"I negri nella parlata educata dei bianchi di settant’anni fa, erano chiamati ‘gente di colore’; poi diventarono ‘neri’; ora sono ‘afroamericani’ (…). Ma per milioni di americani (…) erano e restano niggers [negracci], e i cambiamenti di nome non hanno modificato le realtà del razzismo più di quanto gli annunci rituali di piani quinquennali o di ‘grandi balzi in avanti’ abbiano trasformato in trionfi i disastri sociali dello stalinismo e del maoismo”.
Così scrive Robert Hughes, con un tono che può anche dar fastidio, a proposito del “politicamente corretto” nella Cultura del piagnisteo. Un libro pubblicato in Italia da Adelphi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (e ristampato di recente), che all’epoca procurò al brillante critico d’arte di Time non pochi a nemici. Soprattutto in America, e tra gli accaniti difensori del multiculturalismo spicciolo: tutti fermamente convinti di potere azzerare, diciamo così, il tasso di razzismo e intolleranza tra le persone, con un bel colpo di bacchetta magica. Come? Puntando su una specie di neolingua, ricca di eufemismi o di espressioni attenuate, e quindi capace di garantire, non ferendo nessuno, la pacifica convivenza tra le diverse minoranze.
La cultura del politicamente corretto ha dunque una matrice americana ed è legata all’infiammato dibattito sui diritti civili e politici delle minoranze (neri, donne, eccetera), così come si è svolto negli Usa, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Dopo di che, soprattutto negli anni Settanta-Ottanta (anche come lascito romantico del Sessantotto), questa cultura ha conquistato l’Europa, per poi aggredire, come sta accadendo, il resto del mondo. Indubbiamente è anche il portato dell’egemonia politica, economica e linguistica americana. L’ ”unipolarismo” (altro eufemismo, ora molto in voga, e decisamente più soft di imperialismo) è anche “unipolarismo” del politicamente corretto.
A prima vista, si potrebbe pensare, che si tratti di una delle tante forme di controllo sociale dei mezzi linguistici. Da sempre le società dominano o frenano il comportamento linguistico dei componenti, non solo attraverso codici e regole grammaticali o stilistiche, ma anche stabilendo i contenuti di tutto quello che si può dire o meno. Basti qui ricordare i tabù linguistici (il divieto di pronunciare parole cariche di pericolosi e reconditi significati, a cominciare dal nome di dio), oppure al linguaggio e alle formule riservate a nuclei esclusivi di iniziati (come nelle forme liturgiche, magiche, cabalistiche), e infine ai meccanismi linguistici di cortesia, molto elastici in Occidente e rigidissimi in Estremo Oriente (dove, come nel Giappone tradizionale, è vietato usare persino la prima persona “io”, perché il suo uso sarebbe percepito come scortese verso l’interlocutore).
Insomma, il linguaggio (o meglio le forze socialmente egemoni che lo controllano) vieta, permette, include, esclude. Tuttavia, nel caso del politicamente corretto, c’è un’ ansia di controllo totale, di derivazione razionalista, che spaventa. Soprattutto se si pensa alla possibilità di esteso controllo mediatico delle coscienze, così favorita dalla tecnologia moderna. Certo, non siamo ancora alla neolingua, immaginata da Orwell. Esiste un fondo linguistico, e comportamentale, soprattutto nel mondo non occidentale che ancora disperatamente resiste. Magari esagerando volutamente...
Così scrive Robert Hughes, con un tono che può anche dar fastidio, a proposito del “politicamente corretto” nella Cultura del piagnisteo. Un libro pubblicato in Italia da Adelphi all’inizio degli anni Novanta del secolo scorso (e ristampato di recente), che all’epoca procurò al brillante critico d’arte di Time non pochi a nemici. Soprattutto in America, e tra gli accaniti difensori del multiculturalismo spicciolo: tutti fermamente convinti di potere azzerare, diciamo così, il tasso di razzismo e intolleranza tra le persone, con un bel colpo di bacchetta magica. Come? Puntando su una specie di neolingua, ricca di eufemismi o di espressioni attenuate, e quindi capace di garantire, non ferendo nessuno, la pacifica convivenza tra le diverse minoranze.
La cultura del politicamente corretto ha dunque una matrice americana ed è legata all’infiammato dibattito sui diritti civili e politici delle minoranze (neri, donne, eccetera), così come si è svolto negli Usa, a partire dalla fine degli anni Cinquanta del Novecento. Dopo di che, soprattutto negli anni Settanta-Ottanta (anche come lascito romantico del Sessantotto), questa cultura ha conquistato l’Europa, per poi aggredire, come sta accadendo, il resto del mondo. Indubbiamente è anche il portato dell’egemonia politica, economica e linguistica americana. L’ ”unipolarismo” (altro eufemismo, ora molto in voga, e decisamente più soft di imperialismo) è anche “unipolarismo” del politicamente corretto.
A prima vista, si potrebbe pensare, che si tratti di una delle tante forme di controllo sociale dei mezzi linguistici. Da sempre le società dominano o frenano il comportamento linguistico dei componenti, non solo attraverso codici e regole grammaticali o stilistiche, ma anche stabilendo i contenuti di tutto quello che si può dire o meno. Basti qui ricordare i tabù linguistici (il divieto di pronunciare parole cariche di pericolosi e reconditi significati, a cominciare dal nome di dio), oppure al linguaggio e alle formule riservate a nuclei esclusivi di iniziati (come nelle forme liturgiche, magiche, cabalistiche), e infine ai meccanismi linguistici di cortesia, molto elastici in Occidente e rigidissimi in Estremo Oriente (dove, come nel Giappone tradizionale, è vietato usare persino la prima persona “io”, perché il suo uso sarebbe percepito come scortese verso l’interlocutore).
Insomma, il linguaggio (o meglio le forze socialmente egemoni che lo controllano) vieta, permette, include, esclude. Tuttavia, nel caso del politicamente corretto, c’è un’ ansia di controllo totale, di derivazione razionalista, che spaventa. Soprattutto se si pensa alla possibilità di esteso controllo mediatico delle coscienze, così favorita dalla tecnologia moderna. Certo, non siamo ancora alla neolingua, immaginata da Orwell. Esiste un fondo linguistico, e comportamentale, soprattutto nel mondo non occidentale che ancora disperatamente resiste. Magari esagerando volutamente...
Ad esempio, il linguaggio truculento di certi gruppi fondamentalisti (di varia estrazione religiosa, islamica, cristiana, ebraica), così punteggiato di arcaismi, gole tagliate, accuse di sodomia, invocazioni al dio degli eserciti e alla guerra santa, sembra studiato apposta per contrastare gli eufemismi dolciastri di un Occidente che propone persino di chiamare i cadaveri “persone non viventi”.
Ora, in parte è così, ma si tratta anche di reazioni difensive o autoconservative a pesanti intrusioni esterne. Perché se il politicamente corretto ha provocato e provoca in America e in Europa, guerre per il momento culturali, fuori dell’Occidente, dove lo si vuole imporre con la forze dell’economia e spesso delle armi, ne scatena e continuerà a fomentarne di vere, con morti e feriti in carne e ossa.
Si dovrebbe perciò parlare di una cultura dell’ipocritamente corretto, dal momento che presenta le bombe americane ( e in questi giorni anche quelle israeliane…) come “bombe intelligenti” e le vittime civili dei bombardamenti aerei Usa (…e israeliani...) come “danni collaterali in zone ricche di bersagli”. In altre circostanze si potrebbe anche riderne, perché si tratta di scempiaggini. Ma purtroppo il re non è del tutto nudo: ha conservato pistola e cappello. E non solo da cowboy.
Ora, in parte è così, ma si tratta anche di reazioni difensive o autoconservative a pesanti intrusioni esterne. Perché se il politicamente corretto ha provocato e provoca in America e in Europa, guerre per il momento culturali, fuori dell’Occidente, dove lo si vuole imporre con la forze dell’economia e spesso delle armi, ne scatena e continuerà a fomentarne di vere, con morti e feriti in carne e ossa.
Si dovrebbe perciò parlare di una cultura dell’ipocritamente corretto, dal momento che presenta le bombe americane ( e in questi giorni anche quelle israeliane…) come “bombe intelligenti” e le vittime civili dei bombardamenti aerei Usa (…e israeliani...) come “danni collaterali in zone ricche di bersagli”. In altre circostanze si potrebbe anche riderne, perché si tratta di scempiaggini. Ma purtroppo il re non è del tutto nudo: ha conservato pistola e cappello. E non solo da cowboy.