L’estetica delle firme
di Sergio Garufi - 01/08/2006
Com’è noto, solo una piccola parte dei dipinti del Rinascimento ci è giunta firmata dai loro artisti. A volte questo succede perché furono smembrati delle loro cornici, sulle quali gli ebanisti avevano inciso il nome dell’autore, ma in molti altri casi questo càpita perché firmare non era ancora un’usanza diffusa. Quando siglavano le proprie opere, quasi tutti i pittori si attenevano a regole precise, codificate nel tempo. Tranne il caso eclatante, citato come unicum da tutti i manuali di storia dell’arte, della cappella Baglioni a Spello affrescata dal Pinturicchio, in cui l’artista introduce orgogliosamente nella rappresentazione un piccolo riquadro col proprio ritratto, in genere il modo più semplice e tradizionale di rivendicare la paternità di un’opera consisteva nell’apporre in calce il proprio nome, al più seguìto dalla data di esecuzione. Le formule più comuni erano, per esempio, “questa opera fece X” (hoc opus fecit X), oppure “Y dipinse”(Y pinxit).
Curiosamente, analizzando le rare infrazioni alla norma, si scopre che spesso queste anomalie suggeriscono una personalissima concezione dell’arte, un’estetica poco ortodossa ma per certi versi ancora attuale. Il caso più singolare resta quello di Vittore Carpaccio. Descritto nelle Vite del Vasari come “molto bravo nel dipingere dal vero”, il Carpaccio fu innanzitutto pittore di scuole, ossia di confraternite religiose, le quali sovente gli commissionavano l’esecuzione di grandi teleri aventi per oggetto la narrazione di temi religiosi, eventi e cerimonie sullo sfondo di angoli suggestivi della città lagunare. Per l’apparentemente analitica ricostruzione delle architetture veneziane lo si è presentato come un antesignano dei vedutisti settecenteschi quali Canaletto e il Bellotto, trascurando invece le tante, deliberate trasgressioni di Carpaccio, che lo farebbero semmai accostare simpateticamente ai capricci del Guardi.
Difatti, Carpaccio firmò un certo numero di opere declinando forme del verbo latino fingere (come Victor Carpathius finxit), al posto del più usato pingere. Non c’è dubbio che, con quel cambio di consonante, egli intendesse essere esplicito sulla natura del suo intervento: il compito dell’artista non era tanto quello di imitare la natura, ma in qualche modo di ricrearla. La Venezia che fa da sfondo alle sue processioni è falsa, seppur verosimile, perché è una sua rappresentazione arbitraria, non diversamente dalla famosa pipa di Magritte (ceci n’est pas une pipe). E a ben vedere, in entrambi i casi il compito di svelare il trucco della finzione fu affidato alla scrittura (alla didascalia nel secondo e alla firma nel primo), anziché alla pittura.
Jan Van Eyck fu tra i primi a infrangere la regola della firma codificata, e lo fece in una delle sue opere profane più celebri e polisemiche. Nel ritratto dei Coniugi Arnolfini (1424), oggi esposto alla National Gallery di Londra, sulla parete di fondo, subito sopra lo specchio convesso, campeggia la scritta Johannes Van Eyck fuit hic, cioè “Jan Van Eyck era qui presente”; tant’è che l’immagine dell’artista fiammingo compare nella scena riflessa in piccolo sulla superficie deformante dello specchio. L’idea notarile dell’artista che, più che creatore, si fa testimone del proprio tempo, sembra per alcuni versi precorrere di alcuni secoli la “teoria dello specchiamento” di Lukacs, sebbene senza le implicazioni socio-politiche di quest’ultima.
Alla Pinacoteca di Brera, invece, è esposta una tavola cinquecentesca di grosse dimensioni raffigurante la Madonna in trono con Gesù bambino e due santi ai lati. E’ di scuola veneta ma, per le ragioni sotto esposte, non dirò quali sono le diverse attribuzioni che gli storici dell’arte hanno proposto finora. Basti sapere che non si tratta di nomi molto noti. Ai piedi del trono c’è un piccolo cartiglio bianco privo di scritte, solitamente usato dagli artisti per apporvi la propria firma. All’inizio si pensava che il tempo avesse cancellato la scritta, ma, dopo le analisi di laboratorio eseguite in occasione di un restauro recente, si è giunti alla conclusione che è sempre stato bianco, vale a dire che l’artista non vi scrisse nulla volutamente.
Non è improbabile che siano solo ardite congetture prive di fondamento, ma mi piace pensare che quell’anonimato intenzionale esprima una sorta di panteismo estetico (in perfetta sintonia con la novecentesca utopia tloniana), secondo il quale l’arte è una vasta creazione anonima, e l’autore è soltanto l’incarnazione fortuita di uno Spirito atemporale e impersonale, capace di ispirare il più bello dei quadri al più mediocre dei pittori e viceversa.