Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Per J. G. Herder non c’è alcun peccato originale, semmai una virtù originale

Per J. G. Herder non c’è alcun peccato originale, semmai una virtù originale

di Francesco Lamendola - 05/03/2014


 


 

Nel contesto del dibattito settecentesco sull’origine del linguaggio, un posto particolare spetta alla posizione del filosofo Johann Gottfried Herder (nato a Mohrungen, in Prussia Orientale, nel 1744 e morto a Weimar nel 1803: “allievo” di Kant e “maestro” di Goethe).

Tale posizione ci sembra di particolare interesse perché bene illustra la parabola del pensiero tedesco ed europeo, sullo scorcio fra XVIII e XIX secolo, in senso sempre più spiccatamente naturalista, immanentista, panteista; e perché costituisce un importante anello logico di quella catena che, dal criticismo kantiano e dalla rinuncia alla metafisica, porta al delirio solipsistico del panlogismo hegeliano e, poi, al virulento ateismo e anticristianesimo nietzschiano.

Diamo la parola a Chiara Colombo, nel suo saggio «Johann Gottfried Herder. Alle origini del linguaggio» (in: «Origini del linguaggio», a cura di Celestina Milani, Colognola ai Colli, Verona, Demetra Editrice, 1999, pp. 230-33):

 

«Il quesito messo a concorso dall’Accademia delle Scienze di Berlino nel 1769, che premierà la risposta di Herder, è l’ultimo atto di un già prolungato interesse riguardo alle origini del linguaggio. Nel 1754, P.L.M. de Maupertuis, presidente dell’Accademia berlinese, aveva tenuto una “Dissertazione sui differenti mezzi di cui gli uomini si sono serviti per esprimere le loro idee”, in cui proponeva una conciliazione fra il sensualismo di Condillac e il convenzionalismo di tradizione aristotelica in un contesto storico evolutivo. J. P. Süssmilch, teologo e membro dell’Accademia,, nel 1756 sostiene in risposta l’origine soprannaturale del linguaggio nello scritto “Saggio di una dimostrazione, che il primo linguaggio ha avuto origine non dall’uomo, ma dal creatore.” La sua pubblicazione, nel 1766, riaccende la polemica intorno al problema, cui l’Accademia intende dare una soluzione di carattere immanentistico, in armonia con l’orientamento razionalistico francesizzante privilegiato da Federico II, come chiaramente risulta dalla formulazione del quesito: “Supponendo gli uomini abbandonati alle loro facoltà naturali, sono essi in grado di inventare il linguaggio? E con quali mezzi giungeranno da soli a questa invenzione?”, cui seguiva un requisito metodologico: “Si richiede un’ipotesi che spieghi la cosa con chiarezza e soddisfi tutte le difficoltà”. Il genio di Herder non si manifesta nella proposta di una teoria totalmente nuova e rivoluzionaria, ma nella sua capacità di comporre in una sintesi originale – grazie a una immaginazione “romanzesca” – idee elaborate all’interno di varie filosofie, osservazioni e dati empirici che rientrano in svariate discipline scientifiche, giungendo a formulare una teoria del linguaggio e dell’umanità ancora attuale e accattivante, i cui princìpi fondamentali hanno trovato conforto in svariati campi della ricerca contemporanea: antropologia, paleontologia, anatomia, psicologia, zoosemiotica, linguistica. Nel paragrafo conclusivo del “Saggio”, Herder mette in rilievo come, sconfinando dai dettami del quesito accademico, egli abbia volontariamente accompagnato all’evidenza e coerenza del ragionamento speculativo, volto a dimostrare con criteri di necessità la genesi umana del linguaggio, un forte aggancio con la realtà storico evolutiva, filogenetica del fenomeno linguistico attraverso la comparazione e l’organizzazione di dati concreti già acquisiti da altre scienze di tipo descrittivo. All’interno del variopinto panorama settecentesco delle teorie sul linguaggio, dovendo forzatamente schematizzare e semplificare, si delineano  tre indirizzi principali – suscettibili di svariati sincretismi e contaminazioni – con cui Herder si confronta: la dottrina cristiana ortodossa dell’origine divina del linguaggio, concreato con l’uomo; la teoria dell’origine convenzionale del linguaggio di tradizione aristotelica; la teoria dell’evoluzione del linguaggio umano  da quello animale. L’impostazione tipicamente herderiana  delle origini  del linguaggio risalta, “in nuce”,  da una rilettura in chiave antropocentrica del terzo capitolo della “Genesi” - argomento non direttamente  trattato nel “Saggio”, dove invece Herder  fa riferimento a due altri capisaldi della tradizione biblica: l’imposizione dei nomi alle bestie da parte di Adamo (Gn 2) e la confusione delle lingue (Gn 11).  – ma diffusamente discusso in una lettera all’amico  Hamann dell’aprile 1768.

Herder chiede polemicamente, in esplicita contrapposizione a Rousseau, come sia avvenuto il passaggio dallo stato edenico di natura (ove l’uomo è “creatura di Dio”) allo stato corrotto della cultura (ove l’uomo è “creatura degli uomini” in una condizione di “male del mondo”). Questo passaggio dell’uomo dall’innocenza alla colpa non è (teo)logicamente giustificabile: “se nella sua natura giaceva sigillato il tesoro di facoltà, di inclinazioni etc. che per la sua felicità avrebbe dovuto rimanere chiuso, perché mai Dio gli ha dato questo seme dell’errore? E come è germogliato?” Herder allora si propone di leggere il testo biblico rinunciando a una pre-comprensione “nordica, cristiana, moderna e filosofica” e considerandolo piuttosto nel suo carattere “orientale, ebraico, antico, poetico”. A questa interpretazione storico-filologica, l’albero della conoscenza del bene e del male risulta essere “il rischio che l’uomo prese su di sé di espandersi al di là dei propri limiti”, di raccogliere esperienze, di assaggiare frutti sconosciuti, di imitare altre creature, di potenziare la ragione, con la volontà di essere centro di convergenza di tutti gli istinti, di tutte le facoltà, di tutti i godimenti, di essere come Dio (e non più una bestia) e acquisire conoscenza”. In forza di questa premessa, Herder abbandona il terreno squisitamente teologico e filosofico con tutte le sue implicazioni di carattere etico e si pone sul piano immanente dell’evoluzione storica. Di fatto, subito segue la dimostrazione che lo stesso racconto biblico va letto in chiave evolutiva. I protagonisti di questa vicenda non sono Eva e Adamo, mai nominati nel testo originale, bensì un uomo e la sua donna: “Il terzo capitolo palesemente non è il proseguimento dei primi due […]: è un secondo documento, che il compilatore ha aggiunto al primo. La chiave di lettura antropologica viene quindi applicata alla narrazione delle conseguenze della trasgressione, anticipando gli assunti fondamentali sulla differenza tra specie umana e animale su cui sarà costruita la teoria sulle origini del linguaggio: la consapevolezza della nudità, la paura del tuono,  la ricerca di un tetto sono manifestazioni del risveglio della ragione, che fa prendere coscienza all’uomo della sua debolezza fisica, della sua inferiorità all’interno del regno della natura e della necessità di costruirsi un regno della cultura per dominare il mondo con l’ausilio della ragione esercitata attraverso l’uso del linguaggio. Herder ha dunque reinterpretato il peccato originale come virtù originale, creandosi un presupposto ontlogico e insieme antropologico che dimostrare con criteri filogenetici come il linguaggio verbale rappresenti lo strumento comunicativo specie-specifico dell’uomo, ovvero la materializzazione della ragione – facoltà interiore spirituale – che lo differenzia da ogni altra specie animale e consente la progressiva consapevole evoluzione del genere umano, mentre il mondo animale è costretto entro un ciclo vitale eternamente ripetitivo e incapace di progresso intenzionale.»

 

Per Herder, dunque, il linguaggio non è di origine divina, né animale: è il segno della natura specifica dell’essere umano. Quest’ultimo si può definire, infatti, come una “creatura linguistica”, nei due significati di creatore del linguaggio e di creatura del linguaggio. Il linguaggio, per lui, non deriva da strutture logiche preesistenti, ma è esso a determinare tali strutture, grammatica compresa, ciascuna specifica di ciascuna lingua e di ciascun popolo. La stessa ragione è, in qualche modo, un prodotto dell’evoluzione storica del linguaggio, non qualcosa di contrapposto al sentimento, alla fantasia o alla creatività.

Si tratta, come si vede, di una quasi deificazione del linguaggio: dire che l’uomo è anche creatura del linguaggio, infatti, significa ipostatizzare il linguaggio medesimo, un po’ come Hegel ipostatizzerà il pensiero, capovolgendo il normale rapporto fra soggetto e oggetto della riflessione filosofica, fra essere ed ente. D’altra parte, l’accento messo sulla natura originale e specifica di ciascun linguaggio umano contribuì alla popolarità del pensiero di Herder, specie nel particolare clima pre-romantico tedesco di fine Settecento, caratterizzato, sul piano politico-culturale, dalla reazione contro l’illuminismo francese e contro lo statalismo prussiano, ad esso ideologicamente funzionale.

Al di là di quel che si può pensare della teoria herderiana sull’origine del linguaggio, ci sembra che sia interessante una riflessione a parte sulla posizione del filosofo tedesco circa il peccato originale, dato che egli si muove su un terreno in cui linguistica e teologia sono pressoché inseparabili (e si ricordi che anche Dante, nel «De vulgari eloquentia», afferma che la prima parola pronunciata da Adamo fu “El”, come invocazione al Creatore).

Si noti, innanzitutto, come la formulazione del quesito proposto dall’Accademia delle Scienze di Berlino dia per assunto proprio ciò che sarebbe da stabilire: “Supponendo gli uomini abbandonati alle loro facoltà naturali, sono essi in grado di inventare il linguaggio?”; cosa che esprime perfettamente, da un lato il servilismo del mondo della cultura nei confronti degli indirizzi voluti da Federico II e dalla sua filosofia dei “lumi”, dall’altro quell’atmosfera chiusa, falsa, viziata, tipica delle sette massoniche allora imperversanti, e nelle quali sia Hamann, sia Herder, sia lo stesso Federico II si muovevano perfettamente a loro agio, animati da sacro zelo e da entusiastico slancio per la rigenerazione dell’umanità; atmosfera nella quale venivano bensì curate le apparenze di un ampio e libero dibattito, svincolato da condizionamenti ideologici, ma in cui, viceversa, vigeva una rigorosa esclusione di ogni elemento politicamente scorretto.

In tale atmosfera, non è tanto significativo il fatto che Herder abbia vinto il concorso senza attenersi all’impostazione del quesito e senza sostenere l’indirizzo razionalistico caro al re di Prussia, quanto la sua complessiva impostazione antropocentrica, il suo velato spinozismo e naturalismo, la sua tendenza a fare dell’uomo il livello più alto raggiunto dall’evoluzione storico-naturale e, dunque, a fare della Natura e della Storia le nuove divinità del Pantheon tardo-illuminista e pre-romantico, con l’uomo quale aspirante al ruolo di futura divinità. Perché, in una concezione evoluzionista ed esplicitamente immanentista come quella di Herder, Dio, se c’è, è un Dio che viene e che diviene, e l’unico candidato a tale ruolo non può essere che l’uomo stesso.

«Se Dio non esiste nel mondo - dice  Herder – allora non esiste da nessuna parte»; e ancora, se il concetto non fosse sufficientemente chiaro: «Non conosco alcun Dio extramondano». Il deismo degli illuministi, nel pensiero del Nostro, diventa così un vero e proprio panteismo; laddove, al centro di tale panteismo, siede l’uomo, creatura prometeica e in costante divenire. Qui ci sono sia la conferma delle “magnifiche sorti e progressive”, garantite dalla filosofia dei lumi, sia le premesse per il definitivo accantonamento del concetto di Dio creatore e per l’auto-glorificazione dell’uomo e della “sua” vita, così come verranno sviluppate, un secolo dopo, da Nietzsche.

La critica di Herder all’antropologia di Rousseau si inserisce in questa prospettiva e non va intesa come una critica radicale, quanto piuttosto come una critica dei suoi passaggi logici: non sono sbagliate le premesse, ma le conclusioni. Non è affatto sbagliata l’idea della bontà e perfezione originarie dell’uomo, ma l’idea che vi sia stata “colpa” nel suo voler portare al massimo le proprie potenzialità. La rilettura del racconto biblico della Genesi è il nocciolo di tale persuasione: se l’uomo possedeva, come un tesoro potenziale, il desiderio della conoscenza e dell’espansione del proprio essere, perché mai quel tesoro avrebbe dovuto rimanere nascosto? E se gli è stato dato da Dio, perché mai avrebbe dovuto essere una cosa cattiva?

Qui si vede tutta la superficialità, tutta la povertà del ragionamento di Herder (a dispetto del fatto che qualcuno lo trovi addirittura “geniale”). Mescolando piani di riflessione diversi, naturali e teologici, Herder si chiede enfaticamente perché il seme del desiderio di espandersi al di là dei propri limiti, presente nell’uomo, avrebbe dovuto essere una cosa cattiva e meritevole di punizione: e non si avvede, almeno apparentemente, che altro è possedere una facoltà, altro è utilizzarla a proprio arbitrio; una cosa è considerarsi creatura e agire come tale, un’altra cosa è considerarsi più che creatura, sostituirsi a Dio, autoproclamarsi padrone del mondo. Si riflette qui, anticipato, l’atteggiamento mentale di tanti intellettuali dei nostri giorni e soprattutto di tanti scienziati: se l’uomo può fare determinate cose, anche oltre i normali confini dell’etica, perché mai non dovrebbe farle? Se può farsi signore della vita e della morte, del bene e del male, perché dovrebbe astenersene, perché dovrebbe auto-limitarsi?

È proprio la mancanza, o meglio, il rifiuto sistematico del senso del limite ciò che caratterizza impostazioni culturali come quella di Herder. Potenziare la ragione, potenziare gli istinti, potenziare il godimento: questo vuole Herder, questo esige e pretende; vuole che l’uomo si faccia come Dio e non sia più “una bestia”: è il programma del Superuomo nietzschiano: una celebrazione assoluta e radicale dell’esistente, della vita, del qui ed ora.

Ed è anche implicita la critica successiva all’idea di Dio: che ci sta a fare un Dio così, un Dio che limita, un Dio geloso dell’uomo? Che ci sta a fare, se non a intralciare i piani dell’uomo, a instillare nella sua mente e nel suo cuore malsani e ingiustificati sensi di colpa? Non basterà dire che un tale Dio è morto, come farà Nietzsche; bisognerà andare oltre, e dire, con Freud, che Dio non è mai esistito, che “Dio” è la vuota parola che gli uomini si sono inventati per esprimere, appunto, il loro senso di colpa, ma anche la loro segreta invidia e ammirazione verso la figura paterna, così prestigiosa e temuta, ma anche così sordidamente gelosa della crescente autonomia dell’uomo, della naturale tendenza del figlio a diventare adulto.

Ma torniamo a Herder. Per poter interpretare l’Albero della Conoscenza del Bene e del Male come simbolo del rischio calcolato, da parte dell’uomo, di prendersi tutta intera la responsabilità di sé stesso e del mondo, di essere cioè signore del mondo, il Nostro non esita a rivoluzionare e rovesciare, come un guanto, secoli di lettura del testo biblico e ad affermare che dobbiamo spogliarci, per comprenderlo, della mentalità cristiana ed europea, fondamentalmente razionalista, e ritornare alla sua originaria dimensione semitica, mosaica, poetica. E tutto questo per spiegare le origini del linguaggio! Per spiegare le origini del linguaggio, Heder non esita a farsi biblista e teologo, e precisamente teologo naturalista e panteista: non c’è alcun Dio fuori del mondo, perché, se ci fosse, sarebbe il Diavolo: chi, se non il Diavolo, potrebbe dare all’uomo un dono così velenoso, come quello di una intelligenza che non può usare, di una sensualità che non può estrinsecare, di una volontà che deve rimanere imbrigliata nei lacci di un divieto incomprensibile?

E non è finita. Per Herder, come abbiamo visto, «la consapevolezza della nudità, la paura del tuono,  la ricerca di un tetto sono manifestazioni del risveglio della ragione, che fa prendere coscienza all’uomo della sua debolezza fisica, ecc.». Ma chi lo dice? Chi lo dice che la paura del tuono, per esempio, è una manifestazione del risveglio della ragione? Non si potrebbe dire, con più buon senso, che è una manifestazione dell’istinto, visibile peraltro in tutti gli animali? Che cosa vi è di specificamente umano in essa? Il fatto è che, per Heder, il linguaggio è artefice della ragione; ma esso, a sua volta, da che cosa deriva? Se deriva da potenzialità organiche e naturali insite nell’uomo, se ne dovrebbe dedurre che l’uomo non è mai stato simile alle bestie (fra le quali, per Heder, egli rischia di retrocedere, qualora non mangi dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male): e allora, dove va a finire il suo organicismo? I casi sono due: o l’uomo è una creatura naturale, e allora anche il suo linguaggio lo è; oppure è di origine soprannaturale (il che non significa che non possano esserlo anche tutte le altre creature), e allora anche il linguaggio, sia pure indirettamente, possiede una origine divina, così come la ragione che si articola in esso.

Il fatto è che Heder, pur non dicendolo, si propone di deificare l’uomo e soprattutto la sua pretesa di un dominio assoluto sulle cose: è una ideologia “imperialista” quella che si propone di sostenere e di diffondere, e precisamente l’antropocentrismo. L’uomo come creatura superiore a tutte le altre, libero di disporre del mondo a proprio arbitrio. Ma, per evitare la spiacevole conseguenza di riconoscere Qualcuno al di sopra di sé, e dunque una Legge alla quale egli dovrebbe attenersi, l’uomo “deve” essere una creatura naturale: viene dalla Natura (non da un Dio soprannaturale), è parte di un processo di evoluzione della Natura. Sopra di lui non c’è niente e nessuno (perché non può esistere un Dio che non sia del mondo), sotto di lui giace l’universo intero. È l’ebbrezza narcisista del potere assoluto, il delirio del nano che si sente promosso alle dimensioni di un gigante incontrastabile, onnipotente.  Che Dio ci scampi da una tale prospettiva: abbiamo visto dove porta. Non è un sogno, ma un incubo dal quale l’uomo, se vuole salvarsi, deve risvegliarsi al più presto…