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Eredi dell’antico, contro il moderno, verso il futuro

di Lorenzo Pennacchi - 02/04/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


"Con il suo progressivo ed incessante sviluppo, la modernità, dominata dai poteri forti e dominatrice di individui, ha continuato a distanziare in modo netto la sfera privata da quella pubblica, scindendo, quasi definitivamente, l’io individuale dalla sua stessa natura sociale. Oggi, la società moderna, dopo aver trasformato, da mezzi in fini, la tecnologia e l’economia, ha quasi raggiunto il suo apice. È l’epoca del caos globale, nel quale capitalismo e liberalismo si incontrano alla perfezione, per abbattere gli ultimi residui di armonia."

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Nel mondo della tecnica e del cosiddetto progresso, sono sempre più le persone, a non riuscire ad arrivare a fine mese. La credenza comune è quella di poter ricondurre tutti i problemi e le soluzioni alla sfera economica, prescindendo da quella sociale, culturale e spirituale. Con il passare del tempo, però, appare sempre più evidente, come la crisi attuale non possa essere letta solamente da un punto di vista economico. O meglio, sembra essere chiaro, che il problema centrale risieda nel soggiogamento totale della politica all’economia. L’egemonia del mercato globale e la nascita di un’unione europea prettamente finanziaria, sono le massime espressioni di un processo di “modernizzazione”, iniziato da secoli, che prevede la decadenza dei valori classici e la morte dell’antico. In quest’ottica, non sorprende vedere la Grecia e l’Italia, autentiche culle del pensiero occidentale, ridotte alla fame dalle politiche di burocrati, banchieri ed investitori. Tuttavia, traumatizza constatare come delle idee quali la Giustizia e la Bellezza siano state surclassate dall’opportunismo e dal fashion, concetti quali il “buon governo” e la “vita buona” sacrificati agli interessi privati e figure eroiche sostituite da affaristi e politicanti.

Di questa metamorfosi, totale ed irreversibile, dall’antico al moderno, ne era ben consapevole, agli inizi del XIX secolo, Benjamin Constant. Nel suo celebre discorso del 1819, “Sulla libertà degli antichi paragonata a quella dei moderni”, il pensatore liberale, individua le enormi differenze che contraddistinguono le società del passato da quelle attuali, tra cui la trasformazione delle comunità autarchiche, in città sempre più vaste in relazione tra loro e l’affermazione del commercio, a discapito della natura bellicosa. Questi fenomeni hanno determinato un mutamento nella parola “libertà”: se per un antico essere libero significava partecipare attivamente alla politica, per un moderno è totalmente l’opposto. All’uomo moderno non interessa, infatti, essere parte di un Tutto organico, ma di ottenere sfere di autonomia sempre maggiori, rispetto a qualsiasi autorità centrale. Mentre l’antico trovava la sua realizzazione nella vita pubblica, ai tempi di Constant ed ancor di più oggi, gli uomini ricercano i loro fini unicamente nel loro spazio privato, dimenticandosi, il più delle volte, di essere animali sociali. Ecco allora la nascita della società dell’io, del consumo e della materia, l’avvento della modernità più fredda, dove l’uomo diviene atomo e la società si disgrega. In questo scenario, si colloca perfettamente la previsione di Alexis De Tocqueville: “vedo una folla innumerevole di uomini simili ed uguali che non fanno che ruotare su se stessi, per procurarsi piccoli e volgari piaceri con cui saziano il loro animo”.

Constant aveva messo in guardia i suoi contemporanei, sottolineando come la libertà politica dovesse essere sempre salvaguardata, per permettere un’ampia libertà individuale. La prima rappresenta, infatti, la garanzia per la seconda. Ma l’uomo moderno, erede delle rivoluzioni di fine ‘700 (industriale e francese), ha ignorato questo monito. Con il suo progressivo ed incessante sviluppo, la modernità, dominata dai poteri forti e dominatrice di individui, ha continuato a distanziare in modo netto la sfera privata da quella pubblica, scindendo, quasi definitivamente, l’io individuale dalla sua stessa natura sociale. Oggi, la società moderna, dopo aver trasformato, da mezzi in fini, la tecnologia e l’economia, ha quasi raggiunto il suo apice. È l’epoca del caos globale, nel quale capitalismo e liberalismo si incontrano alla perfezione, per abbattere gli ultimi residui di armonia.

È evidente come, a grandi linee, si possa contrapporre il mondo antico, fondato su idee finalizzate al mantenimento di un equilibrio sia naturale che sociale, a quello moderno, materiale ed in continuo mutamento. Sarebbe un errore, tuttavia, paragonare negli stessi termini passato e futuro. Infatti, l’antico non è un qualcosa di totalmente estraneo al presente, ma, in quanto ereditato, vive in noi. Allo stesso tempo, la modernità è stato solamente un modo di concepire il futuro, i due termini non sono sinonimi. Costruire “ciò che sarà”, non significa per forza rinnegare “ciò che siamo stati”, come è accaduto nel mondo moderno. Per pensare al futuro, oggi, occorre stabilire una relazione con l’antichità. Un esempio, in questo senso, è la corrente di pensiero per la decrescita felice. In opposizione all’idea di progresso materiale ed infinito prevalente in Occidente, questo movimento (politico, economico e sociale) propone un cambiamento di paradigma, incentrato sulla riduzione controllata, selettiva e volontaria della produzione economica e dei consumi. Attraverso pratiche quali la permacultura, i gruppi d’acquisto locali ed il consumo critico, l’economia ridiventerebbe così, non un fine, ma solamente un mezzo per ricostituire un nuovo modello sociale, dove tra gli uomini non prevarrebbe più la competizione liberale, ma la cooperazione comunitaria, adatta a ristabilire il carattere armonioso della Natura nel suo insieme. La modernità sta portando la Terra all’autodistruzione, ma, se l’uomo cambierà tendenza, c’è ancora una possibilità di futuro. Citando Kenneth Boulding: “chi crede che una crescita esponenziale possa continuare all’infinito in un mondo finito è un folle, oppure un economista.”