo dell’uomo? Che, come abbiamo spiegato, è portato naturalmente a giudicare e quindi a confliggere con il dissimile e a cooperare con il simile, a prescindere da ogni eccezionalità morale, o peggio moralistica.  

Secondo alcuni studiosi l’unico modo per prolungare la fase che intercorre tra guerra in potenza e guerra in atto potrebbe essere quello di sublimare il conflitto[22] e di creare una cultura della cooperazione[23].

E qui si aprono altri problemi.

Perché se sublimare significa sostituire all’aggressione militare l’aggressione verbale, allora la sublimazione rappresenta una forma di conflitto larvato, che può comunque condurre, prima o poi, a quello manifesto, armato e violento. Se sublimare invece significa incanalare gli impulsi aggressivi in comportamenti più elevati, non aggressivi e violenti, la sublimazione resta di difficile attuazione in una società basata sulla naturale capacità dell’uomo di giudicare, organizzarsi in gruppi. Attuazione che diviene addirittura impossibile e utopistica in una società fortemente imbevuta di cultura competitiva e conflittuale, come quella in cui oggi viviamo. 

Quanto alla cultura della cooperazione, il punto è un altro. Si coopera sempre, giudicando il proprio apporto sulla base di quello che viene “apportato” da altri. E qui si ha subito un primo elemento di categorizzazione sociale. Il giudizio determina gerarchie: “io lavoro più di te”, oppure “il nostro gruppo lavora più del vostro”. E di lì sorgono subito sovrastrutture ideologiche, distinzioni, sovrapposizioni di valori: tutti possibili elementi di attrito e dunque conflitto. Pertanto anche la cultura della cooperazione ha il suo lato “oscuro”. Del resto oggi, come per la sublimazione, sarebbe particolarmente difficile per l’uomo comune riscoprire improvvisamente, in una società in cui si celebra il valore dell’invidia, l’importanza della cooperazione altruistica per il puro bene dell’altro[24]. 

 

Epilogo. La figura del Terzo

Per uscire da questo vicolo cieco può esserci di nuovo utile la riflessione di Freund. Che ci invita non tanto immaginare impossibili mutazioni antropologiche, ma a riflettere sulla figura sociologica del Terzo.

Il Terzo secondo Freund segna il passaggio dalla dinamica sociologica relazionale a due soggetti, segnata dal conflitto alla composizione superpartes, ad opera appunto del Terzo neutrale, come mediatore o arbitro. Il sociologo francese ha studiato in particolare questo tema in Sociologie du conflit[25]. Indicando una serie di configurazioni, anche molte diverse, che il Terzo può assumere. Vediamole:

a) l’alleato, che interviene direttamente a fianco di uno due contendenti; b) il protettore che interviene indirettamente dall’esterno, e che secondo i casi può assumere la veste del dissuasore, del mediatore, ma che può anche tornare sui suoi passi e restare neutrale ; c) il Terzo profittatore che si inserisce in un conflitto per trarne il massimo vantaggio personale.

Per tornare all’esempio americano, quel che si evidenzia nella presente situazione politica internazionale, è la mancanza di un Terzo, che possa influire, come dissuasore o mediatore, sull’evoluzione di un conflitto militare, che rischia non solo di estendersi all’intero Medio Oriente, ma di provocare gravi ripercussioni politiche, economiche nello stesso Occidente. Ecco, la figura sociologica del Terzo può rappresentare il “quarto fattore” in grado non di eliminare conflitti e guerre per sempre ma di gestirli, mitigarli, indirizzarli. E soprattutto di assicurare che il periodo che intercorre fra guerra- potenza e la guerra-atto, sia graduale, privo di scossoni, e se necessario molto lento, come per alcune specie arboree che richiedono decenni se non secoli per giungere a completo sviluppo. 

L’età del Terzo - così può essere chiamato questo periodo di lenta evoluzione - non può che ispirarsi, e quindi essere frutto dell’idea di equilibrio politico. Anche perché l’accettazione della figura del Terzo indica sempre che c’è una volontà di trattare. Che sussiste una disposizione all’accordo, al compromesso alla transazione. Si accetta insomma quel circolo virtuoso sociale che permette intanto di passare dall’antagonismo all’agonismo sociale: dal conflitto senza esclusione di colpi alla competizione leale in presenza di un arbitro. Il Terzo è quella figura, per riprendere l’esempio precedente, che stabilisce che l’apporto di lavoro di ognuno e pari a quello di ogni altro. Non rifiuta la categorizzazione, e quindi la gerarchizzazione, ma la mitiga, trasforma, umanizza e rende accettabile in virtù della sua autorità, che può essere politica, culturale, economica e religiosa, e mai soltanto militare.

Il Terzo è consenso e non soltanto forza. Ad esempio, si tratta di un ruolo che sul piano interno può essere giocato dallo Stato, e su quello esterno da una Potenza Terza rispetto ai contendenti, o da una istituzione internazionale particolarmente autorevole. Invece, nei rapporti sociali, un identico ruolo può essere svolto da leader religiosi politici, sindacali. Quanto alla famiglia e ai gruppi sociali più ristretti, il Terzo può essere rappresentato da figure parentali e di anziani particolarmente apprezzate per la saggezza e l’autorevolezza[26].

Il Terzo scrive Freund “è un fattore fondamentale di concordia interna (…), il suo ruolo non consiste soltanto nell’essere un capace ammortizzatore di crisi, antagonismi e tensioni, ma anche di fungere da intermediario per favorire la comunicazione tra coloro che volutamente si ignorano o che sono in conflitto. A conti fatti, il terzo incarna la configurazione elementare di una società, dal momento che ne condiziona l’equilibrio, rende possibile le combinazioni sociali più differenti, e al contempo, è un fattore di dissuasione dai conflitti interni (…). Il terzo è la condizione che garantisce stabilità nelle società libere”[27] .

Probabilmente il Terzo, aggiungiamo noi, dissuadendo e mantenendo nei giusti limiti ogni conflitto, e quindi anche la guerra, permetterebbe al professor Hyppolite e ai suoi emuli pacifisti di oggi, di dedicarsi al giardinaggio. Un’attività tutto sommato piacevole e comunque sempre preferibile al suicidio.

 

  

 

 

  

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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[1]J. Molina, Julien Freund lo politico y la politica, Sequitur, Madrid 2000, p. 19

[2] Come è noto si tratta della sua opera più importante. Si veda la recente riedizione, L’Essence du politique, Dalloz, 2004, ristampa della terza edizione (1986, la seconda è del 1978, la prima del 1965; d’ora in poi la data della prima edizione in lingua originale di ogni volume citato viene indicata tra parentesi tonde, subito dopo il titolo), postfazione di P.-A. Taguieff. Per un bibliografia aggiornata di e su Freund si veda A. de Benoist, Julien Freund (1921-1993), una bibliografia in “Empresas Polìticas”, III, n. 5, 2 semestre 2004 (fascicolo dedicato a Freund).

[3] Ovviamente si rinvia al celebre studio di Schmitt sul concetto di politico (1932). Si veda la bella silloge C. Schmitt, Le categorie del ‘politico’, il Mulino, Bologna 1988 (1972), a cura di G. Miglio e P. Schiera, in particolare pp. 87-165. Per una rassegna dei più recenti contributi bibliografici su C. Schmitt si rinvia a “Empresas Polìticas, III, n. 4, 1 semestre 2004, (fascicolo dedicato a C. Schmitt), in particolare pp. 131-135 (Carl Schmitt: Relaciòn bibliogràfica 2000-2004, a cura di J. Molina).

[4] Sulla sociologia della guerra si veda innanzitutto il classico studio di G. Bouthoul, Le guerre. Elementi di polemologia (1950), Longanesi, Milano 1961 (di taglio vecchia scuola positivista, ma ricco di informazioni fondamentali). Va anche presa in considerazione, malgrado possa apparire datata perché addirittura precedente al testo di Bouthoul, la trattazione, estesa alla sociologie “della lotta per l’esistenza” che fa del tema P.A. Sorokin, Storia delle teorie sociologiche (1928), Città Nuova Editrice, Roma 1974, pp. 301-348, che in poche dense pagine mette a fuoco una serie di problemi ancora oggi importanti (forme del conflitto, funzioni ed effetti sociali della guerra, i fattori della guerra). Invece per una rassegna aggiornata, ragionata e interessante, si rinvia ad A. Panebianco, Guerra – politica, in AA. VV., Enciclopedia della Scienze Sociali, Istituto della Enciclopedia Italiana, Roma 1994, vol. IV, pp. 465-488, nonché sempre di A. Panebianco, Guerrieri democratici. Le democrazie e la politica di potenza, il Mulino, Bologna 1997. Ma si veda anche J. Freund, La guerre dans les sociétés modernes, in J. Poirier (sous la direction de), Histoire des moeurs, Gallimard, Paris 2002 (1991), vol. III, tomo I, pp. 382-458, come utile correttivo all’ottimismo liberaldemocratico di Panebianco. Uno studioso, che tra l’altro è ben consapevole, come Freund del resto, di quanto sia difficile per una sociologia politica, come l’attuale, dalle radici illuministiche e perciò votata alla costruzione di una utopistica pace universale, trattare realisticamente il tema della guerra. Su questi argomenti utili accenni in A. Campi, Trittico sulla guerra – Schmitt, Aron, Freund, “Avallon. L’uomo e il sacro”, n. 35, pp. 101-110. 

[5] Quando parliamo di “giudizio” ci riferiamo a un’attività socio-psicologica, che include gli aspetti cognitivi, simbolici e di stereotipizzazione sociale del comportamento collettivo. La categorizzazione e la gerarchizzazione sono fenomeni ricorrenti e necessari per l’ ordinato svolgersi della vita sociale. Il giudizio, in quanto fatto sociale, implica la memoria collettiva, la mimesi, e la reiterazione comportamentale, ma anche la capacità, di opporsi a esso, attraverso un processo, generalmente individuale-collettivo-individuale di creazione-distruzione di nuove forme di giudizio e gerarchizzazione. Su questi aspetti rinviamo a S. Moscovici, La fabbrica degli dei. Saggio sulle passioni individuali e collettive (1988), il Mulino, Bologna 1991, e più in particolare sui problemi della categorizzazione S. Moscovici (a cura di), Psicologia sociale(1984) , Borla, Roma 1996, in particolare la parte terza, pp. 263-419. Va detto che Moscovici e la sua scuola, preferiscono parlare piuttosto di “rappresentazioni” che di “categorizzazioni”. Di più specifico in argomento si veda H. Tajfel, Gruppi umani e categorie sociali (1981), il Mulino, Bologna 1995.  

[6] Si veda la definizione di conflitto in J. Freund, Sociologie du conflit , Puf, Paris 1983, p. 65. Quanto ai rapporti su diritto e conflitto in Freund, la cui disamina ci porterebbe tropo lontano, si veda J. Molina, La théorie polémologique du droit de Julien Freund, “Krisis”, n. 26, 2005, pp. 135-166, a commento di J. Freund, La dialectique di droit, ivi, pp. 114-134.

[7] Su questi aspetti “discriminanti” si veda L. Dumont, Le valeur chez le modernes et chez les autres, in Id., Essais sur l’individualisme, Editions du Seuil, Paris 1983, pp. 254-299. Si cfr. anche P.A-Taguieff, La force du préjugé. Essai sur le racisme e ses doubles (1987), Tel Gallimard, Paris 1990. Tuttavia, a nostro avviso, e pur condannando qualsiasi forma di etnocentrismo, resta comunque difficile se non proprio impossibile individuare sul piano sociopsicologico, qualsiasi differenza tra giudizio e pregiudizio. Del resto non si evince dallo stesso libro di Taguieff che esiste il razzismo dell’antirazzismo? Cioè di coloro che dovrebbero essere privi di “pregiudizi”, proprio perché ragionevoli e informati…

[8] Su questo aspetti si veda F. Alberoni, Movimento e istituzione, il Mulino, Bologna 1977, in particolare, pp. 141-234.

[9] Su  questo secondo fattore e sulla dialettica tra le varie forme istituzionali e sociali nella storia si veda, anche come esempio di un gigantesco sforzo interpretativo e di sintesi che ricorda il Trattato di Sociologia paretiano, S.E. Finer, The History of Government (1997, 1999) Oxford University Press, Oxford (UK) 2003. Molto utile l’introduzione teorica (The Conceptual Prologue), in  vol. I, Ancient Monarchies and Empires, cit., pp. 1-96.

[10] Su questi aspetti rinviamo alle analisi di P.A. Sorokin, Society, Culture and Personality: Their Structure and Dynamics. A System of General Sociology (1947), Cooper Square Publisher Inc, New Yor 1962, in particolare parti III (Structure Social Universe), pp. 69-178, IV (Social Differerentiation and Stratification), pp. 181-310; VI (The Dynamics of Cultural Processes), pp. 537-723. Su Sorokin rinviamo al nostro Invito alla lettura di Sorokin, Edizioni Settimo Sigillo 2002.

[11] Questi processi sono studiati in P.A. Sorokin, Social Philosophies of an Age of Crisis, The Bacon Press, Boston 1951.

[12] Sulle dinamiche dello sviluppo, dissoluzione e decadenza dei grandi imperi si veda la classica opera di S.N. Eisenstadt, The Political Systems of Empires (1963), Transaction Publishers, New Brunswick (USA) and London (UK)

1993, pp. 309-360 (Processes of Change).

[13] In certo senso ha visto giusto Proudhon quando scrive che guerra e pace “si completano e si sostengono, come termini inversi, ma adeguati e inseparabili di un’antinomia. La pace dimostra e conferma la guerra; la guerra a sua volta è una rivendicazione di pace”. Citato in J. Freund, L’homme le la guerre, cit., p. 385.

[14] Per l’inquadramento storico abbiamo usato B. Cartosio, Gli Stati Uniti contemporanei (1865-2002), Giunti, Firenze 2002, pp. 173-204 (Da Bill Clinton a George W. Bush). Per la politica estera W. Russell Mead, Il serpente e la colomba. Storia della politica estera degli Stati Uniti d’America (2001), Garzanti, Milano 2005. 

[15] Un esempio erudito della necessità, qui evidenziata, di “gerarchizzare” le civiltà in funzione di quella americana è dato da S.M. Huntington, Lo scontro delle Civiltà e il nuovo ordine mondiale (1996) Garzanti, Milano 1997. Ma dello stesso autore si veda La Nuova America. Le sfide della società multiculturale (2004), Garzanti, Milano 2005, vero grido di allarme, a proposito della difficoltà di “categorizzare” le nuove ondate di immigrati, soprattutto ispanici. Ma si veda soprattutto per capire le radici storiche del fenomeno la sempre utile antologia di P. Bairati, I profeti dell’impero americano. Dal periodo coloniale ai nostri giorni, Einaudi, Torino 1975.

[16] Su questi aspetti si veda K. Phillips, Ricchezza e democrazia. Una storia politica del capitalismo americano(2002), Garzanti Milano 2005, che affronta i perversi legami tra accentramento della ricchezza e conseguente mancanza di democrazia.

[17] Si veda S.M. Huntington, La Nuova America, cit., pp. 265-305 (su immigrazione messicana e ispanizzazione), interessante sia per la ricchezza di dati, che come testimonianza dello stato d’animo di un tipico intellettuale americano, che teme di perdere le tradizionali “categorie” e gerarchie di riferimento wasp. Per il versante radical che “categorizza”,  al contrario, discriminando i “bianchi”, si veda M. Davis, I latinos alla conquista degli Usa (2000), Feltrinelli, Milano 2002, un libro comunque interessante.

[18] Cfr. C. Johnson, Gli ultimi giorni dell’impero americano (2000), Garzanti, Milano 2001; E. Todd, Dopo l’impero: La dissoluzione del sistema americano (2002), Marco Troppa Editore, Farigliano (CN) 2003. Sulla crisi dell’individualismo e dei ceti medi si veda R. D. Putnam, Capitalismo sociale e individualismo. Crisi e rinascita sociale della cultura civica negli Stati Uniti (2000), il Mulino, Bologna 2004. Il cui ottimismo va bilanciato col pessimismo di B. Glassner, The Culture of Fear, Basics Books New York 1999.

[19] Si veda in argomento il testo di P. Kennedy, Ascesa e declino delle grandi potenze (1987), Garzanti, Milano 1989, che giudicava l’America in “relativo declino”, già prima della dissoluzione dell’Unione Sovietica, a causa dei crescenti costi economici e politici di un preoccupante gigantismo militare,

[20]  Il processo è sociologicamente ben ricostruito e descritto da S.N. Eisenstadt, op. cit., pp. 353-359. Ma si veda anche C. Quigley, The Evolution of Civilization. An Introduction to Historical Analysis (1961), Liberty Fund, Indianapolis 1979, in particolare pp. 127-166. Un piccolo classico da riscoprire.

[21] Si vedano a riguardo le interessant