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Storia e memoria: redimerci dal senso di colpa

di Lorenzo Vitelli - 21/02/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Si può pensare la memoria senza la Storia? Senza l'atto storico di trasformazione del reale? Come redimere il senso di colpa nei confronti di un passato che affligge l'inconscio del vecchio continente quando la memoria diventa un'impasse?

Giuditta e Oloferne-Caravaggio

“Con ciò, però, si aprì la strada alla più grave e oscura malattia, da cui sino a oggi l’umanità non è guarita, la sofferenza che l’uomo ha di sé, dell’uomo stesso: come conseguenza del distacco violento dal suo passato animale, di un salto, di una caduta quasi, in nuove situazioni e condizioni esistenziali, di una dichiarazione di guerra contro gli antichi istinti su cui fino ad allora aveva fondato la sua forza, il suo piacere e la sua temibilità”.

Friedrich Nietzsche, Genalogia della Morale

Ci aveva già pensato il filosofo Peter Sloterdijk a definire la nostra come un’epoca post-storica. Il crollo del muro di Berlino nel 1989 ha segnato definitivamente il passaggio da un generale paradigma storico, durato oltre 2000 anni, ad un paradigma di abulico immobilismo. Da un paradigma lineare, che si dilatava nello spazio (passione per il viaggio e la scoperta) e nel tempo (eredità, successioni, dinastie) ad un paradigma ciclico, canalizzato nel solo ambito del modello capitalistico. Ma il cambiamento è più profondo, radicato nelle istanze psichiche con cui l’individuo d’Occidente si rapporta al mondo: noi non siamo più nella Storia. L’era post-storica ci ha reso atomi, particelle vaganti all’interno di uno spazio-tempo ciclico che viviamo come eterno presente senza continuità con il passato (sconosciuto e distante) né slancio verso il futuro.

Ma subito salta fuori la contraddizione: abbiamo abbandonato la Storia, il noi nella storia, l’essere parte di un tutto in evoluzione, ma non abbiamo abbandonato l’orrore della Storia, delle guerre, degli eccidi, dei massacri, delle stragi: il senso di colpa. Come Alex DeLarge di Arancia Meccanica siamo forzati spettatori dell’arazzo sul quale furono intessute le vicende dell’umanità: la Storia, banalizzata a film, opera d’arte, oggetto di studio o di culto. Ci sono concessi unicamente la cattiva coscienza, il risentimento, il rancore; divisi nella memoria e dalla memoria, tentiamo l’espiazione indicando l’altro.

Ma non è più data l’interazione, l’azione, la redenzione. Il reale non è più trasformabile nell’era post-storica, e il ricordo prevale: ricordare di modo che nulla più possa accadere. La memoria come impassibilità, ricordare per “non fare”. Perché fare vuol dire storicizzarsi, secolarizzare un atto volto ad agire come prassi per modificare l’ordine prestabilito. Ogni atto che si compie e si vuole storico, è additato come orrore, ideologicamente strumentalizzato dal coro politicamente corretto – che ne trova facilmente un equivalente nel passato – in quanto abominio. Nell’era post-storica si è conclusa la dialettica. L’Assoluto è la Democrazia. Fukuyama docet. Lo spazio e il tempo, dentro i quali la Storia si concretizza, vanno aboliti, e la sola dimensione disponibile è la ciclica spirale consumista. La realtà è a corto termine: un misinterpretato carpe diem.

Nietzsche parlava di dimenticanza, oblio totale del sé e della coscienza imposta che è inevitabilmente fonte di repressione. La libertà totale dalla memoria. Gli americani dominarono il mondo perché non avevano né Storia né memoria. Ma l’ingenuità e l’innocenza permisero loro di fare tutto, e finirono per divenire a loro volta peccatori. Se la memoria è dunque necessaria, essa è necessaria per far si che qualcosa – di diverso dall’orrore – accada. Essa va messa al servizio della Storia, non come contemplazione passiva o ricordanza obbligata, ma come interazione in vista di trasformare il mondo, creandovi una continuità, per tornare così ad essere padroni dello spazio e del tempo, redimerci oltre l’idea di “progresso” o emancipazione materialistica, agire e riscattarci nella tensione verso il miglioramento, riconciliando il sé con il passato, che è radice sulla quale solamente si può pensare il futuro.