L'apertura neoliberista al mercato globale, le diseguaglianze sempre più marcate, l'insofferenza crescente degli esclusi al banchetto del progresso e della modernità, una transizione letta alla luce del trauma dell'89. «Il nuovo ordine cinese» analizzato da Wang Hui per manifestolibri
Un'occhiata agli scaffali delle librerie rende evidente un paradosso in quello che viene pubblicato in Italia riguardo alla Cina: i romanzi e le raccolte di racconti di autori cinesi, più o meno degni del legno distrutto per produrli, abbondano, mentre scarseggia, o non riesce a valicare i confini delle pubblicazioni specialistiche, la produzione saggistica, di analisi e narrazione teorica della straordinaria mutazione in atto in Cina oggi, firmata da autori cinesi. Certo, arrivano in vetta alle classifiche le vulgate e le analisi di giornalisti e accademici italiani, a dimostrazione che l'interesse per un tema epocale di questa portata c'è, ma sembra proprio che quanto pensino i cinesi medesimi riguardo a quel che accade loro poco o nulla interessi gli editori italiani, magari convinti che la Cina sia una tabula rasa, sconvolta dalle turbolenze della propria storia passata e imbavagliata dal presente.
Il primo merito di Il nuovo ordine cinese. Società, politica ed economia in transizione di Wang Hui (manifestolibri, prefazione di Edoarda Masi, pp. 192, 18 euro) è allora quello di cominciare a riempire una voragine, presentando in due lunghi saggi il dispiegarsi del dibattito intellettuale in Cina, dall'inizio effettivo della politica di riforme, primi anni '80, fino ai primi anni del nuovo millennio. Oltre due decenni nei quali viene esplicitamente posta come punto di svolta dirimente la strage di Tien Anmen, scatenata dalla leadership cinese nella notte fra il 3 e il 4 giugno 1989. Il secondo merito è quello di presentare ai lettori italiani una delle menti più anticonformiste e brillanti del panorama intellettuale cinese contemporaneo. Wang Hui, che ha poco più di 40 anni, è innanzitutto un letterato, un eminente studioso di Lu Xun e di altre personalità di fine '800 inizio '900, che insegna all'Università Tsinghua di Pechino ed è condirettore della rivista «Dushu» (Letture) che dopo il suo arrivo ha avuto un boom editoriale arrivando a vendere oltre 100mila copie. E' uno degli esponenti più in vista della «Nuova Sinistra» cinese, e come tale bersagliato da tutto l'establishment neoliberista, cinese e internazionale. Di fatto, l'etichetta non è stata scelta da lui, che preferisce invece definirsi «intellettuale critico».
Il percorso politico-teorico di Wang Hui è strettamente intrecciato alla sua storia personale. All'alba del 4 giugno fuggiva da piazza Tien Anmen, dove il massacro degli studenti era in corso, per rifugiarsi, «pieno di rabbia e di disperazione» come racconta lui stesso, sulle montagne Qinling, nella Cina centrale. Lì, in un mondo completamente diverso da quello cittadino e colto finora conosciuto, rimane per buona parte del 1990, vivendo un'esperienza che lascerà su di lui un segno indelebile e lo spingerà da quel momento a creare un legame fra universi così lontani, «a ricostruire la relazione fra il mondo degli intellettuali e il mondo esterno». E' questa intenzione il cardine di Il nuovo ordine cinese nella quale il letterato Wang si trasforma in penetrante, e complesso, analizzatore delle teorie politiche elaborate negli ultimi due decenni in Cina e riesce a decostruire e svelare il nuovo discorso ideologico e i nuovi miti indotti dalla trasformazione epocale del paese, da quello della «transizione» (che considera necessarie le ineguaglianze attuali in nome di un ideale ultimo da raggiungere) a quello della «modernità» e dello «sviluppo».
La franchezza critica senza precedenti con cui Wang Hui, in un saggio del 1997 riprodotto nel libro, ha scandagliato l'universo intellettuale a lui prossimo ha fatto scalpore nell'intellighenzia, suscitando polemiche e alzate di scudi. Porre come punto di svolta, nell'evoluzione e nel cambiamento della teoria politica, la strage di Tien Anmen, evento epocale che resta un tabù cristallizzato dall'interpretazione ufficiale di «contro rivoluzione», ha ulteriormente inasprito i termini della discussione. Wang rilegge tutta la trasformazione cinese alla luce del trauma dell'89, che in Cina come nel mondo «inaugurò la struttura politica ed economica con cui il neoliberismo arrivò a dominare il mondo». Tien Anmen, afferma Wang, non segnò una discontinuità nel processo di riforma radicale in atto nel suo paese ma rivelò definitivamente il marchio di violenza che gli era insito e che prevalse, nel momento in cui tutte le illusioni e le speranze di diversità alimentate dal precedente decennio di cambiamento furono spazzate via con la violenza. Le proteste non avvennero solo sulla piazza, ricorda Wang Hui, ma in tutta la Cina e protagonisti non furono solo gli studenti, ma un movimento più vasto portatore di richieste di cambiamento che non vertevano solo sulla democrazia formale del suffragio universale, come riferivano le cronache occidentali, ma su un concetto sostanziale di democrazia sociale, tradito dal discorso ideologico dello stato partito. Quel che seguì alla repressione fu «il nuovo ordine» neo liberista garantito dalla violenza dello stato, rilanciato nel '92 da Deng Xiaoping durante il suo viaggio al Sud. Alla luce di quanto avvenne, e avviene, è dunque ipocrita chiedere al Leviatano di ritirarsi per consentire il libero dispiegarsi delle forze di mercato perché, come il 4 giugno '89 ha dimostrato, sono il controllo e la violenza dello stato gli unici garanti di interessi che ormai si sono fatti dominanti. Il discorso è legato agli eventi cinesi ma Wang Hui ne esplicita un'universalità che fa della Cina l'avamposto della globalizzazione neoliberista e della ribellione cinese dell'89 il primo vero precursore del movimento che si manifesterà a Seattle nel '99.
Pur avendo accettato l'etichetta di «nuova sinistra» Wang Hui ci tiene a dire che non è un nostalgico dei tempi che furono, ha sempre sostenuto la politica di riforme e non è affatto contrario al mercato. Nel suo discorso non è tuttavia chiaro come sia possibile tornare a forme di mercato non capitalistiche, tanto più nella Cina di oggi. Una difficoltà aggiuntiva dell'analisi di Wang Hui, come rileva Edoarda Masi, è il contesto ambiguo in cui il suo pensiero si esercita. Se in Occidente siamo abituati a ragionare sui «fronti», politici e sociali, per quanto sfumati la realtà li abbia resi oggi, in Cina ciò non accade «perché il terreno di contesa rimane, sia pur artificialmente, chiuso all'interno del socialismo. Il pensiero totalitario, così, continua oggi come se permanesse la stessa unità e non ci fosse stato un capovolgimento dei contenuti». Su questo sfondo opaco restano così inesplicitati sia gli elementi di rottura che quelli di continuità dell'attuale regime politico rispetto al passato.
Imporre una nuova modalità di cambiamento appare dunque difficilissimo, tanto più se ogni tentativo di ribellione viene etichettato come «radicalismo», termine che, richiamando la Rivoluzione culturale, condanna alla demonizzazione chiunque se lo veda attribuire. Ma cambiare sarà necessario. Tutti gli elementi di corruzione, disparità, ineguaglianza, ingiustizia sociale che portarono alla ribellione di Tien Anmen si ripresentano oggi, aggravati, e l'insofferenza dei cinesi esclusi o vittime sta crescendo. Come rivelano anche le statistiche ufficiali sugli «episodi di massa» (definizione che comprende sit in, manifestazioni e vere e proprie rivolte) che nel 2005 sono stati oltre 80mila, e aumentano costantemente al ritmo di crescita del pil.
Il pragmatismo denghista aveva coniato la formula «attraversare il fiume avanzando su una pietra alla volta». Fu universalmente accettato che c'era un fiume da attraversare e una riva, quella del passato, da lasciare. Ma ancora non si discerne come sarà l'altra sponda, quella dove i cinesi, nella loro foga, stanno conducendo anche il resto del mondo. Neppure Wang Hui sa descrivere la riva del futuro, tuttavia avverte lucidamente che i sassi su cui si è scelto di poggiare il piede non sono inanimati strumenti a disposizione di tutti. Ma se ne rende conto chi è già scivolato ed è stato travolto dai flutti.
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