Appena abbiamo avuto tra le mani l’ antologia röpkeana, curata da Carlo Lottieri, docente di filosofia del diritto a Siena (Il Vangelo non è socialista. Scritti su etica cristiana e libertà economica 1959-1965, Rubbettino Leonardo Facco, 2006, pp. 168, euro 15,00), il pensiero è volato agli anni Settanta. Quando i librai ti fissavano con aria di sufficienza , se osavi chiedere un classico del liberalismo. Non solo da Feltrinelli e Rinascita, ma in quasi tutte le librerie del centro storico romano. Anche quelle che non erano di sinistra. Ed erano la maggioranza.
Chi scrive ricorda di aver comprato, nel 1973, La società libera di Friedrich A. Hayek, alla libreria Remainder di Piazza San Silvestro, con lo sconto del 75 per cento (l’opera edita da Vallecchi nell’anno di grazia 1969, sontuosamente rilegata, aveva attirato pochissimi lettori nell’Italia mezzo pseudomaoista e mezzo democristiana di allora…): il liberalismo non era più di moda.
Anche i libri di Wilhelm Röpke erano introvabili: non si ristampavano da almeno venticinque anni. Quando nel 1974 uscirono i suoi Scritti liberali nella collana “Liberalismo nel mondo” (diretta da Ercole Camurani), per i tipi della Sansoni, all’epoca in brutte acque, chi scrive, perse un intero pomeriggio per recarsi al Tiburtino Terzo dal distributore romano, solo per acquistarne una copia…
Questo per dire, che negli anni Settanta, la cultura liberale italiana sopravviveva nelle catacombe. L’iniziativa di Camurani, patrocinata dall’Istituto per la storia del movimento liberale, si trascinò di editore in editore (Sansoni, Forni, Li Causi…), e riuscì a pubblicare, per quanto ne sappiamo, un quindicina volumi sui circa venti programmati. Il che, in quelle condizioni, fu quasi eroico.
E’ quindi spiegabile il senso di rivalsa che anima oggi la letteratura liberale italiana, soprattutto dopo la vittoria “mondiale” riportata sul collettivismo comunista nel 1989-1991. Qui però si apre un altro problema. I liberali italiani, come gli antichi cristiani, una volta usciti dalle catacombe, hanno cominciato a chiudere i templi pagani. Fuor di metafora: a scomunicare chiunque si mostrasse perplesso nei riguardi di un ritorno al laissez faire depoliticizzato di stampo ottocentesco. Da questa angolazione l’antologia di Röpke, curata da Lottieri, che attinge dalla raccolta sansoniana, suggerisce due riflessioni generali.
La prima è che il libro conferma che sarebbe meglio parlare di liberalismi e non di liberalismo. Solo nel Novecento, e per limitarsi alle correnti principali, abbiamo i liberali conservatori come Ortega, Croce, Einaudi, Aron, Oakeshott; i liberali progressisti, o liberal come Leonard T. Hobhouse, Carlo Rosselli, Bobbio, Rawls; i Libertarians, nei quali si riconosce anche Carlo Lottieri. Che in particolare apprezza la lezione dell’americano Murray N. Rothbard e del liberalismo della scuola austriaca di economia (Menger, Mises, Hayek, eccetera ). Non per niente i libertarians che includono individualisti radicali, anarcocapitalisti, giusnaturalisti, come nel caso di Rothbard e utilitaristi, sono oggi la corrente intellettualmente più vivace ( si veda la ricca panoramica di Lottieri Il pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri 2001).
Tuttavia, non c’è rosa senza spina… I liberali conservatori condividono la causa del saggio realismo politico. I liberali progressisti quella del costruttivismo iperpolitico. I libertarians, invece, celebrano la fine dello Stato e il trionfo del mercato capitalistico, brindando alla depoliticizzazione totale. Per i conservatori senza decisione politica non c’è mercato. Per i liberal, la decisione politica deve sostituirsi al mercato. Per i libertarians la decisione economica deve sostituire quella politica. E qui veniamo alla seconda riflessione.
Non persuade del tutto il tentativo di Lottieri di presentare Röpke, come un libertarian depoliticizzato e “austriacante” a tutto tondo. Anche perché i testi antologizzati provano esattamente il contrario. La “Dritter Weg” (“Terza Via”), teorizzata da Röpke rinvia a un saggio liberalismo conservatore: un pensiero che apprezza la decisione ma non il decisionismo costruttivista liberal, e che celebra l’individuo ma non l’ individualismo libertarian. Facciamo subito alcuni esempi.
Ecco quel che scrive Röpke, a proposito dell’economia di mercato: “Per quanto sia essenziale, l’economia di mercato da sola non può bastare; occorre risolvere alcuni problemi che si pongono al di fuori del problema dell’ordine economico (…). L’economia di mercato deve trovare il suo posto, quale istituzione di inestimabile valore nella cornice più ampia di un ordine politico, sociale morale. Questo ordine economico deve integrarsi negli altri ordini, più ampi e più alti da cui dipende il successo dell’economia di mercato (…)” (p. 83).
Non meno interessanti sono le osservazioni di Röpke sul problema della concentrazione industriale: “L’opinione che la concentrazione sia immancabile non è altro che un mito (…). In fondo siamo tutti d’accordo che i limiti posti in questo campo alla nostra volontà ci lasciano ancora possibilità che meritano di essere esaminate con ogni cura (…).[La politica] intenzionalmente, o ancora più spesso senza avvedersene, sposta i pesi a favore delle imprese grandi e massime. E’ una lotta ad armi disuguali (…). Un programma liberale di decentramento consisterebbe dunque in primo luogo nel rendere le armi pari (…), è [perciò] giustificata la domanda su come potrebbe cambiare la situazione nel senso da noi desiderato, se, al contrario, i pesi venissero spostati a favore delle imprese medie e di giusta misura. Perché in fin dei conti, è più importante l’optimum umano e sociale di quello tecnico-economico dell’azienda” (pp. 84-85).
I due brani - ma si potrebbe citarne anche altri - rinviano all’ ordoliberalismus (liberalismo ordinato) della scuola di Friburgo, che Röpke condivise con altri economisti come Walter Eucken e Alexander Rüstow. Un forma di liberalismo “organizzato” che costituì la solida base teorica su cui la Germania costruì la sua “economia sociale di mercato”, che tanto contribuì al rilancio produttivo del paese nel secondo dopoguerra, grazie anche al saggio decisionismo politico di Ludwig Erhard. Mentre il liberalismo depoliticizzato di Mises, Hayek e dei libertarians privilegia lo scambio economico, trasformando il mercato nella madre di tutte le istituzioni, il liberalismo ordinato invece fa dipendere il mercato, pur sovrano nel suo ordine, da altre e più alte istituzioni (culturali, religiose, morali), e in primis dalla decisione politica. Per quale ragione? Perché, per Röpke, il mercato è una macchina semiautomatica che ha bisogno di essere azionata e sorvegliata, magari da lontano… Altrimenti si rischia di degradare i valori più nobili in valori puramente materiali e produttivi.
Pertanto, andrebbe riletta senza forzature libertarian la cosiddetta “trilogia di guerra” di Ropke: La crisi sociale del nostro tempo (1942, Einaudi Roma 1946); L’Ordine internazionale (1945, Rizzoli 1946), Civitas umana ( 1944, Rizzoli 1947). Per capire, finalmente, come le critiche di Röpke al gigantismo capitalista e collettivista procedano di pari passo. Ma anche per comprendere come l’instaurazione dell’ordine economico liberale, sia sempre esito di una decisione politica e non della mano invisibile.
A riguardo, è degno di nota, l’apprezzamento di Röpke verso Kemal Atatürk, quale modernizzatore della Turchia e veicolo di un fisiologico “elemento gerarchico-autoritario”, o decisionale, insito in tutti i sistemi politici, anche liberali ( La crisi sociale del nostro tempo, p. 102). Come è pure significativo il seguente giudizio: “ Non è Stato forte - scrive Röpke - quello che s’ingerisce di ogni cosa, e tutto attrae a sé. Al contrario [è] (…) il far valere inflessibilmente la propria autorità e dignità quale rappresentante dell’universale contraddistinguono lo Stato veramente forte (…). Questo è lo Stato che l’economia del mercato e il nostro programma economico presuppongono: uno Stato che sa tracciare esattamente il limite tra l’ agendum e il non agendum” ( p. 241).
“Uno Stato che sa tracciare (…)”. Ciò significa, che in ultima istanza, per Röpke, è la politica che decide e non l’economia.
Ecco il liberalismo che ci piace.
Chi scrive ricorda di aver comprato, nel 1973, La società libera di Friedrich A. Hayek, alla libreria Remainder di Piazza San Silvestro, con lo sconto del 75 per cento (l’opera edita da Vallecchi nell’anno di grazia 1969, sontuosamente rilegata, aveva attirato pochissimi lettori nell’Italia mezzo pseudomaoista e mezzo democristiana di allora…): il liberalismo non era più di moda.
Anche i libri di Wilhelm Röpke erano introvabili: non si ristampavano da almeno venticinque anni. Quando nel 1974 uscirono i suoi Scritti liberali nella collana “Liberalismo nel mondo” (diretta da Ercole Camurani), per i tipi della Sansoni, all’epoca in brutte acque, chi scrive, perse un intero pomeriggio per recarsi al Tiburtino Terzo dal distributore romano, solo per acquistarne una copia…
Questo per dire, che negli anni Settanta, la cultura liberale italiana sopravviveva nelle catacombe. L’iniziativa di Camurani, patrocinata dall’Istituto per la storia del movimento liberale, si trascinò di editore in editore (Sansoni, Forni, Li Causi…), e riuscì a pubblicare, per quanto ne sappiamo, un quindicina volumi sui circa venti programmati. Il che, in quelle condizioni, fu quasi eroico.
E’ quindi spiegabile il senso di rivalsa che anima oggi la letteratura liberale italiana, soprattutto dopo la vittoria “mondiale” riportata sul collettivismo comunista nel 1989-1991. Qui però si apre un altro problema. I liberali italiani, come gli antichi cristiani, una volta usciti dalle catacombe, hanno cominciato a chiudere i templi pagani. Fuor di metafora: a scomunicare chiunque si mostrasse perplesso nei riguardi di un ritorno al laissez faire depoliticizzato di stampo ottocentesco. Da questa angolazione l’antologia di Röpke, curata da Lottieri, che attinge dalla raccolta sansoniana, suggerisce due riflessioni generali.
La prima è che il libro conferma che sarebbe meglio parlare di liberalismi e non di liberalismo. Solo nel Novecento, e per limitarsi alle correnti principali, abbiamo i liberali conservatori come Ortega, Croce, Einaudi, Aron, Oakeshott; i liberali progressisti, o liberal come Leonard T. Hobhouse, Carlo Rosselli, Bobbio, Rawls; i Libertarians, nei quali si riconosce anche Carlo Lottieri. Che in particolare apprezza la lezione dell’americano Murray N. Rothbard e del liberalismo della scuola austriaca di economia (Menger, Mises, Hayek, eccetera ). Non per niente i libertarians che includono individualisti radicali, anarcocapitalisti, giusnaturalisti, come nel caso di Rothbard e utilitaristi, sono oggi la corrente intellettualmente più vivace ( si veda la ricca panoramica di Lottieri Il pensiero libertario contemporaneo, Liberilibri 2001).
Tuttavia, non c’è rosa senza spina… I liberali conservatori condividono la causa del saggio realismo politico. I liberali progressisti quella del costruttivismo iperpolitico. I libertarians, invece, celebrano la fine dello Stato e il trionfo del mercato capitalistico, brindando alla depoliticizzazione totale. Per i conservatori senza decisione politica non c’è mercato. Per i liberal, la decisione politica deve sostituirsi al mercato. Per i libertarians la decisione economica deve sostituire quella politica. E qui veniamo alla seconda riflessione.
Non persuade del tutto il tentativo di Lottieri di presentare Röpke, come un libertarian depoliticizzato e “austriacante” a tutto tondo. Anche perché i testi antologizzati provano esattamente il contrario. La “Dritter Weg” (“Terza Via”), teorizzata da Röpke rinvia a un saggio liberalismo conservatore: un pensiero che apprezza la decisione ma non il decisionismo costruttivista liberal, e che celebra l’individuo ma non l’ individualismo libertarian. Facciamo subito alcuni esempi.
Ecco quel che scrive Röpke, a proposito dell’economia di mercato: “Per quanto sia essenziale, l’economia di mercato da sola non può bastare; occorre risolvere alcuni problemi che si pongono al di fuori del problema dell’ordine economico (…). L’economia di mercato deve trovare il suo posto, quale istituzione di inestimabile valore nella cornice più ampia di un ordine politico, sociale morale. Questo ordine economico deve integrarsi negli altri ordini, più ampi e più alti da cui dipende il successo dell’economia di mercato (…)” (p. 83).
Non meno interessanti sono le osservazioni di Röpke sul problema della concentrazione industriale: “L’opinione che la concentrazione sia immancabile non è altro che un mito (…). In fondo siamo tutti d’accordo che i limiti posti in questo campo alla nostra volontà ci lasciano ancora possibilità che meritano di essere esaminate con ogni cura (…).[La politica] intenzionalmente, o ancora più spesso senza avvedersene, sposta i pesi a favore delle imprese grandi e massime. E’ una lotta ad armi disuguali (…). Un programma liberale di decentramento consisterebbe dunque in primo luogo nel rendere le armi pari (…), è [perciò] giustificata la domanda su come potrebbe cambiare la situazione nel senso da noi desiderato, se, al contrario, i pesi venissero spostati a favore delle imprese medie e di giusta misura. Perché in fin dei conti, è più importante l’optimum umano e sociale di quello tecnico-economico dell’azienda” (pp. 84-85).
I due brani - ma si potrebbe citarne anche altri - rinviano all’ ordoliberalismus (liberalismo ordinato) della scuola di Friburgo, che Röpke condivise con altri economisti come Walter Eucken e Alexander Rüstow. Un forma di liberalismo “organizzato” che costituì la solida base teorica su cui la Germania costruì la sua “economia sociale di mercato”, che tanto contribuì al rilancio produttivo del paese nel secondo dopoguerra, grazie anche al saggio decisionismo politico di Ludwig Erhard. Mentre il liberalismo depoliticizzato di Mises, Hayek e dei libertarians privilegia lo scambio economico, trasformando il mercato nella madre di tutte le istituzioni, il liberalismo ordinato invece fa dipendere il mercato, pur sovrano nel suo ordine, da altre e più alte istituzioni (culturali, religiose, morali), e in primis dalla decisione politica. Per quale ragione? Perché, per Röpke, il mercato è una macchina semiautomatica che ha bisogno di essere azionata e sorvegliata, magari da lontano… Altrimenti si rischia di degradare i valori più nobili in valori puramente materiali e produttivi.
Pertanto, andrebbe riletta senza forzature libertarian la cosiddetta “trilogia di guerra” di Ropke: La crisi sociale del nostro tempo (1942, Einaudi Roma 1946); L’Ordine internazionale (1945, Rizzoli 1946), Civitas umana ( 1944, Rizzoli 1947). Per capire, finalmente, come le critiche di Röpke al gigantismo capitalista e collettivista procedano di pari passo. Ma anche per comprendere come l’instaurazione dell’ordine economico liberale, sia sempre esito di una decisione politica e non della mano invisibile.
A riguardo, è degno di nota, l’apprezzamento di Röpke verso Kemal Atatürk, quale modernizzatore della Turchia e veicolo di un fisiologico “elemento gerarchico-autoritario”, o decisionale, insito in tutti i sistemi politici, anche liberali ( La crisi sociale del nostro tempo, p. 102). Come è pure significativo il seguente giudizio: “ Non è Stato forte - scrive Röpke - quello che s’ingerisce di ogni cosa, e tutto attrae a sé. Al contrario [è] (…) il far valere inflessibilmente la propria autorità e dignità quale rappresentante dell’universale contraddistinguono lo Stato veramente forte (…). Questo è lo Stato che l’economia del mercato e il nostro programma economico presuppongono: uno Stato che sa tracciare esattamente il limite tra l’ agendum e il non agendum” ( p. 241).
“Uno Stato che sa tracciare (…)”. Ciò significa, che in ultima istanza, per Röpke, è la politica che decide e non l’economia.
Ecco il liberalismo che ci piace.