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L'Europa è morta, viva l'Europa

di Franco Cardini - 02/04/2014


“…ma se da noi il sogno d’un’Europa / non ha ancora trovato il suo poeta / un ragazzo di Praga ha acceso una luce / che non si spegnerà: / Jan Palach – Jan Palach! / Torneranno i giorni d’ottobre, / saran rosse le strade d’Europa, / marceremo coi morti di Buda/ avran fiori le tombe di Pest…” (Leo Valeriano, forse)

“…tu, ragazzo dell’Europa, / tu col cuore fuoristrada… / tu, ragazzo dell’Europa, / tu non pianti mai bandiera…” (Gianna Nannini, senza dubbio)

Finis Europae. In Francia, un centrodestra largamente venato se non costituito di euroscettici e di antieuropesti mette alle corde lo stolido partito socialista del non meno stolido presidente Hollande il cui “chiaro” e “fermo” europeismo – quello alla Bernard-Henri Lévi, per intenderci - è stato, per l’Europa tutta, peggio della grandine; e ben tredici comuni cadono nelle mani del partito di Marine Le Pen, della quale molti cominciano a dire al di là delle Alpi occidentali quel che molti al di qua dicono da qualche settimana di Matteo Renzi: “Comunque vada, peggio di quelli di prima non potrà fare…”. E non è certo un caso se, con accenti e argomenti molto diversi, la Le Pen “da destra”(!) e Renzi “da sinistra”(?) convergono nel dire alcune cose che s’inseguono e s’intrecciano tra loro: basta con i diktat assurdi e incomprensibili, riprendiamoci il diritto di decidere dinanzi alle nostre responsabilità e alle nostre necessità.

Finis Europae. Ma di quale Europa stiamo mai parlando? Di quella “di Carlomagno”, che esisteva soltanto nei sogni di De Gasperi, di Schuman e di Adenauer? Di quella degli imperatori sassoni del X secolo, che piaceva a Novalis ma che secondo lui costituiva un tutt’uno con la Cristianità ormai morta (Christenheit oder Europa) e ardua a restaurarsi per quanto il cristianesimo, che ne costituiva una delle premesse e delle radici, non sia forse ancora morto e magari non morirà, o comunque siamo in molti ad augurarci che no muoia? Dell’Europa nata dal sogno di Napoleone e seminata nei solchi lasciati dalle ruote di ferro dei suoi cannoni? Dell’Europa nata invece dal Congresso di Vienna e che secondo il principe di Metternich moriva con lui, per cui egli si sentiva in buona compagnia? O di quella nata invece sulle rovine ancora fumanti e non ancora completamente atterrate della Cristianità, quella nata con i patti di Westfalia alla fine della guerra fratricida riduttivamente detta “dei Trent’Anni”, dal 1618 al 1648, mentre durava invece almeno da un secolo prima, dalle “Novantacinque Tesi” secondo l’uso universitario affisse il 31 ottobre del 1517 al portale della cattedrale di Wittenberg da un corpulento agostiniano trentaquattrenne figlio di un minatore sassone? Certo non già dell’Europa prospettata nel ’46 dal “discorso di Zurigo” del sinistro mister Churchill e con incertezza disegnata quindi attraverso l’OECE del ’48, il Consiglio d’Europa del ’49, i trattati di Parigi del 1954, quelli di Roma del ’57, il Parlamento europeo del ’58 e così via, in un caleidoscopio di istituzioni, di palazzi, di sigle, di uffici, di funzioni, di stipendi… Ma quell’Europa lì non era mai nata, aveva avuto molte sedi e troppe poltrone ma non un’anima…

Finis Europae. Ebbene, sì. O almeno forse. La invocavano settimane fa nella piazza Majdan di Kiev (che cosa succedesse nelle altre piazze della capitale ucraina non lo abbiamo mai né saputo, né capito; quanto in altre piazze di altre capitali, invocavano esattamente il contrario): ma le elezioni francesi l’hanno quasi definitivamente sancita anche se magari sopravviverà a se stessa – non è poi detto che gli zombies siano una leggenda: non, almeno, in politica -, mentre con le amministrative turche, nonostante la crisi di Twitter e di YouTube e i manifesti degli scrittori, la gente della repubblica laica, nazionalista e progressista fondata una novantina di anni fa da Mustafà Kemal Ataturk ci ha avvertito di essere stufa di bussare umilmente alle susssiegose porte di Bruxelles e di Strasburgo e che, se noi esitiamo a volerla con noi, ora è lei che non vuol più venirci.

Finis Europae. Ma non sarà anche la fine dell’Occidente e della Modernità? Ma sono davvero sinonimi, l’Europa, l’Occidente e la modernità? O sono solo conviventi e complementari? O non sono più nemmeno quello?

Verrebbe da parafrasare il Pier Paolo Pasolini de Le ceneri di Gramsci, che diceva: “E’ questa l’Italia – e non è questa l’Italia”. Proprio così per l’Europa, che con l’ingresso della Croazia nel 2013 è diventata una “Unione di ventotto stati”, solo che nessuno sa che cosa in realtà sia, che cosa rappresenti, in che cosa consista. Non è né una federazione, né una confederazione. Ha organi di governo e di controllo direzionale, come la Commissione Europea e il Consiglio d’Europa, che non governano, non controllano, non dirigono. Ha un parlamento dotato di pareri più o meno consultivi salvo su alcune, ristretta materie. Ha una Banca Centrale, che però è privata, e che emette una moneta forte e universalmente apprezzata ma che costa molto ai popoli che dovrebbero comunitariamente esserne i titolari. Ha una bella bandiera onnipresente e ignorata da tutti e un bellissimo inno con musica di Beethoven ma privo di un testo che i popoli possano cantare tutti insieme ciascuno nella sua lingua e nel quale possano riconoscer il loro comune intento. Non ha una Costituzione perché non ha saputo darsela, pare scivolando sul disaccordo relativo alla componente cristiana nelle sue “radici”. Non ha partiti sovranazionali che possano vivere concretamente e capillarmente la politica europea, al contrario dei repubblicani e dei democratici d’Oltreoceano che vivono sia pur problematicamente quella statunitense (partito socialista europeo e partito popolare europeo fanno ridere, sono larve).

Questo è quel che l’Europa possiede e sa di possedere. Superfluo, anzi perfino inutile e sotto alcuni aspetti dannoso. Costoso, macchinoso, lontano dalla gente, zeppo di privilegi ma povero di autentico potere. Poi ci sarebbe quello che ha senza saper di possedere: il nostro patrimonio storico e culturale comune, che non essendo curato né approfondito vegeta nell’incerta penombra delle cose dimenticate. E passiamo a quel che viceversa non ha. Non ha un’autentica unità né istituzionale, né politica, né giuridica e giudiziaria. Come tradizionalmente ben sanno tutti quelli che hanno qualche nozione di storia istituzionale, per costituire un reale soggetto pubblico occorrono quattro “oggetti” simbolici: la bandiera, vale a dire l’identità istituzionale; la toga, vale a dire le istituzioni giuridiche e giudiziarie sicure e indipendenti; la spada, vale a dire una forza armata di difesa; la moneta, vale a dire gli strumenti economico-finanziari garanti della sua sovranità. Siamo provvisti di bandiera solo formalmente, abbiamo una toga lisa e spiegazzata, la nostra spada è impugnata dallo straniero che gestisce gli alti comandi NATO; la moneta invece l’abbiamo fatta subito, e si è imposta molto presto, ma risulta gestita dalle lobbies private - in parte i soliti ignoti, in parte i soliti noti – che tengono ben strette nelle loro manacce magari ben curate le redini della Banca Centrale Europea la quale dovrebb’essere strumento pubblico pena la schiavitù economica.

Lasciatemi sottolineare in modo particolare la gravità costituita dal fatto che l’Europa non disponga di una forza armata comunitaria, mentre quasi tutti gli stati suoi membri aderiscono a un’organizzazione nata in funzione della difesa nordatlantica, la NATO, gli alti comandi della quale sono strettamente legati all’esercito e quindi al governo di una superpotenza amica finché si vuole, ma extraeuropea. I suoi organi rappresentativi e dirigenziali ci costano moltissimo e hanno poteri notevoli nell’area economico-finanziaria, però non hanno voce in termini né politici né diplomatici. E’ stato detto che l’Europa è un gigante economico e un nanerottolo politico. A livello diplomatico e militare, non arriva nemmeno a essere un criceto. Ma se l’Europa non ha né una linea politica unitaria indipendente, né una rappresentanza diplomatica coerente ed efficiente, né una difesa militare autonoma, allora significa una cosa sola. Tanto chiara quanto amara. Che non ha sovranità. E allora, le porzioni di sovranità che noi abbiamo ceduto – non solo quella monetaria -, domandiamoci, chi ce le ha prese? Chi se n’è appropriato? Chi le detiene? Alcune lobbies di finanzieri e di tecnocrati dei quali i politici – “delegati” dalle segreterie dei vari partiti dei singoli stati della UE - sono “comitati d’affari”, assistenti e/o dipendenti dei chief executive officiers incaricati di legittimare attraverso i meccanismi parlamentar-burocratici le scelte dell’oligarchia europea, dei loro colleghi statunitensi e in qualche misura dello stesso governo di Washington dotato forse a sua volta di un potere sempre più residuale, dal momento che – un po’ com’è accaduto nell’Europa di un migliaio di anni fa – la polverizzazione dei pubblici poteri sta conducendo a una progressiva e forse irreversibile “allodizzazione” di essi?

Molti paesi, in un passato recente e recentissimo, hanno fatto fuoco e fiamme per venir ammessi nell’UE, l’Unione Europea: ricorderete l’Ungheria, la Romania, la Polonia. Oggi, le istanze antieuropeistiche in esse sono fortissime; e il vento dell’Antieuropa soffia un po’ dappertutto, dall’Irlanda alla Spagna alla Grecia per non parlar dell’Italia.

Le elezioni in Francia e in Turchia sono state, al riguardo, un test importante. Sia da parigi, sia da Ankara (e da Istanbul), sono arrivati dei “No” forti e chiari, per quanto non ancor assoluti e intransigenti, all’Europa che ospita sul suo territorio i missili a testata nucleare americani ma legifera sulla quantità di surrogato alla nocciola legittimamente tollerabile nel cioccolato e della lunghezza della coda dei merluzzi.

Hanno detto quasi di no, da due parti quasi alle opposte estremità del continente: dal nordovest e dal sudest. Da una parte uno dei paesi che per primo, con la Germania, il Belgio, l’Olanda, il Lussemburgo e l’Italia, aderì fino dal 1949 al Consiglio d’Europa e quindi agli altri organi comunitari nella prospettiva di un’integrazione che avrebbe dovuto essere politica, militare ed economica. Era il sogno di Schuman, di De Gasperi, di Adenauer; a modo suo e con molte remore e parecchi distinguo lo era anche di De Gaulle. E ora la Francia minaccia di essere la prima “nazione fondatrice” a volger le spalle all’Unione. Dall’altra un paese che fino dagli Anni venti del secolo scorso aveva fatto una coraggiosa scelta rivoluzionaria in senso europeo ed occidentale, e che per anni ha pregato di essere accolto da un’Unione Europea che gli opponeva mille ostacoli e gli moveva mille critiche: finché esso ha dato l’impressione di esser lui ora a voltarci le spalle e a torna a guardare a un modello islamico antieuropeo da un lato, a una rinascita neo-ottomana o panturca dall’altro.

Che cos’è successo? Che cosa non ha funzionato? Molte cose e molto complesse. Ma sono credo in grado di rispondere con un solo esempio desunto dal caso personale che meglio conosco: il mio.

Mezzo secolo fa, giovanissimo professore di liceo con aspirazioni universitarie ed europeista convinto, guardavo all’Europa del Parlamento Europeo e del Mercato Comune e mi andavo ripetendo che tutto quel castello di sigle e d’istituzioni in fondo poteva anche andare, ma che c’erano tre handicap: il sospetto che la nuova Europa, se davvero fosse decollata, sarebbe stata troppo condizionata dalla Guerra Fredda ancor imperante che la voleva parte unilaterale dell’Occidente, del “Mondo libero”; la paura ch’essa rischiasse di crescere con un corpo fatto tutto di soldi, d’interessi, di tecnologia, ma senz’anima né storica, né morale, né culturale. L’Europa era (quasi) fatta: ma bisognava fare gli europei. E per questo bisognava cominciare dalla nostra cultura, dal nostro spirito comune pur nelle molte e tutte sacrosante diversità, dalla scuola. Ci sono il Consiglio, la Commissione, il Parlamento, mi chiedevo: ma che cosa si aspetta a fondare la Cittadinanza, cioè la coscienza civile, il senso identitario? L’Europa stava diventando una Unione, anche se non si capiva se federale o confederale; ma quando, e come, sarebbe diventata un’autentica “Patria comune”, un Grossvetarland per popoli diversi per lingua e per tradizione eppure geoculturalmente connessi tra loro, i singoli Vaterländer dei quali si erano magari odiati per secoli ed erano stati tra fine Settecento e metà Novecento profondamente inquinati dalla peste nazionalista, mentre era necessario per ciascuno degli abitanti dei quali e per tutti nel loro complesso recuperare il rispettivo senso della Heimat, della piccola patria regionale, o subregionale, o cittadina, o addirittura microlocale.

Ma per quest’immensa opera di ridefinizione storica e culturale, ci sarebbero volute anzitutto la cultura e la scuola: cominciando magari dal “grado zero”, un manuale di storia europea – anzi, di antropologia storica - comune che tutti i ragazzi di tutti i paesi associati avrebbero dovuto studiare ciascuno nella sua lingua e magari riproporre nei loro singoli dialetti, senza nulla prendere della sacrosanta e benedetta diversità che ci distingue, perché noi europei (pur con le nostre basi unitarie: le radici cristiane e la koiné grecolatina di fondo) altro non potremo mai costituire se non qualcosa che risulti e pluribus unum. I trattati di Parigi per la creazione dell’Unione Europea Occidentale (che prima o poi dovrà includere anche quella Centrale e Orientale) sono stati firmati nel 1954: abbiamo perduto dieci anni, mi dicevo nel 1964. Che cos’aspettiamo?

2014. Di anni ne abbiamo perduti cinquanta. Mezzo secolo. Siamo ancora al grado zero, con l’aggravante che siamo invecchiati e abbiamo perduto credito. Ormai, in Europa (e nella NATO) vogliono entrarci solo gli ucraini occidentali. Che fra qualche anno a loro volta si ricrederanno, come i greci e gli ungheresi.

Eppure, l’Europa perdinci esiste. L’Europa delle cattedrali, delle università, della circolazione delle opere d’arte e degli ingegni, di una patria comune che a differenza degli Stati Uniti d’America (che hanno potuto definire se stessi “nazione americana”) non ha avuto bisogno di una guerra civile combattuta all’indomani del suo patto d’unione perché di guerre civili ne avevamo già fatte abbastanza, e tutte regolarmente concluse con cattivi o pessimi trattati di pace, da Westfalia a Utrecht a Versailles per tacer di quelli ispirati nel ’45 dall’infausto incontro di Yalta che, almeno nelle intenzioni di Roosevelt e di Stalin,m avrebbe dovuto segnare l’impossibilità eterna, per i secoli a venire, di giungere a un’unità politica europea.

Di altre guerre civili non abbiamo bisogno: abbiamo già dato. Di unità forzose, garantite dall’egemonia di una superpotenza interna, non possiamo più sentir parlare dopo i fallimenti napoleonico e hilteriano. Di unità burocratica e fittizia garantita dalle basi NATO e dal controllo statunitense, ne abbiamo abbastanza. O ci rassegniamo a restare ricchi, deboli e divisi – mentre già stiamo impoverendoci: tra poco saremo deboli, divisi e anche poveri – o riprendiamo da capo, con al pazienza di penelope e dei certosini, il lavoro di Sisifo della costruzione della nostra unità. Che sia, stavolta, unità di persone e di popoli, dal basso e dal profondo; non più unità di stati e di governi a loro volta inquinati dalla loro sudditanza allo straniero e schiavi dell’assenza di scopi morali e culturali e dal dogma del primato dell’individualismo e dell’economia. Su “Repubblica” di sabato 29 marzo Zygmunt Bauman notava che la vecchia autorità degli stati-nazione è ormai completamente evaporata, che la separazione tra politica e potere è definitiva e irreversibile (alludendo evidentemente a un “potere pubblico”, e senza capire che proprio esso è da ricostruire, e che ciò è per definizione il còmpito supremo di qualunque società civile) e concludeva affidandosi al parere del manifesto Per l’Europa! di Daniel Cohn-Bendit e di Guy Verhofstadt che indica nell’”identità europea” la forza adatta a superare gli stati-nazione (ma con quali strumenti? Lo chiedo perché al concetto di “identità europea” lavoro umilmente da anni), mentre Alain Finkielkraut insiste sulle “identità nazionali”. Insomma, siamo fermi con un apio di secoli in ritardo alla “complementarità” dei due rami del parlamento statunitense, con un Senatyo che rappresneta paritariamente gli Stati e un Congresso che rappresenta proporzionalmente tutti gli abitanti dell’Unione. E mica sarebbe poco. Ma, con serena ignoranza delle forze storiche in campo e dei modelli da adottare e/o da adattare, Cohn-Bendit e Verhofstadt citano Habermas e Arendt, il secondo Kundera: indugiamo insomma ancora nella galleria degli Spiriti Magni, ma non si ricorda nemmeno che le identità sono per loro natura tutte imperfette e soggette alla dinamica della storia. Alla fine rispunta Edmund Husserl, che già un’ottantina di anni fa avvertiva: “Il pericolo più grave che minaccia l’Europa è la stanchezza”. Appunto.

Anzi, invece no. Più sopra ho citato parafrasandolo un poeta. Mi verrebbe voglia di concludere parafrasandone un altro, il più grande del Novecento, l’Ezra Pound dei Canti Pisani. “Credo nell’Italia – e nella sua impossibile rinascita”, diceva lui. Anch’io, europeista invecchiato e deluso, continuo con rabbia disperata a credere nell’Europa e nella sua impossibile autentica nascita. Del suo divenire infine, civicamente, quel che culturalmente e storicamente è già da secoli.