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Non esiste giustizia senza verità, né verità senza senso morale

di Francesco Lamendola - 16/02/2014




 

L’idea di giustizia non può prescindere dal concetto della verità, anzi, della Verità con la “v” maiuscola: non esiste giustizia che non sia anche Verità, omaggio alla Verità, testimonianza della Verità; e non esiste Verità che non proclami, magari con un silenzio assordante, perfettamente udibile dalla coscienza, sia pure nel bel mezzo dei rumori esterni più assordanti, l’esigenza della giustizia, anzi, della Giustizia con la “g” maiuscola.

Al tempo stesso, non esiste verità che non si regga sul giudizio e dunque sul senso morale; dunque, per giungere al cospetto della Verità, o quanto meno per avvicinarvisi, agli uomini non resta altra via che quella di instaurare la giustizia, di proclamare la giustizia, di applicare la giustizia: perché la giustizia non è fine a se stessa, non consiste nella formulazione e nella applicazione – più o meno coerente, più o meno rigorosa – della legge, ma nel riconoscimento che la giustizia senza la verità è una tragica beffa ai danni dell’uomo, e che la ragion d’essere della giustizia è quella di mettersi al servizio della Verità, senza alcun sotterfugio e senza alcun secondo fine.

Ecco perché la giustizia umana, che è il tentativo, sempre insufficiente e tuttavia sempre necessario, di tradurre la Verità in termini pratici, di stabilire una norma, di applicare un diritto, non può e non deve accontentarsi del rispetto formale di quella norme, di quel diritto: infatti il rispetto solo formale di essi corrisponde, in pratica, al tradimento dello spirito da cui scaturiscono, cioè a un tradimento nei confronti della Verità. E la giustizia, se non traduce in atto il bisogno, insito nell’uomo, di verità, diviene lettera morta, un cadavere in putrefazione che manda cattivo odore. Le società legalistiche, le culture legalistiche, le religioni legalistiche, cadono in questa trappola, in questo drammatico vicolo cieco: nel loro zelo di tradurre la Verità in termini di legge, finiscono per tradire la giustizia, perché la vera giustizia non è altra cosa dalla Verità, è l’aspetto pratico della Verità, inseparabile da essa, tutt’uno con essa.

A sua volta, la verità, per gli esseri umani, non può essere enucleata al di fuori di un quadro dei valori e di retta coscienza, ossia al di fuori della morale: sono una creatura morale può vedere, o intravedere, la Verità; e solo una creatura morale può tentare di tradurre la Verità in termini giuridici, di darle un fondamento legale, di farne la base della legge.

Il pensiero moderno, però, si è allontanato da questa felice intuizione originaria; dopo che gli uomini, per migliaia d’anni, hanno riconosciuto l’identità di Verità e di Giustizia, e hanno giustamente valutato il loro legame necessario con la morale, la filosofia moderna ha deciso che tali legami non sono necessari, anzi, che non sono degni di una società civile; che la giustizia si deve emancipare dalla morale, o almeno dalla morale tradizionale, fondata sull’essere, per aggiornarsi continuamente al cambiamento sociale e culturale in atto; e che la Verità, con la “v” maiuscola, non esiste né mai è esistita, dunque che è sbagliato e dannoso volerne fare la base della giustizia. Tale è l’essenza del pensiero liberale, che, in questo senso, si può considerare davvero come l’anima della civiltà moderna: una civiltà basata sui diritti del singolo individuo, preferibilmente dotato di mezzi economici. Dunque su una ragion pratica slegata dalla ragion pura, dalla subordinazione necessaria all’essere.

Da Kant in poi, la filosofia ha rinunciato a occuparsi dell’essere; e, da Hegel in poi, ha capovolto il rapporto fra l’essere e il pensiero, facendo di quello il risultato di questo; infine, con Bentham e gli altri utilitaristi, ha sentenziato che non è vero ciò che è vero e che non è giusto ciò che è giusto, ma che è vero e giusto ciò che è utile, ciò che risulta utile all’uomo, a questo particolare tipo d’uomo che può far valere i suoi diritti in tribunale con la forza del denaro, ad esempio pagandosi i migliori avvocati, indipendentemente dal grado di verità che si riflette effettivamente nella sua pretesa di avere “giustizia” dalla società. È il trionfo dell’ingiustizia legalizzata.

Così scriveva Enrico Opocher (Treviso, 1914 – Padova, 2004), uno dei nostri più insigni filosofi del diritto, già docente all’Università di Padova, nel breve ma significativo saggio «Giustizia e verità» (nel volume collettaneo «Settimana di studi giuridici in onore di Francesco Carnelutti», a cura di Nicola Mangini, Quaderni dell’Ateneo Veneto, Venezia, 1967, pp. 24-25):

 

«Che l’idea della verità o, meglio, del riconoscimento della Verità, costituisca uno degli aspetti fondamentali della Giustizia è cosa di cui si è accorta anche la coscienza comune. Nella sua profonda saggezza, in quella saggezza che non conosce le complicazioni e qualche volta anche le storture degli “addottrinati”e perciò coglie quasi sempre con mirabile intuizione le basi stesse del mondo umano, essa ha, infatti, individua tonda tempo immemorabile questo aspetto della Giustizia, ha sempre capito che la forma peggiore, più atroce dell’ingiustizia consiste proprio nella negazione della Verità.

Interroghiamo l‘uomo della strada. Poniamolo di fronte ad una sentenza, vale a dire al culmine stesso dell’esperienza  che si costituisce intorno all’idea della Giustizia. Più che preoccuparsi della sua corrispondenza o meno alla legge e quindi delle ragioni della sua legalità, più che soffermarsi a commisurare la corrispondenza o meno di questa sentenza all’orizzonte ideologico della società in cui vive, l’uomo della strada si chiede se il giudice abbia rispettato la Verità, se  abbia attribuito la ragione ed il torto secondo Verità. Egli sente che il problema di fondo della Giustizia sta proprio qui. E di questa profonda intuizione della coscienza comune il pensiero riflesso non poteva non tenere, sia pure rapsodicamente, il massimo conto. Le antiche culture orientali l’hanno sottolineata, al solito, in maniera estremamente incisiva: “Di uno che dice il vero si dice che parla il giusto e di uno che parla il giusto che dice il vero: le sue cose sono in realtà una sola”, afferma una antichissima “Upanishad” indiana. E la Bibbia rincalza: “Chi dice la verità proclama la Giustizia” (Proverbi, XII, 17). Ma anche nella cultura classica ed in quella medievale possiamo cogliere la preoccupazione di approfondire il medesimo concetto. Nel “De officiis” Circerone insegna che “fundamentum autem est iustitiae fides id est victorum conventorumque constantia et veritas” (V, 1, cap. VII). E nella “Summa Theologica” S. Tommaso sostiene che “ad hoc debitum pertinet quod homo talem exibeat alteri in verbis et in factis qualis est et ideo adiungitur iustitiae veritas” (II, 2, quaestio LXXX). L’intuizione del profondo rapporto intercedente tra Giustizia e Verità non viene certo meno nella cultura moderna ed in quella contemporanea. Vico e Rosmini non esitano rispettivamente ad affermare che “cumque et verum ut aequum bonum sit duplex fundamentum omnis societatis, cumque id dictet ipsa iustitia” (“De uno universi iuris principio et fine uno”, LVII e LIX) e che “il riconoscimento della verità… è l’atto proprio ed essenziale della moralità” (“Principii della scienza morale”, XXI, Milano 1941, pp. 101 ss.).»

 

Il problema della giustizia, dunque, si pone all’uomo moderno in termini essenzialmente legalistici: curioso ritorno al passato di una filosofia del diritto che si auto-proclama evoluta più di quante mai ve ne furono nel corso della storia.

L’uomo antico non si preoccupava della verità, ma della giustizia: ottemperare alle leggi era giusto, e di più non gli veniva domandato. Il dramma di Antigone è tutto qui: nel fatto che, per la cultura greca, i diritti della coscienza non trovano riconoscimento da parte della “polis”, se si discostano da quanto stabilito per legge. “Ethos” e “nomos” non sempre vanno d’accordo; o meglio, l’”ethos” non rende ragione del sentimento di giustizia individuale, del sentimento di giustizia così come sgorga spontaneamente alla coscienza, magari in contrasto con quanto prescritto dalle leggi civili. Le cose andavano ancora peggio nella cultura giudaica: il processo e la morte di Gesù nascono proprio da ciò. La religione giudaica non ammette che una legge della coscienza, appellandosi direttamente alla Verità, possa superare e sostituire la legge mosaica: opinare diversamente, significa commettere sacrilegio. Gesù viene accusato di sacrilegio e condannato per questo, per aver preteso di far valere una idea della giustizia, e quindi della Verità, superiore e anteriore a quella dei rabbini e degli scribi. La sua morte è stata voluta e preparata a lungo, con estrema coerenza e determinazione: fin da quando egli ha proclamato che non l’uomo è fatto per il sabato, ma il sabato per l’uomo; che non i giusti, mai i peccatori hanno bisogno dell’amore e del perdono di Dio; che non è lecito a chi è peccatore, scagliare la pietra contro un altro peccatore.

Pilato, rappresentante della concezione romana, si meraviglia di tutto questo infervorarsi dei Giudei per una questione astrusa e lontana, come quella della verità; ironicamente chiede a Gesù: “Che cos’è la verità?”, ma non attende nemmeno la risposta. Per lui, romano, erede della tradizione antica, è ovvio che la legge non discende necessariamente dalla verità; che non si può nemmeno dire, con precisione, che cosa sia la verità; è ovvio che la legge si limita a stabilire delle norme e a sorvegliare che esse siano applicate, e a punire coloro che le infrangono. Lo scontro fra le due mentalità, quella antica e quella cristiana, è rimandato di tre secoli e mezzo, ma inesorabilmente arriva: arriva quando l’imperatore Teodosio, colpevole di aver ordinato un brutale e indiscriminato massacro di cittadini a Tessalonica, si vede chiudere in faccia le porte della chiesa ed imporre dal vescovo di Milano, Ambrogio, una severa penitenza. E vince il vescovo inerme, contro un sovrano che regna sull’impero più potente della storia.

Tutta la filosofia del diritto medievale ribadisce questo concetto, chiaramente formalizzato anche da San Tommaso: se insorge una discrepanza fra quanto ordina la legge e quanto esige la coscienza, bisogna dare ascolto alla voce della coscienza. È la vittoria dell’uomo interiore sull’uomo esteriore, della Verità sulla legge con la “l” minuscola, cioè come insieme di norme pratiche, puramente umane, puramente formali. La Giustizia è di Dio: agli uomini spetta, sì, farla rispettare, ma non sostituirsi ad essa, non stabilire da se stessi che cosa sia giusto e cosa non lo sia. Questo spetta a Dio: il peccato di Adamo ed Eva, il peccato originale, nacque proprio da qui: dal volersi fare l’uomo arbitro del bene e del male, stabilendo da sé in che cosa consistano.

Ma la cultura moderna non accetta più questo principio, anche perché non crede più in Dio. La cultura moderna pensa di poter rendere giustizia agli uomini anche prescindendo dalla Verità, semplicemente applicando il codice. Per ogni reato c’è un articolo del codice che lo contempla e lo punisce; e per ogni articolo del codice c’è una pena corrispondente. Molto semplice. La Giustizia si è persa per strada, è rimasta la legge, con la “l” minuscola: e questo è tutto. Siamo ricaduti nel legalismo farisaico: chi rispetta la legge è a posto, chi non la rispetta è un reo. Come lo era Antigone, con la sua pretesa di dare pietosa sepoltura al fratello morto.

Esiste una possibilità di ritornare all’idea della Verità e della Giustizia, di rifondare la Giustizia sopra la roccia incrollabile della Verità, senza però ritornare all’identificazione della legge civile e penale con la legge religiosa, come tuttora avviene nelle legislazioni di tipo fondamentalista? Esiste la possibilità di superare il formalismo e di riconquistare lo spirito della legge, che è spirito di Verità e di Giustizia? Forse; ma a patto di ricostituire un quadro di riferimento morale, nel senso più alto del termine. Una società e una cultura che abbiano smarrito il senso morale, che abbiano smarrito perfino la consapevolezza che sul senso morale poggia anche il sistema giuridico, non potranno mai più ritrovare né la Giustizia autentica, né, di conseguenza, la Verità.

Tale è il vicolo cieco in cui ci siamo infilati, chiamandolo Progresso. Adesso ci ritroviamo fra le mani delle armi spuntate, dei tribunali che non rendono vera giustizia, delle sentenze che offendono la Verità: e le persone comuni, come osserva Opocher, se ne accorgono benissimo, benché digiune di dottrina giuridica – o forse proprio per questo. Certo è che si è creato un abisso fra la “giustizia” che si celebra nei tribunali e il senso della giustizia che vive nel cuore degli uomini; fra le leggi approvate dai parlamenti, e quelle che sono inscritte, in caratteri indelebili, nella coscienza delle persone; un abisso che continua ad allargarsi giorno dopo giorno, anno dopo anno. Per la legge, l’aborto è perfettamente legale, purché fatto nei termini che essa stabilisce; anche l’eutanasia, entro pochi anni, lo sarà in moltissimi Paesi; e così pure i cosiddetti matrimoni omosessuali, con  tanto di ”diritto” alla genitorialità. Ma nel profondo della coscienza, qualcosa si ribella.

I giudici applicano la legge, ma quella legge è solo una caricatura della vera Legge: che nasce direttamente dalla Verità e, pertanto, non è negoziabile, né strumentalizzabile. È, semplicemente…