Che cos’è la geometria?
di Francesco Lamendola - 21/02/2014
Che cos’è la geometria?
Tutti crediamo di saperlo; qualunque studente, interrogato in proposito, si affretta a sciorinare la definizione appresa sul libro, che suona press’a poco così: “la geometria è quella scienza che studia le figure disposte sul piano e nello spazio, e le loro reciproche relazioni”.
In verità, questo è un buon esempio del nostro credere di sapere – tipico soprattutto della nostra cultura, cioè della cultura occidentale moderna -, che si riduce a un falso sapere, allorché si trova a dover riflettere sui propri fondamenti e scopre di non averli, o di non averli chiariti a sufficienza; un sapere che, tutto preso dalla smania del fare, dell’agire, del manipolare, non si preoccupa più di tanto di fondare coerentemente, lucidamente e rigorosamente le proprie basi teoretiche, convinto, nella sua immensa presunzione, che quello che conta, in ultima analisi, è il risultato, ovvero, per usare un’espressione più consona all’odierna temperie culturale, il “successo”, ossia la capacità di modificare effettivamente la realtà esterna, secondo la propria volontà.
È lo stesso deficit di chiarificazione profonda che si nota in tutte le altre scienze e in tutti gli altri ambiti del pensiero: dalla filosofia alla teologia, dalla storia alle scienze naturali, dalla fisica alla chimica, dalla psicologia all’antropologia, dall’economia al diritto. E con quali nefaste conseguenze, è cosa che sta ormai sotto gli occhi di tutti – o, almeno, di tutti coloro i quali sono disposti, in buona fede e con retta coscienza, a vederli e a riconoscerli, senza prestarsi al gioco dello struzzo.
Lasciamo perdere, dunque, le formulette imparate a memoria quando eravamo sui banchi di scuola - forse davanti a dei professori che si accontentavano di sentirsele ripetere docilmente, ma non di sviluppare in noi un autentico senso critico delle cose - e proviamo a domandarci, di nuovo, ma con mente sgombra da ogni residuo di falso sapere: che cos’è la geometria?
Innanzitutto, perché ci sia una geometria, è necessario che ci sia uno spazio nel quale porre (cioè immaginare di porre; porre idealmente ) le figure; e, naturalmente, una mente capace di riflettere su di essi. Lo spazio, lo immaginiamo già “dato”, e anche le figure (come e perché, non è cosa che riguardi direttamente la geometria: riguarda la filosofia - non è male, tuttavia, che anche lo studente di geometria provi a porsi l’interrogativo, tanto per abituarsi a non lavorare del tutto alla cieca, come un “tecnico” col suo bravo paraocchi). Tuttavia, se anche lo spazio e le figure sono già “dati”, resta da capire e da definire quale sia l’oggetto dello studio di codeste figure nello spazio (qualunque cosa tale spazio sia), perché non tutto, di loro, ci interessa. Non ci interessa il colore, ad esempio, né il numero: non ci interessa che un triangolo sia rosso, o verde, o giallo; né ci interessa che vi siano dieci, cento o mille triangoli che presentano determinate caratteristiche, per esempio di essere dei triangoli equilateri, o isosceli, o scaleni. Infatti, quando avremo dimostrato certe proprietà di un triangolo equilatero, daremo per scontato che esse valgano per qualunque triangolo equilatero, indipendentemente dalle sue dimensioni o da qualunque altra caratteristica che non interessi la geometria.
E allora, quali sono le proprietà delle figure che ci interessano, in quanto oggetto di quella scienza chiamata “geometria”? Sono quelle riguardanti le trasformazioni delle figure stesse, che non modificano le loro proprietà: tale è, in sintesi, la definizione proposta da un grande matematico tedesco del XIX secolo, Felix Klein.
Un buon esempio di questo concetto è offerto dal cosiddetto principio di Cavalieri (un matematico italiano vissuto nel XVII secolo): DUE SOLIDI CHE SI POSSONO COLLOCARE IN MODO CHE SIANO EQUIVALENTI LE LORO SEZIONI CON UN QUALSIASI PIANO PARALLELO A UN PIANO FISSO, SONO EQUIVALENTI.
In pratica, si tratta di questo: se consideriamo un parallelepipedo rettangolo costruito mediante un certo numero di fogli di carta, rettangolari, tutti uguali fra loro ed esattamente sovrapposti, potremo far scorrere i fogli l’uno sull’altro, fino a trasformarlo in un parallelepipedo che non sarà più retto, ma un solido con le facce incurvate, sempre restando invariate sia la base che l’altezza. I solidi formati in questo modo saranno sempre equivalenti: ciò risulta intuitivo, dal momento che sono costituiti dallo stesso numero di fogli. Tutto ciò dimostra che una figura geometrica può essere deformata in maniera tale da assumere una conformazione alquanto diversa da quella iniziale, e tuttavia rimanere equivalente a se stessa, conservando la stessa base e la medesima altezza. Questo è quanto intendevamo, dicendo che alla geometria interessano solo certe proprietà delle figure, e più precisamente quelle che non vengono modificate dalle trasformazioni che dette figure possono subire.
Scriveva Luciano Scaglianti nel suo libro di testo «Geometria per gli Istituti Magistrali» (Padova, Cedam, 1981, pp. 225-227):
«All’inizio dello studio della geometria l’abbiamo definita come “LA SCIENZA CHE SI PROPONE LO STUDIO DI UN CERTO INSIEME, DETTO SPAZIO, COSTITUITO DA INFINITI ELEMENTI, DETTI PUNTI”. La geometria, cioè, si occupa, come sovente si dice, delle “proprietà” delle figure nel piano e nello spazio. È però da notare che la definizione sopra data è molto generica, e in geometria non si studiano affatto TUTTE le proprietà delle figure. In geometria è del tutto indifferente, per esempio, disegnare un triangolo su una carta bianca o sulla lavagna nera; il colore del triangolo non è oggetto di studio da parte della geometria. Così pure nello studio delle figure geometriche si prescinde, in modo del tutto naturale, da certe realizzazioni concrete le quali particola rizzano la figura stessa. Per esempio, quando si studia la “circonferenza” si ritiene del tutto ovvio che le proprietà che interessano la geometria sono quelle che si riferiscono non ad una particolare circonferenza, ma quelle comuni a tutte le circonferenze isometriche alla data, cioè a tutte le circonferenze che differiscono tra loro solo per la posizione occupata nel piano. In atre parole, le proprietà che interessano sono quelle che rimangono invariate anche se la figura viene sottoposta ad un movimento rigido, cioè un’isometria. Addirittura, a volte, interessano proprietà comuni a circonferenze» “simili”, cioè quelle proprietà che permangono anche se la figura viene sottoposta ad una similitudine, cioè trasformata in un’altra simile. […] In altre parole, in geometria è indifferente considerare la circonferenza in una posizione, oppure in un’altra, e per certe proprietà, con un dato raggio oppure con un altro. Concludendo possiamo dire che quando una figura viene sottoposta ad una “trasformazione”, alcune proprietà della figura “si conservano”, cioè “rimangono invariate”: sono proprio queste proprietà che si chiamano PROPRIETÀ GEOMETRICHE.
L’analisi metodologica della struttura della geometria, che ha portato a questi punti di vista, è stata compiuta dal matematico tedesco F. Klein verso la fine del secolo scorso. Per capire quale sia l’importanza e la profondità dell’analisi di Klein occorre ricordare che ai suoi tempi la geometria aveva assunto un nuovo assetto, dovuto all’esistenza di varie “geometrie”; in particolare la geometria “proiettiva” si era presentata alla ribalta della scienza come una dottrina più generale della geometria “euclidea”, intesa in senso classico, ed erano anche apparse diverse ricerche le quali sviluppavano “geometrie” che apparivano come abbastanza “strane” e che si presentavano anche in certo modo come episodiche e staccate tra loro. Il merito di Klein fu di presentare un’idea unificatrice, la quale permetteva di dare una classificazione, e quindi una visione unitaria di tutti questi capitoli della geometria, che si erano originariamente presentati come abbastanza diversi e indipendenti tra loro. Lo strumento di cui si serve Klein per tale unificazione è un concetto che appartiene all’algebra: il concetto di “gruppo” che Klein presenta sotto la sua realizzazione concreta di “gruppi di trasformazioni”. Egli, infatti, in un celebre discorso inaugurale tenuto nel 1872, quando diventò professore all’Università di Erlangen, mostrò come il concetto algebrico di “gruppo” potesse essere impiegato quale mezzo conveniente per caratterizzare le varie “geometrie” che erano apparse nel corso dei secoli. Nel suo discorso, che diventerà famoso come “Programma di Erlangen”, Klein descrive la geometria come lo studio delle proprietà delle figure aventi carattere invariante rispetto a un particolare gruppo di trasformazioni. Qualsiasi classificazione dei gruppi di trasformazione diventava pertanto una codificazione delle varie geometrie. La geometria euclidea, per esempio, è lo studio delle proprietà delle figure che rimangono invariate rispetto al gruppo delle trasformazioni formato dalle “similitudini”, che contiene come sottogruppo il gruppo delle “isometrie”. La geometria “affine” è lo studio delle proprietà delle figure che rimangono invarianti rispetto al gruppo delle “affinità”; la geometria “proiettiva” è lo studio delle proprietà invarianti rispetto al gruppo delle “proiettività”, ecc.
Concludendo possiamo dire che per fondare una “geometria” occorrono:
a) uno SPAZIO, la cui struttura viene descritta da opportuni assiomi.
b) Un GRUPPO DI TRASFORMAZIONI, ossia un gruppo di particolari corrispondenze biunivoche tra i punti dello spazio, anch’esse definite da opportuni assiomi.
Dopo di che si dà la seguente definizione: LA GEOMETRIA È LA SCIENZA CHE STUDIA QUELLE PROPRIETÀ DELLE FIGURE CHE NON VENGONO MODIFICATE DA PARTICOLARI TRASFORMAZIONI DELLE FIUGURE STESSE.
È da notare, infine, che le proprietà delle figure che si conservano dipendono dal tipo di trasformazione che si considera. Per esempio, le isometrie conservano le “distanze”, mentre le similitudini non conservano le distanze, ma il “rapporto” tra segmenti corrispondenti. Dunque a seconda del tipo di trasformazione che si considera si ha un “tipo” di geometria. E per fare della geometria occorre SEMPRE avere uno spazio e un gruppo di trasformazioni.»
I diversi tipi di geometria che si possono immaginare sono la conseguenza del tipo di trasformazioni a cui si sottopongono le figure nello spazio. Non esiste geometria se non si dispone di uno spazio in cui porre le figure e se non si esercitano delle trasformazioni, o meglio, come chiarisce Klein, dei “gruppi” di trasformazioni. Una geometria puramente statica sarebbe un non senso, perché si ridurrebbe alla descrizione di figure “morte”; mentre le figure geometriche sono tali in quanto sono “vive”, cioè in quanto suscettibili di trasformazioni, e più precisamente di trasformazioni che non ne modifichino le proprietà.
Ma non solo le figure della geometria sono “vive”: anche lo spazio in cui si collocano è “vivo”, tanto è vero che può dilatarsi indefinitamente ad accogliere qualunque tipo e quantità di figure; la definizione geometrica di spazio, infatti, è che si tratta di un insieme costituito da infiniti elementi, detti punti. Ma anche i suoi sottoinsiemi, le rette e i piani, godono della medesima proprietà: per cui ne deriva, paradossalmente, che la parte non è minore del tutto, perché anche la parte dello spazio formata dalla retta e dal piano risulta costituita da infiniti punti.
Ed eccoci tornati al punto iniziale: alla necessità, cioè, di collocare anche la geometria entro un certo quale orizzonte filosofico, del quale non solo lo specialista, ma anche il semplice studente, dovrebbero possedere un minimo di consapevolezza. Non si può parlare di “spazio”, di “figure”, di “piani”, di “rette” e di “infiniti punti”, senza avere elaborato, almeno in forma embrionale, una consapevolezza di quali implicazioni filosofiche abbiano simili concetti. Come si può parlare anche solo di un semplice “punto”, se non si possiede una sia pur minima nozione di “infinito”? Ne abbiamo già trattato in un altro lavoro, per cui non ci torneremo sopra ulteriormente (cfr. l’articolo «Il punto per Euclide è qualcosa di esteso o di inesteso?», apparso sul sito di Arianna Editrice in data 31/12/2007). Ma il problema è reale.
Quel che sarebbe auspicabile non è che le singole scienze si “sciolgano” tutte nella filosofia (e quest’ultima, magari, nella teologia), ma che tornino a riconoscere la loro relazione armonica e necessaria con l’essere; che non ci si dimentichi mai che le singole scienze si possono considerare tali, al plurale, soprattutto per ragioni di ordine pratico e didattico; ma guai a scordarsi che la scienza è una, ed è scienza del vero; a differenza dell’opinione, che è approssimazione al probabile – o magari all’improbabile, secondo i gusti.
Del resto, Platone aveva già ammonito che non dovrebbe occuparsi di filosofia chi non conosce la geometria; ma l’affermazione potrebbe essere rovesciata: perché è tanto necessario saper vedere la relazione fra il particolare e l’universale, quanto fra questo e quello. Ma lo scopo è sempre la Verità.