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Amare la vita vuol dire non solo goderla, ma assumerne la piena responsabilità

di Francesco Lamendola - 08/04/2014


 

 


 

Quel che oggi sta venendo a mancare, nei confronti dei bambini e dei giovani, da parte degli adulti, non è solo un progetto educativo, ma anche e soprattutto un sano amore per la vita, un esempio quotidiano di come la si sappia apprezzare e ringraziare per tutte le cose buone che ci offre e per la meraviglia con cui ci sorprende e ci riempie di stupore e ammirazione.

È troppo facile dirle grazie per le cose buone e maledirla, subito dopo, per quelle cattive: non è degno di una persona che possieda il senso della giustizia, perché equivale a dire che si è disposti a riconoscere solo i beni immediati, evidenti e pratici, senza tener conto che, per crescere e maturare, c’è bisogno anche delle prove, delle difficoltà, dei passaggi stretti e difficili: senza di essi, senza venir mai messi alla prova, si rimane degli eterni bambocci.

Oltre a ciò, bisogna sempre ricordare che il bene immediato ed evidente non è sempre il nostro vero bene; talvolta può essere un bene solo apparente e fallace, che prepara e favorisce le nostre cadute e le nostre vigliaccherie; mentre, talvolta, un male, o quello che ci sembra un male, non è che preparazione ad un bene futuro e, in ogni caso, è quanto serve perché noi impariamo ad apprezzare le cose buone nel loro gusto valore, senza di che finiremmo per darle per scontate e non le riconosceremmo nemmeno per quello che sono.

Non si può fare come Leopardi o come Schopenhauer: non si può denigrare e calunniare la vita perché non ci riserva sempre e soltanto cose belle; non è intellettualmente, né moralmente onesto: sarebbe come godere dell’amicizia finché i nostri amici stanno bene e sono allegri e di buona compagnia, e poi voltare loro le spalle quando si trovano in difficoltà, si ammalano, invecchiano. Se si è capaci di godere delle cose buone, bisogna anche saper accettare quelle non buone, perché la vita non è un parco dei divertimenti in cui si dispensano solo piaceri. L’errore sta nel pensare che il fine cui tende l’uomo sia soltanto il piacere, funesto malinteso di origine illuminista: da quando la parola “felicità” ha incominciato a introdursi nel vocabolario della società e della politica, ha finito per imporsi come la pretesa di un diritto, un diritto separato dai corrispondenti doveri e dai relativi sacrifici. Il bambino goloso e viziato mangia la parte più tenera della pietanza e getta la parte meno saporita o meno gradita al palato: la crosta del pane, il gambo dell’asparago, il nervo della bistecca. In maniera simile si comportano quegli adulti, e perfino quei pensatori, i quali vorrebbero tenere per sé i momenti felici, le occasioni favorevoli, gi incontri fortunati, ma pretendono di respingere le esperienze difficili. È la miseria dell’edonismo, sommata al delirio della cultura individualista e pseudo democratica dei diritti senza doveri.

La società moderna, malata di individualismo esasperato, di edonismo frenetico, di materialismo consumista, sembra incapace di trasmettere ai bambini e ai giovani l’amore per la vita, perché sembra aver smesso da tempo di credere nella vita: il crollo delle nascite e l’aumento esponenziale degli aborti (e non è vero che la loro legalizzazione ne abbia fatto diminuire il numero) lo testimoniano in maniera eloquente. Le culle vuote sono il segno di un malessere profondo, che i sociologi credono di aver spiegato, solo perché ne hanno illustrato i meccanismi esteriori, mentre continua a sfuggire loro il suo intimo significato e la sua origine spirituale. L’inurbamento, l’industrializzazione, la massificazione, la globalizzazione, possono fornire le coordinate storiche del fenomeno, ma non spiegarlo veramente: perché il disamore verso la vita, nella società occidentale moderna, è frutto del disincanto del mondo e questo, a sua volta, di una distorsione filosofica nel concetto dell’uomo e di un errore di giudizio rispetto alla realtà: la distorsione di aver promosso l’uomo a soggetto autosufficiente e l’errore di averlo visto come arbitrio e padrone di tutti gli altri enti, in nome di un progresso spacciato quale nuova religione secolarizzata.

Trasmettere l’amore per la vita, dunque, ai piccoli e ai giovani, è possibile se la vita la si ama davvero, se la si apprezza incondizionatamente, se non si è sempre pronti a dirne tutto il male possibile non appena si incontra qualche difficoltà, qualche infortunio, qualche prova. Non ama la vita colui che ne apprezza i beni, ma non ne accetta gli aspetti faticosi o difficili; non ama la vita colui che insegue i divertimenti e che abusa dei piaceri, ma si dispera e si lamenta amaramente ogni qual volta le sue cose non vanno nella maniera da lui desiderata. Un carattere allegro, una naturale propensione allo scherzo e alla risata sono cose buone, ma non attestano, automaticamente, l’amore per la vita; e i bambini colgono la differenza fra un adulto sempre pronto alla risata, ma anche alla lamentela e allo sconforto, e un adulto che, pur essendo di carattere riservato e poco espansivo, possiede però, e sa trasmettere, la serenità e la saggezza di chi apprezza la vita e ha occhi per la sua bellezza.

Gli adulti dovrebbero saper trasmettere queste ultime cose: dovrebbero, ogni tanto, fermarsi lungo la strada, e mostrare ai bambini i fiori che crescono sul fosso, l’arcobaleno dopo la pioggia, e invitarli ad ascoltare il concerto del merlo o dell’usignolo, o il profumo della terra bagnata portato dal vento. Dovrebbero raccontare loro delle storie, delle fiabe, nelle quali il meraviglioso si intrecci con il quotidiano e che abbiano una sana morale, che premia gli sforzi delle anime buoni e fedeli: delle fiabe che li facciano sognare, che li entusiasmino, che facciano leva sulla loro naturale fantasia e sulla loro propensione alla creatività. Dovrebbero regalare loro solo giocattoli belli e formativi, niente mostri e mostriciattoli, niente giochi elettronici, niente cose violente o di cattivo gusto; dovrebbero incoraggiarli a giocare all’aria aperta, con altri bambini, invece di stare seduti per ore ed ore davanti allo schermo del televisore o del computer; insegnar loro ad andare in bicicletta e non metterli al volante di automobiline odi motociclette elettriche, costosissime e super-tecnologiche, che li predispongono ad amare la potenza del motore e la velocità, invece di godere del paesaggio, delle stagioni, delle lunghe serate estive, respirando aria buona e apprezzando la compagnia dei loro coetanei.

Ma gli adulti saranno in grado di fare queste cose se essi, per primi, sanno godere delle cose semplici e belle, se le sanno riconoscere e apprezzare, se le sanno vedere, se le sanno ascoltare. Se sanno provare più gioia nel come che nel cosa, nell’essere che nell’avere, nella qualità che nella quantità; se non pongono il denaro, il successo e il potere, in cima alla piramide dei loro desideri e delle loro aspirazioni; se non passano ore e ore a truccarsi, ad abbronzarsi, a provare vestiti alla moda, se non cercano le cose futili, se non smaniano per le cose vuote, ma sanno esser contenti di poco, se sanno dare il giusto valore alla bellezza, all’amicizia, ai sentimenti veri, che rasserenano l‘anima e plasmano il carattere.

Gli adulti smidollati, che non sanno fare sacrifici per raggiungere gli obiettivi desiderati, che vanno in crisi di astinenza se si guasta il loro televisore, che fanno una malattia se il vicino ha acquistato un modello di automobile più recente e più costoso; che non sanno guardarsi dentro, che non sanno chi sono veramente, che indossano incessantemente le maschere offerte loro dal consumismo, non potranno mai trasmettere amore per la vita; così come non potranno farlo se vanno al lavoro malvolentieri, se fanno il loro dovere senza passione, se indulgono all’invidia, alla maldicenza, alla critica sterile e indiscriminata, se si sentono defraudati di qualcosa non appena qualcun altro riceve un riconoscimento, un premio, un complimento.

La vita è bella, senza dubbio: è piena di cose belle, appassionanti, entusiasmanti; basta avere degli occhi capaci di vedere e non solo di guardare, basta avere un cuore di carne e non un cuore di pietra, basta avere la capacità di stupirsi e non vivere in una ottusa monotonia, con il pilota automatico perennemente inserito. In essa, senza dubbio, si incontrano anche cose non buone, o tali che non vengono riconosciute subito come buone: eventi e situazioni che ci mettono a dura prova, difficoltà economiche, affettive, morali. Essa, dunque, appare anche come problematica: il bene non è mai del tutto uniforme, il piacere non è mai assoluto (in questo Leopardi aveva ragione), il cielo non è quasi mai totalmente sgombro di nubi e il temporale, magari improvviso e devastante, è sempre possibile. Questa problematicità, questa complessità, questo tessuto variegato della vita ci interrogano ed escludono formule semplicistiche ed etichette superficialmente rassicuranti. Anche giudicarla esclusivamente buona e felice è indice di un atteggiamento immaturo e superficiale; a meno che si tratti di un mistico o di un santo: persone eccezionali che riescono a gioire perennemente, perché si sono spinte così in alto, da non lasciarsi più turbare dalle aporie che tanto mettono in crisi chi, invece, si trova ancora nei livelli inferiori. Normalmente, una persona che non sappia vedere anche gli aspetti dolorosi della vita è una persona immatura o deficiente, una persona che possiede poca sensibilità e pochissima capacità di vedere e di riflettere.

Bisogna amare la vita dolorosamente, dunque, come affermava Umberto Saba? No; nemmeno questo sarebbe l‘atteggiamento giusto. Il fatto che in essa vi sia anche il dolore, non significa che bisogna lasciarsene influenzare fino a concedere ad esso uno spazio eccessivo; e poi, diciamolo francamente, “amare dolorosamente” è un ossimoro e una contraddizione in termini. Se si ama, si è pervasi da un senso di esultanza, quasi di euforia; se si ama la vita, non la si ama dolorosamente, la si ama e basta; la qual cosa non esclude affatto che, quando si passa per la porta stretta del dolore, si soffra: per non soffrire, bisognerebbe essere disumani.

Questo è il grande malinteso: pensare che l’amore per la vita sia inconciliabile con il fatto che, talvolta, la vita ci riserva anche il dolore. Anche, e non solo: le filosofie che predicano l’assolutezza del dolore, la nullità e la malvagità del tutto, che calunniano la vita e l’esistenza di ogni cosa, fino al nichilismo più estremo, sono false e, forse, insincere: perché, nel momento stesso in cui si sappia apprezzare la bellezza della vita anche per una sola ora, anche per un solo istante, bisogna avere l’onestà di dirle “grazie”, indipendentemente dal fatto che si sia trattato di un’esperienza di breve durata. Che cosa vuol dire, poi, “breve”? Forse che le cose belle possono essere misurate con l’orologio alla mano, con il solo criterio della quantità? È breve l’istante in cui due amici si comprendono, parlando; l’istante in cui due amanti si sentono una cosa sola, abbracciandosi; l’istante in cui una mamma culla il suo bambino, dimentica di tutto il resto?

Amare la vita non vuol dire essere perennemente felici; del resto, la cosa sarebbe impossibile: non apprezzeremmo la felicità come uno stato di suprema beatitudine, se durasse per sempre. Amare la vita vuol dire amarla con le sue ombre e con le sue luci, con le sue cose belle e con quelle meno belle. Non vuol dire neanche amarla in maniera assoluta, se con ciò si intende non essere capaci di vederla come una tappa della propria evoluzione, ma come il fine, l’unico e il solo, dell’esistenza. Chi la ama con brama, con ingordigia, facendone un valore assoluto, non riesce nemmeno a concepire l’idea di doversene distaccare: il che, invece, è necessario. Ed è talmente necessario che noi dovremmo sempre vivere con la consapevolezza della nostra fragilità, della nostra provvisorietà, della nostra mortalità. Veniamo dalla terra e alla terra dobbiamo ritornare: questa è la legge. Ma essa vale per la nostra vita fisica, non per la vita soprannaturale, non per la vita dell’anima. Il nostro corpo, così fresco e seducente in giovinezza, è destinato ad invecchiare, ad incurvarsi: questa è la legge, ed è inesorabile: non accettarla, significa non aver compreso le regole del gioco e, dunque, non amare la vita, o, almeno, non avere imparato ad amarla nel modo giusto.

Amarla troppo, cioè in maniera smodata, è tanto sbagliato quanto non saperla amare affatto: sono due maniere immature di porsi di fronte ad essa. La vita ci interroga, ci chiede quale sia la nostra vocazione, quale sia il grado di responsabilità che siamo disposti a prendere sulle nostre spalle nei suoi confronti. Questo è il suo intimo significato: capire e riconoscere quale sia la nostra responsabilità verso di essa, quanto siamo disposti ad impegnarci per fare di essa ciò che è giusto, ciò che siamo stati chiamati a fare.

Perché siamo stati chiamati: non siamo capitati per caso nella vita, né, tanto meno, per un atto indipendente del nostro volere. Possiamo rispondere con un “sì” o con un “no” alla chiamata; possiamo assumerci la nostra responsabilità o rifiutarla. Dipende da noi.

Questo è il bello della vita: che non ce la siamo data da soli, e tuttavia siamo invitati ogni giorno a svilupparla, a promuoverla, a lavorare su di essa con tutta la nostra creatività, la nostra intelligenza, il nostro entusiasmo. In altre parole, siamo stati chiamati a comprenderla e ad amarla…