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L'Aikido e il conflitto

di Federico Gobbo - 02/08/2006

 

1. Introduzione

Scrivere di un argomento come l'aikido è uno stimolo e una sfida, e ancor più scrivere del rapporto tra aikido e conflitto. L'aikido, sorto in Giappone all'inizio del secolo scorso, ha alcune caratteristiche che la rendono un'arte marziale unica nel suo genere. Tra i molti aspetti interessanti da un punto di vista filosofico, in questo articolo si intende evidenziare quello del conflitto, un aspetto dell'aikido originale nell'ambito delle arti marziali giapponesi, interessante anche per chi non l'abbia mai praticato dal vivo. È vero che l'esplorazione di questa disciplina non può che passare per la sua pratica. Tutti i Maestri di quest'arte, infatti, hanno sempre sottolineato che la vera consapevolezza di quest'arte non può arrivare da libri o discorsi ma solo attraverso la pratica sul tatami. È altrettanto vero, tuttavia, che i Maestri stessi non hanno disdegnato la scrittura di articoli e libri per spiegare e proporre quest'arte a un pubblico internazionale, rendendola comprensibile alla mentalità occidentale senza snaturarne l'essenza. Ciò è avvenuto soprattutto dopo la seconda guerra mondiale, quando l'aikido si è offerto al mondo, cominciando a diffondersi fuori dal Giappone. Come tutte le arti legate alla tradizione giapponese, infatti, l'aikido è molto di più di un semplice allenamento fisico, per quanto rigoroso e assiduo, e certamente non è uno sport. Ne è la prova il fatto che può essere praticato da chiunque, indipendentemente da età, sesso o attitudini atletiche particolari. Questo fu sempre sottolineato dal fondatore Morihei Ueshiba, noto come Grande Maestro, O Sensei.

Analogamente a quanto accaduto in altri contesti, gli scritti del fondatore sono eterogenei – poesie, conferenze, lettere – e di non facile lettura, proprio perché semplici e complessi insieme, e dunque per presentare la disciplina si è ritenuto opportuno attingere prevalentemente da scritti degli allievi diretti di Morihei Ueshiba, a partire da Kisshomaru Ueshiba, figlio del fondatore e suo successore alla guida della Fondazione Aikikai alla morte del padre, avvenuta nel 1969. Comunque, si è cercato di tenere conto anche delle scuole iniziate da allievi diretti ma esterne all'Aikikai, per dare una visione più completa e generale possibile. Infine, è doveroso menzionare il fatto che l'autore ha iniziato a praticato l'aikido nel 1999 presso la scuola di Itsuo Tsuda, e ha avuto la fortuna di incontrare di persona due allievi diretti di O Sensei ancora in vita e in (splendida!) attività. Il primo è il Maestro Yoji Fujimoto, che da molti anni dirige a Milano un dojo (in giapponese “luogo dove si pratica la via”, letteralmente via-luogo, do-jo) nell'ambito della federazione internazionale dell'aikido, l'Aikikai. Il secondo invece è il Maestro Koretoshi Maruyama, il quale nel 2002 ha fondato una propria scuola chiamata Aikido Yushinkai, e nel 2005 ha tenuto un seminario nei pressi di Bologna, rilasciando anche un'intervista (Ferrari-Gobbo 2005). Attualmente la sua scuola è diffusa soprattutto in Australia (Williams 2004). Entrambi erano molto giovani quando hanno incontrato Morihei Ueshiba. In particolare Koretoshi Maruyama era studente universitario a Tokio quando incontrò l'aikido per caso, sfogliando un libro di Kisshomaru Ueshiba. Ciò che colpì il giovane Maruyama, allora praticante di altre arti marziali, fu una frase scritta da Kisshomaru Ueshiba: “l'aikido è non-competizione” (Ferrari-Gobbo 2005). Com'è possibile un'arte marziale e non competitiva insieme? Significa allora che non c'è conflitto? Non si tratta di una contraddizione insolubile? In questo articolo si cercherà di dare una risposta a queste domande.

 

2. L'aikido come filosofia pratica

Per quanto l'aikido oggi sia praticato con notevoli differenze tra le scuole, il nocciolo dell'arte è uno, ed è una vera e propria concezione filosofica.. Le varietà degli stili di esecuzione di un brano musicale possono essere molto diverse da un musicista ad un altro, ma lo spartito rimane lo stesso. Analogamente accade con l'aikido. Con l'aikido si entra in una relazione nuova prima con se stessi che con gli altri. Per molti occidentali rappresenta la prima volta in cui ci si rende conto che il centro dell'uomo non sta nella testa ma nel tanden, o hara, il basso ventre. La concentrazione assume un significato nuovo e più autentico, come testimonia l'etimo della parola: 'concentrazione' significa 'essere con il proprio centro', essere consapevoli di sé, attenti all'ambiente circostante in maniera sottile e diffusa. La pratica dell'aikido, il più possibile quotidiana, è una scoperta continua di questa consapevolezza, dell'interagire incessante della mente con il corpo e del corpo con la mente. Mente e corpo sono due aspetti dello stesso sé, e il sé entra in relazione con gli altri come uno.

Al di là delle differenze tra le scuole, difatti, una seduta di aikido comincia sempre con una pratica solitaria, comprendente di solito un momento di meditazione, in cui viene curato l'aspetto della concentrazione. Solo dopo questo importante momento solitario inizia la pratica a coppie, quella che rimane più impressa a chi vede l'aikido per la prima volta, quella per intenderci in cui vengono compiute tra l'altro prese, proiezioni, immobilizzazioni e cadute.

Ben si addice a questa disciplina la definizione di filosofia pratica. 'Filosofia' perché c'è un cammino di ricerca continuo, su se stessi e sul rapporto con gli altri, e 'pratica' perché questo cammino non può partire attraverso lo studio e la riflessione consapevole, come in Occidente, ma al contrario attraverso l'acquisizione pratica di forme e tecniche di movimento. Ciò  significa che quando si comincia a dimenticarle allora si è imboccata la giusta direzione. Morihei Ueshiba, difatti, non diede mai i nomi alle tecniche: furono i suoi allievi a farlo, per chiare esigenze didattiche (Tsuda 1997:130).

 

3. Il cammino di ricerca di Morihei Ueshiba

La storia della genesi dell'aikido può essere letta come il cammino di ricerca di Morihei Ueshiba per superare una concezione bellica e competitiva delle arti marziali, dette budô. Nato nel 1883 a Tanabe, attuale distretto Wakayama, in Giappone, Morihei Ueshiba dimostrò  uno straordinario interesse per lo studio delle cose spirituali fin da giovane. Vedendo il padre più volte picchiato da politici della fazione avversa, decise di diventare forte nonostante la corporatura minuta e approfondì in particolare l'arte della scherma (Stevens 2003). A vent'anni diventò un soldato di leva e servì la patria nell'occupazione della Manciuria. Si narra che fosse formidabile in battaglia e che schivasse tutte le pallottole nemiche perché vedeva delle palline bianche di luce che le precedevano. Questa intuizione dell'intenzione (in giapponese: kimochi) permette di cogliere gli impulsi del movimento al loro nascere, ed è una forma immediata, non cerebrale, di comprensione e consapevolezza. Il kimochi è centrale nella genesi e sviluppo dell'aikido (Tsuda 1996:27).

Nel 1910 Morihei Ueshiba viene liberato dal servizio militare e diventa un colono della selvaggia isola del nord Hokkaido. Per il suo rigore, equità e forza, divenne un capo popolare della colonia. Ma ciò non gli importava veramente, perché dava fondo a tutti i suoi averi nell'approfondimento del budô. Nel 1919 venne a sapere che suo padre era molto malato, donò i suoi averi nell'Hokkaido al suo insegnante di budô, e partì. Durante il difficile viaggio di ritorno si recò ad Ajabe per incontrare Onisaburo Deguchi, co-fondatore della religione Oomoto (in giapponese: 'origine, centro'), la cui fama di guaritore si stava diffondendo per tutto il paese, nella speranza di salvare il padre. Questo non fu possibile e da quel momento Morihei Ueshiba decise di dedicare la propria vita alla ricerca del vero budô e decise di seguire con tutta la famiglia l'insegnamento di Onisaburo Deguchi. In quel periodo fu iniziato alle conoscenze esoteriche della vibrazione (in giapponese: kotodama) che permea l'universo e  ne permette la vita e capì che quella consapevolezza gli avrebbe permesso di giungere alla fonte delle arti marziali (Brozovsky 1989). Messo alla prova da un'avventura in Mongolia al seguito di Deguchi, Ueshiba divenne consapevole che la strada da percorrere passava attraverso la disciplina del ki. Che cos'è il ki? Con le parole di Maruyama (1997: 25): “il ki è l'infinito insieme di particelle infinitamente piccole; questo movimento infinitamente piccolo è la calma e la vera comprensione del punto nel basso addome.” Corrisponde al concetto cinese di qi, presente in parole come tai qi o qi gong, antiche arti cinesi. Per trovare dei termini corrispondenti occidentali bisogna rivolgersi alla classicità: il concetto greco di pneuma o quello latino di spiritus, “che designa al contempo il vento e l'anima e, più precisamente, almeno in certi casi, l'anima e il potere delle cose inanimate e vegetali” (Tsuda 1994). La traduzione corrente in 'energia' suona particolarmente riduttiva: il ki è il soffio vitale, non un elemento gestibile mediante macchinari costruiti dall'uomo.

Nel 1926 Morihei Ueshiba si trasferì con la famiglia a Tokio e cominciò ad insegnare con regolarità. La sua fama di guerriero invincibile cominciò a diffondersi per tutto il Giappone. Tuttavia egli non fece nulla di particolare per alimentarla; anzi, selezionava accuratamente gli allievi non in base alle loro capacità fisiche o atletiche, ma secondo la bontà del loro carattere (Stevens 2000). Nel 1928, su consiglio di Onisaburo Deguchi, diede il nome definitivo alla sua arte, aikido, che significa 'via' (do) della 'fusione' (ai, antico termine giapponese simile al greco syn, ciò che unisce) del ki. Aikido è dunque alla lettera la 'via della fusione del ki’, o 'via dell'armonizzazione del ki’, il che è lo stesso a patto di intendere per 'armonia' il suo significato più autentico: come l'armonia nel tempo porta alla musica, così l'armonia nello spazio porta all'aikido. L'aikido si presenta dunque fin dal 1928 come un'arte erede del budô tradizionale, analogamente e in parallelo alla religione Oomoto, che riprende lo shintoismo tradizionale (Deguchi 1997). Per capire questa riscoperta della spiritualità tradizionale va ricordato che dalla fine del secolo xviii a tutta la prima metà del xix il Giappone vive un turbolento momento di modernizzazione. Lo sforzo di armonizzare, fondere e unire tradizione e modernità è alla base di queste discipline, siano esse filosofico-religiose come Oomoto o filosofico-pratiche come l'aikido.

Dal 1935 praticare l'Oomoto in Giappone diventò difficile. Pochi anni dopo la seconda guerra mondiale giunse in Asia e vennero chiusi tutti i centri di istruzione delle arti marziali. Ueshiba si trasferì allora nel distretto Ibaraki, a nordest di Tokio, dove continuò la pratica solitaria e si dedicò all'agricoltura. Alla fine della guerra decise che il messaggio di pace e fratellanza dell'aikido aveva valore universale e iniziò a fare conferenze e dimostrazioni dentro e fuori dal Giappone, fino alla sua morte, avvenuta nel 1969. Spinse inoltre i suoi migliori allievi a fondare scuole di aikido ovunque nel mondo, a partire dagli Stati Uniti e dalla Francia, imponendogli di acquistare biglietti di sola andata per le aree del mondo in cui avrebbero dovuto diffondere l'aikido.

Nel 1980 si svolse a Parigi il Terzo Congresso della Federazione Internazionale di Aikido. In quello storico momento i delegati sancirono il ruolo dell'aikido come veicolo di diffusione della cultura tradizionale giapponese all'estero (Ueshiba 2000:131).

A differenza di arti marziali coeve come il karate o il judo, la diffusione dell'aikido al di fuori del Giappone non ha mai comportato un allontanamento dal contesto che l'ha generato tale da permettere competizioni sportive. Questo rende l'aikido unico tra i budô giapponesi, e certamente ciò è dovuto alla profonda matrice spirituale shintoista di Morihei Ueshiba. Nell'aikido non c'è competizione, non ci sono vincitori né vinti. Con le parole di Kisshomaru Ueshiba: “la gente è molto attratta dagli sport combattivi – ognuno vuol essere un vincitore – ma non c'è nulla di più nocivo per il budo... l'aikido rimane fedele all'originale concezione del budo: l'allenamento e lo sviluppo dello spirito” (2000:11). La pratica dell'aikido non è tesa al prevalere sull'altro, ma è tesa ad approfondire – mediante la pratica quotidiana – una consapevolezza autentica di sé, dell'altro e infine di tutti gli esseri viventi e non viventi.

 

4. Riscoprire il conflitto. Le due spirali.

Il regno della scoperta è un regno magico che permette di muoversi al di là della competizione, al di là del successo e apre un insieme di possibilità nuove. Sono i bambini i maestri della scoperta. In loro l'apprendimento non è guidato dal giudizio: non c'è bene, male, giusto o sbagliato. Attraverso la scoperta ci si muove appropriatamente e in modo naturale nell'universo (Crum 1987).

L'idea di perfezione è una convinzione limitante. La propria autostima si basa sul fare le cose in un certo modo, ritenuto giusto, e questo causa il limite principale all'azione: la paura. Di conseguenza, si diminuisce il proprio soffio vitale, il ki, non si prendono più rischi e si blocca l'azione. A volte si riesce a non contrarre il ki, ma allora non si può che direzionarlo verso il giudizio, dove chi è nel giusto vince e chi è nel torto ha perso. Ecco l'inizio del combattimento competitivo, e la fine dell'aikido.

Nell'aikido, lo abbiamo visto, non ci sono vincitori né vinti. Non c'è perfezione, ma scoperta continua, basata sulla ricerca, la creatività, e la partecipazione piena, di tutto l'essere. Il fallimento è un'opportunità per la consapevolezza, al controllo si preferisce la spontaneità, come nel mondo di scoperta del bambino. Nell'aikido è più importante la fluidità del movimento che l'esattezza nell'esecuzione della tecnica (incidentalmente, senza aver imparato prima e dimenticato poi la tecnica non si è per nulla fluidi). E forse non è un caso che nella lingua giapponese 'gioco' e 'arte' siano una parola sola.

Thomas Crum, aikidoka, ha portato l'aikido fuori dal tatami e lo insegna come metodo di autoaiuto, chiamato “approccio Aiki” (Crum et al. 2000). Nei suoi libri e seminari spiega come la frustrazione derivata dal desiderio di successo – che è solo un altro nome per la vittoria – causi una spirale senza fine e una progressiva contrazione del ki che alla fine diventa depressione. Al contrario, se si riscopre il conflitto nei termini di una sana aggressività naturale che permette l'evoluzione e la vita, il conflitto stesso diventa un invito al cambiamento e un allargarsi della consapevolezza. Si dà così il via a una spirale in espansione, di crescita. Qualunque azione comporta un'esperienza ed è quindi occasione di apprendimento. Il conflitto è un elemento profondamente naturale e viene vissuto in maniera naturale, giocosa, da tutti gli esseri viventi e dai bambini. È l'idea di perfezione che inverte la spirale della crescita, che è naturale, nella spirale della contrazione, che è artefatta.

 

5. Le posizioni del conflitto

 

Continuando la metafora della spirale, possiamo individuare le posizioni possibili che ogni individuo può prendere nei confronti del conflitto e ricondurle alle arti marziali e all'aikido in particolare. Si noti che queste posizioni sono mutualmente esclusive e che possono occorrere in ciascun individuo in momenti diversi: si tratta di tipi ideali. Si parte dalle posizioni dove la vitalità è debole e per arrivare a quelle dove il soffio vitale diventa generativo.

Posizione nichilista. Si ha quando la spirale della contrazione è diventata cronica e sfocia nella depressione. Il suo tema dominante è la rovina. Tutto e tutti, l'essere e l'altro, sono destinati a perdere, c'è il non-Io e il non-Tu. La sua versione debole è la posizione decadente. Si ha quando la spirale non è cronica, e si può parlare di frustrazione. Il suo tema dominante è l'apatia, il non curarsi, la mancanza. C'è il non-Io, ma il Tu viene semplicemente ignorato, non negato.

Posizione della competizione. È la posizione più diffusa. Il suo tema dominante è la scarsità, e dunque il possesso. Il mondo contemporaneo, basato per l'appunto sull'economia della scarsità, si fonda su questa posizione. O si vince, O si perde. O Tu, o Io. È un aut-aut. A differenza delle posizioni precedenti, la consapevolezza dell'altro come soggetto attivo è presente, ma l'altro viene visto come avversario. La sua versione debole, più insidiosa perché apparentemente accrescitiva, è la posizione del successo. Si ha quando per uscire dalla frustrazione si crea un'ossessione della vittoria. Se prima il tema dominante era il possesso, ora lo è la produttività e quindi l'accumulazione. L'importante diventa arrivare prima dell'altro. Prima Io, poi Tu. La maggior parte delle arti marziali divenute sport sono riconducibili a questa posizione.

Posizione del gioco. Finalmente si riesce a invertire la freccia della spirale dalla contrazione alla crescita. Il suo tema dominante è l'abbondanza e dunque il dono. Le società basate sull'economia dell'abbondanza ne sono un esempio. Ne rimangono delle vestigia, nelle società contemporanee, nel contesto dei regali: chi riceve un regalo si sente in dovere di farne un altro al donatore e questo genera una spirale di crescita. Non è importante chi ha fatto il regalo più grande (prima Io, poi Tu) ma semplicemente il fatto di essersi scambiati i regali (Io e Te). Il conflitto in natura, come il mondo della scoperta nei bambini, è un processo continuo di cambiamento e di crescita e, in ultima analisi, un gioco. La versione rara, per così dire, di questa posizione è la posizione dell'arte: quando durante il gioco si accende la consapevolezza della novità originale il gioco si fa arte e l'abbondanza si fa dono gratuito universale, agape, l'amore universale che ha cercato e insegnato lungo tutta la sua vita Morihei Ueshiba O Sensei, il fondatore dell'aikido.

 

 

 

 

 

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

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