Bella premunt hostilia: riflessioni archetipico-simboliche sui conflitti post-moderni
di Claudio Bonvecchio - 31/07/2006
«Bella premunt hostilia - Da robur, fer auxilium»
(da O Salutaris Hostia, Canto Liturgico)
1. Preambolo
La citazione riportata in esergo e proveniente da un (oramai) vetusto e solenne canto liturgico – «Guerre accanite attorno noi divampano – Dacci forza, portaci aiuto» – non necessita di alcun commento. È il tradizionale massaggio salvifico-sapienziale-religioso che invoca – nel momento, drammatico, del conflitto bellico – l’aiuto della superiore potenza divina. È la richiesta di un aiuto consolatorio, volto non tanto a impetrare Dio affinché chiuda ogni belligeranza – compito questo, per altro, più umano che divino – quanto a implorare, per un’umanità debole e fragile, soccorso ed ausilio. Un soccorso ed un ausilio che permettano agli uomini di comprendere ciò che sta avvenendo e – comprendendolo – porvi la parola “fine”. Cosa questa tanto più auspicabile nell’età contemporanea, in cui – con nuova ed inusitata violenza – venti di guerra spirano su di un mondo che proclama, ipocritamente, paci soltanto “virtuali”. Un mondo in cui la furia apocalittica del conflitto – mimetizzata nelle più diverse modalità – non cessa di distruggere uomini, popoli e nazioni[1].
I conflitti non sono, dunque, eventi oramai obsoleti e confinati nei libri di storia o nella memoria collettiva popolare[2]. Sono, al contrario, qualcosa di presente e vitale: in tutta la loro evidente drammaticità. Analizzarli equivale a “fare i conti” con qualcosa di esistente ed operante, nella speranza – forse astratta o utopica – di porvi, in qualche modo, rimedio. Naturalmente, tale speranza implica il predisporre strumenti idonei e conseguenti a supportare siffatta analisi, senza cadere in luoghi comuni pacifisti o bellicisti: per altro sempre in agguato. Ma, soprattutto, richiede il rendersi conto di quanto sia complesso e difficoltoso affrontare l’argomento “conflitto”: particolarmente se riguarda quello “post-moderno” [3]. Dove per "post-moderno" s’intende, metodologicamente, un insieme di avvenimenti – localizzati in uno o in più scenari geo-politici – in cui viene impiegata, secondo varie tipologia, la forza: che sia forza militare, psicologica, tecnologica, propagandistica, comunicativa in fondo poco importa.
2. I conflitti moderni
Assodato questo, se prendiamo in esame – nella loro generalità – i conflitti “post-moderni”, notiamo che la loro nota distintiva è quella di essere, simbolicamente, diversi dai conflitti storicamente più prossimi: ossia quelli “moderni”[4]. Su di essi è il caso, quindi, di soffermarsi – seppur brevemente – per poter meglio comprendere i caratteri costitutivi di quelli “post-moderni”.
Ora, i conflitti “moderni” non hanno più come prioritarie cause scatenanti rivendicazioni ispirate a motivazioni dinastiche o religiose: concepite – ad esempio – come lotta contro i nemici della fede, come conquista del Santo Sepolcro, come difesa dell’impero e del papa, come acquisizione o difesa di territori, interessi economici e così via[5]. Ad esse si sono sostituiti moventi ben più esplicitamente realistici e concreti: tutti segnati da una pregnante spinta secolarizzatrice[6]. Sono tali moventi che nel mentre mutano le antiche cause (certo solo di facciata) teologico-dinastiche del conflitto in filosofiche, storiche e ideologiche operano, anche, una radicale trasformazione dell’immagine simbolica del sovrano per conto del quale i conflitti venivano combattuti[7]. In virtù di ciò, il re – vicario, in temporalibus, del “condottiero celeste”[8] – si cangia (con maggior o minor successo, a secondo dei casi) in un abile stratega, in un burocrate razionale e in un perfetto organizzatore della nazione e del suo esercito. «La sua presenza» scrive Federico di Prussia, a proposito del sovrano «impedisce il disaccordo fra i generali, così funesto per gli eserciti e così dannoso per gli interessi del sovrano, fa funzionare ordinatamente i magazzini e le provvigioni di guerra, senza le quali anche Cesare a capo di centomila soldati non avrebbe avuto successo»[9]. Nel mentre, insomma, il nuovo ruolo del sovrano tende a sovrapporsi a quello dello Stato diventato nazione[10], il conflitto viene sottratto alle regole cavalleresche e considerato riduttivamente von Clausewitz docet niente più che la continuazione della diplomazia "con altri mezzi”[11]. Ne viene che il conflitto non è più un sofisticato, coraggioso e nobile divertissement per (relativamente) pochi aristocratici e per milites mercenari o avventurieri. Si cangia in un avvenimento epocale che coinvolge l’intera nazione – basta pensare alla levée en masse – e in cui tutti i cittadini sono obbligati a combattere contro un nemico: che è, indistintamente, il nemico di tutti[12]. Come ricorda Caillois, a proposito dello Stato rivoluzionario francese: «Il soldato e il cittadino nascono contemporaneamente» e ancora «La Rivoluzione francese trasforma ogni cittadini in una sorta di missionario incaricato di diffondere un vangelo liberatore»[13]. Il conflitto assume, pertanto, la connotazione e la retorica di un comune destino etico, cui – nell’immaginario collettivo della nazione – si associa «il sentimento di combattere per qualcosa»[14]. Destino, etica e sentimento costituiscono, allora, il sostrato stesso della nazione – la sua realtà – come chiarisce Hegel, quando scrive: «la guerra, in quanto situazione, nella quale la vanità dei beni e delle cose temporali, che, altrimenti, suol essere un modo di dire edificante, è resa una cosa seria, è, il momento, in cui l'idealità del particolare consegue il suo diritto e diviene realtà»[15].
In siffatto panorama, il simbolismo bellico-cavalleresco – che era il contrassegno del conflitto “classico” – si secolarizza, riducendosi ad un semplice segno indicatore: espressione psicologizzata e sentimentale di un razionalismo statuale, ma non certo dell'immaginale[16]. Siffatta psicologizzazione emotiva che si presenta come dilatazione letteraria dell'io o ipertrofia mimetica della coscienza[17] appare come l'unica, vera e compiuta espressione della totalità dello Stato o della nazione: l’unica in grado di conferire senso e identità ad un individuo e a un popolo. Con il che, il "moderno " conflitto – al di là del sentimentalismo retorico e di maniera – assume sempre più il carattere di un evento segnato dalla razionalità[18]. Ambisce proporsi come un episodio scientifico: al pari di una proposizione matematica o di un teorema geometrico[19]. E ciò implica una metamorfosi anche nell’aspetto più esteriore del conflitto “moderno” che – sempre più lontano dal valore e del decorum personale – si caratterizza per una realtà fatta da agguati, rapide sortite, veloci spostamenti e dispiegamento di mezzi e materiali. «La vostra nuova uniforme» così afferma il generale August-Wilhelm von Lignitz in un immaginario discorso «rispecchierà l'immagine della mentalità nuova. Basta coi fronzoli ridicoli, con le scintillanti decorazioni il cui tintinnio è del resto pericoloso, perché segnala la vostra presenza agli avamposti nemici..[..].Serbate per il nemico, sul campo di battaglia, il vostro splendore brutale»[20].
Ne deriva, che il combattente acquisisce sempre più lo status del matematico e – nel suo agire – non può prescindere da un’immensa mole di dati informativi, da una sempre maggior perfezione tecnologica, da una straordinaria “potenza di fuoco” e da un’incredibile rapidità decisionale. Si potrebbe tra l’altro – in questa direzione – istituire un interessante e proficuo paragone tra la spersonalizzante aggressività dell’economia (lo spiritus rector dei conflitti sociali) e la spersonalizzante tecnicizzazione che diventa il centro aggregante di ogni conflitto “moderno”. D’altronde, a detta del generale Ludendorff: «Ogni attività umana e sociale non è giustificata che se prepara la guerra»[21]. Non sfugge, ovviamente, che il nuovo modo di concepire il conflitto agisce a far tempo dal XIX secolo anche sulla creatività del simbolismo bellico impoverendola e razionalizzandola: ossia rendendola sempre più intessuta di “segni”, pomposi, descrittivi e propagandistici. Infatti, il potere politico utilizzerà, solo allegoricamente, le forme simboliche con cui, nel passato, si celebravano i conflitti, servendosi, particolarmente, di quelle greco-romane: in virtù del loro tradizionale impatto culturale[22]. Ne sono eloquente testimonianza i memoriali dei grandi episodi bellici: per lo più, strutture che si rifanno, appunto, o ad un manierismo neo-classicista come il Pantheon degli Invalidi di Parigi, il monumento a Vittorio Emanuele II a Roma o il Walhalla, edificato da Luigi I di Baviera o ad una retorica di stampo trionfal-borghese: come il Niederwalddenkmal o il Kyffhäuserdenkmal[23]. In tutti, l’imponenza architettonica e la sovrabbondanza decorativa sembrano più funzionali a stupire propagandisticamente épater le bourgeois insomma masse “nazionalizzate” borghesi e piccolo borghesi, più che a suscitare, un reale senso di identità e di comunità, uniti a palpiti eroici e virtù guerriere.
3. I caratteri del conflitto “Post-moderno”.
Il “volto” del conflitto “post-moderno” è quello che, invece, ci viene presentato in tutta la sua drammatica intensità da Ernst Jünger: «Dietro i fronti vermigli che per la prima volta hanno saldato il globo con cuciture incandescenti si stendevano le grigie profondità senza luce degli eserciti del lavoro»[24]. Si presenta come un conflitto in cui spazi esigui e smisurati, minime e massime proporzioni hanno la medesima valenza ed una analoga forza d'urto: nel loro progressivo (ed esponenziale) dilatarsi. Provocati dalle ambizioni, dalle ansie, dalle insicurezze e dall’aggressività economica dai grandi Stati nazionali, i conflitti “post-moderni” tendono a coinvolgere quasi per un naturale (e perverso) automatismo tutte le realtà nazionali dei vicini scacchieri: indipendentemente dalla loro neutralità o dalla loro non-belligeranza. In una spirale inarrestabile e spesso del tutto imprevedibile[25] i conflitti “post-moderni” non hanno né limiti né confini: si ampliano a dismisura, sino a raggiungere proporzioni globali, sino a diventare mondiali. Sembrano essere funzionali solo alla propria, continua, espansione senza neppure realizzare travolti da una furia distruttrice senza pari di cosa implicano e di ciò che provocano: è la guerre pour la guerre. Così, il conflitto “post-moderno” si sovrappone con la guerra civile: con una belligeranza strisciante, infida, traditrice e trasversale in cui ciascuno è nemico di tutti (e viceversa) ed in cui non ci sono vincitori, ma soltanto vinti. Cosa questa che è avvenuta – e da allora tende ad imporsi come modello – con il secondo conflitto mondiale. Conflitto che Jünger considera «una guerra civile di portata mondiale, che ancora una volta ha diviso il pianeta in fronti più occulti, ma per ciò stesso più spaventosi»[26].
In questa vera e propria, assoluta, "mobilitazione totale", ogni individuo indipendentemente dalle sue scelte e dalla sua volontà si muta in un potenziale belligerante ed il campo di battaglia coincide con il suo habitat e con il suo luogo di lavoro. Scrive Jünger a proposito della prima guerra mondiale: «Accanto agli eserciti che si affrontano sui campi di battaglia sorgono eserciti di nuovo tipo, l'esercito dei trasporti, dell'approvvigionamento, dell'industria degli armamenti: in generale, l'esercito del lavoro»[27]. Il primato della tecnologia già ricordato come determinante nel conflitto “moderno” è, qui, assoluto, facendo del conflitto "post-moderno" (guerreggiato e civile) un insieme articolato e complesso di relazioni. In esse, l’odio ideologico (ma anche religioso o razziale) si amalgama con l’ingegneria, la meccanica, la fisica, la chimica e l’informatica. È un mélange senza volto e connotati che – a secondo dei casi e delle circostanze – assume le forme più diverse (chiesa, azienda, “gruppo di fuoco”, istituzioni culturali), parla linguaggi diversi e fa propri comportamenti spesso contradditori (spie, infiltrati, agenti segreti, “quinte colonne”). È un modo d’essere che tutti assoggetta e tutti conforma in un mixage dove distruzione e organizzazione, interiore ed esteriore, amico e nemico sono le forme ancipiti di un analogo schema impersonale, disumanizzato e dinamico: come l’economia, la scienza e la tecnologia. Si può riassumere questa oscura tensione che “afferra” l’uomo moderno (o meglio “post-moderno” con le parole di Eric Neumann che scrive: «Ha perduto l’ingenuità del guerriero e l’interrogativo segreto che ne fa vacillare la sicurezza interiore è il seguente: “Chi sta lottando contro chi e che cosa sta combattendo contro cosa?”»[28].
In questa conflittualità – totale e onnipervasiva – ciò che prevale è solo l’ostilità: un’ostilità pura, smisurata, senza limiti né confini. É un’ostilità in cui l'avversario l'antico hostis visto come “il diverso” assume il carattere di nemico personale che, in quanto tale, deve essere completamente annientato: non importa con quali mezzi[29]. È in questo circolo vizioso – ingigantito e potenziato dai mezzi di comunicazione di massa – che trovano alimento i conflitti etnici, inter-etnici e il razzismo: con tutta la loro carica distruttiva[30]. Impossibile è – a differenza del conflitto “moderno” o di quello “classico” – spezzare questa sanguinosa circolarità. Non si ammettono zone franche: o si è amici o si è nemici. È il destino della conflittualità "post-moderna", che obbliga ogni cittadino a farsi partigiano e ad avere accanto a sé un insidioso, occulto, nemico oppure ad essere – lui stesso – un nemico. Così in un contesto di proporzioni apocalittiche il combattente del conflitto “post-moderno” (il partigiano) «finisce per diventare un ingranaggio della mastodontica macchina che opera politicamente su un piano mondiale e che lo usa ora come combattente di prima linea, ora come guerrigliero alla macchia, a seconda delle necessità generali, oppure lo mette addirittura a riposo qualora il caso lo richieda»[31]. In questo “tenebroso” scenario, il combattimento evoca, sempre più, un agguato criminale[32] dove scomparse le antiche virtutes belliche (l'onore, la lealtà, il coraggio) conta solo l’inganno, la sorpresa, la distruzione e la crudeltà[33].
Assodato che tali sono le caratteristiche principali del conflitto “post-moderno”, tuttavia – ad un’analisi più rigorosa ed approfondita si delineano alcuni fenomeni rilevanti e segnali di grande interesse. Essi fanno emergere dilatati e ingigantiti incredibili ed imprevedibili aspetti mitici e simbolici celati nella quotidianità del conflitto. Sono il portato di una dimensione inconscia, volutamente rimossa e razionalizzata dalla secolarizzazione della società e, di conseguenza, del conflitto[34]. Tale dimensione in virtù del diminuito controllo della coscienza individuale e collettiva causato dallo stress, dalle ansie e dalle paure indotte dal conflitto riemerge con insospettata e inusuale virulenza. Nel conflitto "post-moderno" si delinea, così, uno scenario simbolico dove si ri-presentano – seppure in forme mimetiche e modernizzate – antichi dei, antiche forze ed antiche paure. Sono quelle forze arcaiche ed archetipiche dell'inconscio, marginalizzate dalla modernità, ma sempre vive ed operanti. Scrive Caillois: «La guerra è un'ebollizione, un'eruzione di questo universo sotterraneo in cui fermenta senza tregua la vita inferiore delle società, quella che riguarderebbe più le scienze naturali o la chimica organica che la morale»[35]. Questo "universo sotterraneo" dimora negli abissi dell’animo, in-formando – a livello subliminale – i comportamenti pubblici e privati dell’uomo. «L'uomo moderno» scrive Jung «non si rende conto di quanto il suo "razionalismo" (che ha distrutto le sue capacità di rispondere ai simboli e alle idee soprannaturali) lo abbia posto alla mercé del mondo sotterraneo della psiche»[36].
Affacciarsi su questo aspetto segreto del conflitto “post-moderno” senza ideologizzazioni, infingimenti, preclusioni o pretestuosi giudizi di valore significa compiere una vera e propria “rottura” epistemologica. Equivale ad accantonare la abituali rassicurazioni della ragione per esplorare paesaggi nuovi ed inquietanti[37]. Malgrado i rischi ed i fraintendimenti che ciò comporta non ci si può esimere dal coglierne le emergenze. Esse saranno individuate – per la difficoltà di reperimento di materiali – nei due conflitti mondiali, pur sapendo che altrettanti se ne potrebbero rintracciare nei conflitti che hanno insanguinato (ed insanguinano) il mondo.
4. Gli archetipi dell’inconscio collettivo e i conflitti “post-moderni”.
Un primo coraggioso (e curioso) approccio a queste inaspettate emergenze lo si deve a uno storico di rango: a Marc Bloch[38]. Questi pochi anni dopo la fine del primo conflitto mondiale ha voluto mettere in luce alcuni eventi inusuali (se non, a suo giudizio, persino straordinari) provenienti dal teatro del conflitto: sono le false notizie che si sono spontaneamente diffuse al fronte[39]. Bloch ne cita diverse raccolte: alcune gli appaiono confuse e poco documentate[40], molte altre gli paiono, invece, meritevoli di attenzione[41]. Senza entrare nel merito, ciò che importa è il delinearsi in tali “false notizie” di un profondo disagio individuale e collettivo nei confronti del conflitto. È un disagio riscontrabile nelle testimonianze dei soldati, nei resoconti giornalistici e nei rapporti ufficiali in cui la fantasia, l'immaginazione e l'emotività producono, servendosi di "ricordi inconsapevoli" e di reminiscenze letterarie, trame che rimandano ad eventi leggendari, a depositi epici e a modelli mitici[42]. Prendono corpo in racconti “meravigliosi”, in cui si dispiegano vicende eroiche e straordinari atti di umanità, accanto a malvagità inenarrabili e ad impensabili crudeltà. Bloch con l’intuito che lo contraddistingue ne percepisce l’importanza: «Una falsa notizia» scrive «nasce sempre da rappresentazioni collettive che preesistono alla sua nascita; questa solo apparentemente fortuita, o, più precisamente, tutto ciò che in essa vi è di fortuito è l'incidente iniziale, assolutamente insignificante, che fa scattare il lavoro dell'immaginazione; ma questa messa in moto ha luogo soltanto perché le immaginazioni sono già preparate e in silenzioso fermento»[43]. Come si può notare e qui prevale la prudenza (forse eccessiva) dello storico Bloch tende a minimizzare sia la portata dei fatto che il loro “retroterra” psicologico, giudicandoli, sbrigativamente, come lo «lo specchio in cui "la coscienza collettiva" contempla i propri lineamenti»[44].
Ma non è, comunque, soltanto Bloch ad occuparsi di questi eventi fuori dal comune. Al pari di Bloch, un altro celebre scienziato Albert Dauzat riporta leggende, profezie e superstizioni connesse al primo conflitto mondiale[45]. Non differentemente da Bloch, Dauzat li analizza come la cristallizzazione sociale di un sentire collettivo, cui si uniscono interventi manipolatori operata da gruppi di potere. «L'influence réfléchie de groupements se superpose ici à la création inconsciente de la foule et se combine avec elle»[46]. Come si può notare, anche dall’analisi di Dauzat si delinea un quadro complesso dove trovano espressione sotto le più varie forme timori, terrori ed ansie individuali e collettive. Rivelano al di là di una apparente psicologizzazione dell’evento bellico l’insorgere di un’inquietudine ancestrale profonda, che giunge a farsi turbamento e panico. Sono un turbamento e un panico che “afferrano” tanto i belligeranti quanto i civili, ripresentificando in loro fatti ed eventi sedimentati nell’inconscio collettivo dell’umanità.
In questa ottica, particolare importanza riveste l’analisi di Marie Bonaparte che pochi anni dopo la fine del secondo conflitto mondiale e con maggior sensibilità psicologica rispetto a Bloch e a Dauzat raccoglierà quelli che ritiene essere veri e propri "miti di guerra". Sono racconti, dicerie e notizie che gettano una luce misteriosa, arcaica ed affascinante su quanto sembra essere il razionale succedersi degli eventi bellici[47]. Questi se osservati con gli strumenti dell’analitica simbolica più che non con quelli della psicologia (come fa la Bonaparte) manifestano la cospicua presenza di elementi provenienti dall'inconscio collettivo: ossia da quella dimensione universale che, come scrive Jung: «ha contenuti e comportamenti che sono gli stessi dappertutto e per tutti gli individui»[48]. Infatti, l'inconscio collettivo il cui carattere precipuo è l'ereditarietà[49] coincide con gli aspetti più arcaici della psiche: aspetti che, quasi sempre, non superano lo sbarramento del conscio e gli ostacoli frapposti della coscienza. Rinviano alle pulsioni primordiali presenti in ogni individuo e ogni collettività che riemergono, in tutta la loro potenza, allorché la coscienza e i suoi processi razionalizzanti si rivelano inidonei a comprendere, contenere, interpretare e organizzare il reale. Il che si verifica particolarmente nei conflitti "post-moderni", in cui i partecipanti sia civili che militari vengono "gettati" dagli avvenimenti in una sfera “altra” rispetto a quella quotidiana e consueta. In questa “sfera” vengono “afferrati” da affezioni dell’animo e da condizioni d’esistenza da lungo tempo dimenticate: quali l'istinto, l’intuizione, la passionalità, le emozioni, l’immediatezza e non ultima la possibilità di uccidere e di venir ucciso. Come scrive Jünger: «Si trema sotto l'effetto di due sentimenti contrastanti: l'emozione del cacciatore portato all'estremo e l'angoscia della preda»[50].
Nell’arcaica ed estrema antropologia riproposta dal conflitto, si ri-attivano e prendono pertanto forma, esistenza e rilevanza le immagini archetipiche, altrimenti latenti nell'inconscio collettivo[51]. Su questa base e utilizzando anche se, ovviamente, non sono gli unici[52] i già ricordati lavori di Bloch, Dauzat e Bonaparte è possibile individuare ed analizzare una tra le più rilevanti emergenze archetipiche: è quella che, più di ogni altra, rende ragione del disagio suscitato dalla conflittualità bellica. Si tratta del simbolismo apocalittico
5. Il simbolismo apocalittico nel conflitto post-moderno.
Una delle immagini archetipiche più ricorrenti del conflitto “post-moderno” è come si è sopra ricordato quella dell’Apocalisse. Essa dà forma al terrore senza nome che, da sempre, si confonde con le tenebre dell'inconscio primordiale in cui l’uomo non ancora rassicurato dallo sviluppo della coscienza è assolutamente dipendente da tutto ciò che lo circonda, che lo sovrasta e da cui teme di essere precipitato nel caos. Caos che l'umanità nei corso dei secoli ha, in ogni modo, tentato di esorcizzare e che i conflitti bellici fanno, invece, pericolosamente riaffiorare. Questi terrori archetipici di annullamento si “coagulano” (tra le tante forme che assumono) nel simbolismo profetico-apocalittico in cui traslata nella tecnica si metamorfizza l’antica belva del giudizio universale[53]. Un esempio è dato da una profezia del vallese in cui si racconta che: «Lorsque le serpent de fer traversera le Valais il y aura une grande guerre [...] dans laquelle il y aura tellement de sang répandu que le chevaux en auront jusqu'aux jarrets»[54]. Non differente è il racconto in cui negando totalmente ogni umanità si narra che i tedeschi sono soliti utilizzare i cadaveri per produrre grassi, si servono di baionette seghettate per sventrare i nemici o che crocifiggono gli avversari[55]. Ma non lo è da meno l'episodio in cui un plotone di alpini morti marcia in silenzio, in fila indiana e lentamente sotto gli occhi di una sconcertata e atterrita contadina: non meraviglia che sia la morte sotto l’aspetto dell’ultimo soldato a chiudere la fila[56].
Così sempre in una allure da “fine del mondo” troviamo i ripetuti richiami giornalistici a Parigi paragonata alla grande meretrice apocalittica[57] o alla città di Sodoma, simbolo di ogni depravazione e, quindi, meritevole della punizione divina: ossia di essere rasa al suolo[58].
Ma l’apoteosi di questo revival apocalittico è sicuramente data dalla inquietante figura dell'Anticristo[59] il male personificato simboleggiato, nell'Apocalisse giovannea, dal numero 666[60]. Ebbene, servendosi di numeri e lettere tra loro esotericamente (e arbitrariamente) associati si attribuirà al termine tedesco (Kaiser), che designava l’imperatore Guglielmo II, il valore numerico di 666, facendone, la vivente rappresentazione del biblico Anticristo[61]. Sulla stessa falsariga, dal 666 sarà ricavata con complessi procedimenti la corrispondenza tra l'anno di nascita del Kaiser e l'anno d'inizio della Grande Guerra e così via[62], leggendo, negli avvenimenti bellici, la cifra dell’Anticristo: il Signore della fine dei tempi. È, qui, fin troppo evidente la lontananza abissale dai conflitti “classici” che consideravano il nemico ed i suoi capi (sino a prova contraria) valorosi ed onorati combattenti. Facendone nemici totali e immagini dell’Anticristo, i conflitti “post-moderni” assumono il carattere di una “lotta definitiva” tra bene e male: da combattersi sino alla piena e totale estinzione dell’avversario. Visti in questa prospettiva, i conflitti "post-moderni" come anche il recentissimo conflitto iracheno dimostra diventano conflitti metastorici, in cui la posta in gioco è elevatissima: coincidono, infatti, con la vittoria o con la sconfitta di un male interiorizzato e pervasivo, il cui scopo è la distruzione dell’umanità.
Certamente, questa assoluta estremizzazione del conflitto può esser superata, integrando nell’individuo e nella collettività le “fratture” apocalittiche dall'inconscio, derivate dal conflitto stesso. Il che è possibile ricompattando la razionalità (la dimensione conscia) e l’a-razionalità (quella inconscia), la tecnica e lo spirito nella visione archetipica unificante e pacificante del Sé. Dove il Sé è servendosi del lessico della psicologia analitica è una "totalità psichica", la cui completezza e pienezza rinvia alle immagini simboliche del divino[63]. Significa perseguire la ricomposizione degli opposti o complexio oppositorum in cui, appunto, conscio ed inconscio, positivo e negativo, morte e vita, amico e nemico si risolvono in una superiore e luminosa unità: in un uomo nuovo[64]. Tuttavia, se di questo fine ultimo gli uomini possiedono una generica consapevolezza, parimenti nutrono la profonda convinzione della loro incapacità a raggiungerlo. Di qui nasce la credenza e la speranza che per allontanare la conflittualità e vincere l’Anticristo non rimanga che il ricorso archetipico ad un capro espiatorio: ad un nuovo agnello sacrificale.
6. Il simbolismo sacrificale nel conflitto “post-moderno”
Questo spiega assodata la difficoltà (o l’incapacità) umana a realizzare la complexio oppositorum il ricorso costante al simbolismo sacrificale nei conflitti “post-moderni”: come l’estrema via d'uscita a qualcosa che si presenta come irresolubile. Tale ricorso si presenta in due accezioni simboliche, tra di loro connesse ed entrambi scaturite dall'inconscio collettivo.
La prima si oggettiva in un individuo o in una collettività una razza, una etnia o un popolo su cui viene proiettata la speranza catartica (la costruzione del capro-espiatorio) di poter di risolvere la crisi sviluppatasi con il conflitto. Essa coincide con la proiezione dell'Ombra: quella componente inconscia della personalità che abita nella psiche e che si può considerare come l'inquietante permanenza di un mondo ancestrale[65]