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Appunti sull’urbanistica, il governo del territorio,la città come ecosistema,la sostenibilità

di Gabriele Bollini - 16/08/2006

 

"A che serve il Piano regolatore? A che serve l’urbanistica?": sono domande che chiunque può porsi

accorgendosi che un Piano non risponde a tutta una serie di problemi quotidiani. Domande capaci di

annullare immediatamente solo alzando lo sguardo per vedere che cosa c’è fuori, tutte le parole

dell’Urbanistica (come disciplina) e del Piano. Quelle, per esempio, che parlano della necessità di

"attirare investitori stranieri ad investire nella nostra città e nel territorio provinciale"; "di valorizzare

porzioni di territorio per inserirsi nel sistema della competizione europea nella libera circolazione di

merci e di capitali che caratterizzano l’epoca moderna". Qualunque Amministratore - comunale o

provinciale non ha importanza - pensa alla competizione globale e si affanna a spiegare come

improponibile ogni possibile mutamento ["non ci sono le leggi … non ci sono le risorse"], compreso

l’aiuto per i cittadini e per le fasce deboli della popolazione che vivono i disagi dell’abitare, del muoversi

e della difficoltà ad avere riconosciuto il diritto alla qualità dell’ambiente, della vita e alla salute in questa

città.

L’Urbanistica non ci aiuta ad "essere in tanti nello spazio della città". Uno spazio che vorremmo senza

discriminazioni ed esclusioni. Una domanda-considerazione che dovremmo raccogliere e amplificare,

organizzando la nostra attività in forum tematici, ovvero in spazi pubblici di ascolto e di confronto della

società (dai Forum di Agenda 21 alle consultazioni previste dalla LR 20/2000 nell’iter di discussione dei

Piani – piani territoriali di coordinamento, piani strutturali comunali, piani di settore come il piano di

gestione dei rifiuti, piano di gestione della qualità dell’aria, piano di tutela delle acque, piano energeticoambientale,

…..ecc.).

come diceva Antonio Cederna (ricordandolo a dieci anni dalla morte per quello che ha fatto e

scritto per il nostro Paese)

"La pianificazione urbanistica è un’operazione di interesse collettivo, che mira a impedire che il

vantaggio dei pochi si trasformi in danno ai molti, in condizioni di vita faticosa e malsana per la

comunità. Si impone quindi la pianificazione coercitiva, contro le insensate pretese dei vandali che

hanno strappato da tempo l’iniziativa ai rappresentanti della collettività, che intimidiscono e

corrompono le autorità, manovrano la stampa e istupidiscono l’opinione pubblica. Guerra ai vandali

significa guerra contro il privilegio e lo spirito di violenza, contro lo sfruttamento dei pochi sui molti,

contro tutto un malcostume sociale e politico: significa restituire dignità alla legge, prestigio allo Stato,

dignità a una cultura. Nell’urbanistica, cioè nella vita delle nostre città, si misura oggi la civiltà di un

Paese." (A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, p. 18)

"Occorre dunque, se vogliamo ridare una dimensione sopportabile alle nostre città, rompere

definitivamente l’indiscriminato ingrandimento a macchia d’olio, cui sono sottoposte dalla peggior

specie di vandali, latifondisti e trafficanti e monopolizzatori di suolo urbano, che tirano furiosamente la

città sui loro terreni, strategicamente disposti intorno a essa e tendono a urbanizzare abusivamente le

aree agricole". (dalla prefazione di A. Cederna, I vandali in casa, Editori Laterza, Bari 1956, parlando in

particolare di Roma) [i puristi del politicamente corretto, oggi così in voga, tradurrebbero il tagliente

termine di trafficanti di suolo urbano con immobiliaristi, e cioè un più neutro attributo a coloro che,

fino a poco tempo fa, venivano chiamati con il loro vero nome: speculatori.]

Afferma ancora Antonio Cederna che è con l’urbanistica che si salvano le città dalla speculazione. È

con l’urbanistica che si può tentare di dare una prospettiva di riscatto alle periferie urbane. Ma,

appunto, è un’urbanistica mirata, apertamente schierata, affatto condiscendente con le tendenze del

mercato. Appunto…!

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Non vorrei che al di là di nuovi assetti lessicali (sostenibilità, governance, agende 21, etc.) la sostanza sia

sempre la stessa e le decisioni vengano poi di fatto prese sempre nel tradizionale modo di rapportarsi

con i poteri forti (che guarda caso, quasi mai "partecipano" e presenziano ai tavoli e ai forum!) e

con/per altri interessi.

Dov’è finito il governo pubblico, nel senso di governo collettivo degli Enti pubblici territoriali? Perché

è così forte l’impressione che le decisioni che contano vengono prese sempre altrove? Molto spesso le

strategie (per i TAV come per gli inceneritori, le centrali, i MOSE e i Ponti), le scelte sul territorio e

sulle nostre vite, sono decise non nelle sedi elettive, ma nei vari consigli di amministrazione. Vogliamo

continuare a farci comandare da loro?

ma che cos’è l’urbanistica e a che cosa serve (vediamo come la intende Edoardo Salzano,

urbanista, direttore del sito web eddiburg.it, nel suo contributo nel libro "La controriforma

urbanistica. Critica al disegno di legge Lupi", Alinea Editrice, 2005)

"Il plurisecolare tentativo dell’autorità pubblica di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare

di contrastare o condizionare la proprietà immobiliare non si fonda su presupposti ideologici o su

velleità moralistiche. Non ha nulla a che fare con il socialismo o il comunismo, poiché nasce dalla più

schietta cultura liberale. Non esprime una volontà autoritaria, perché ha la sua origine nell’esigenza di

liberare gli interessi di tutti dal dominio degli interessi di sfruttamento immediato e miope di un bene

comune. Non è in opposizione con lo sviluppo economico peculiare al sistema capitalistico, perché

tende a distrarre risorse dagli impieghi improduttivi (della rendita) perché possano essere orientate a

quelli produttivi (al profitto)."

Sono abbastanza noti gli strumenti con cui si può ricorrere per ridurre il peso della rendita immobiliare,

per distrarre risorse da quegli impieghi improduttivi, per travasarne parti consistenti verso l’utilità

pubblica.

"Di questi strumenti la pianificazione territoriale e urbanistica è il principale, proprio perché esprime il

primato del potere pubblico nel decidere le utilizzazioni e trasformazioni del territorio: cioè quei

meccanismi mediante i quali la rendita immobiliare si forma e si trasforma. E anche perché costituisce

la cornice nella quale inserire le altre decisive politiche urbane: quella della casa, dei servizi collettivi,

della mobilità, della gestione dell’energia, delle acque e dei rifiuti.

L’urbanistica moderna e i suoi strumenti, del resto, sono nati proprio in relazione alla necessità di

tutelare, nell’organizzazione della città, alcuni interessi comuni di cui la logica del mercato era incapace

di tener conto. Le contraddizioni, e i relativi problemi pratici, si spostarono nel tempo dalla città ad

ambiti più vasti: dalla città al territorio. Agli interessi comuni della funzionalità e della bellezza della città

altri se ne sono aggiunti nel tempo: anche la tutela dei valori e interessi dei beni storici e culturali, anche

l’impiego razionale e parsimonioso delle risorse naturali e dell’ambiente si rivelarono via via come beni

e interessi non tutelabili dalle leggi dell’economia, che quindi richiedevano un intervento regolatore

"esterno".

Di questo intervento regolatore si fece carico – sul piano sostanziale della decisione – l’autorità politica:

cioè, nel regime democratico, il sistema dei poteri rappresentativi eletti direttamente dalla popolazione.

In Italia, il sistema Stato, Regione, Provincia, Comune. Poiché si trattava di regolare una situazione

complessa, che riguardava una realtà georeferenziata, si inventò un insieme di strumenti che avevano la

loro base in un progetto di territorio, cioè un piano. Poiché, più tardi, si vide che la dinamica delle

trasformazioni non era sufficientemente governata da un documento statico, si trasferì l’accento dal

piano alla pianificazione, cioè a un’attività continua di governo delle trasformazioni territoriali. (…)

Quello che merita di essere sottolineato è che in quella fase della storia l’obiettivo che la politica

perseguiva "(e che era fatto proprio dagli appartenenti alle diverse formazioni, dai politici) era un

obiettivo di ampio respiro , un progetto di società. Esso si realizzava concretamente con piccole azioni

e piccole trasformazioni, ma queste erano viste come parti di una costruzione complessiva, che si

sarebbe concretata interamente in un futuro lontano. Si lavora oggi per domani, e magari per

dopodomani.

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E poiché per poter realizzare il proprio progetto di società era necessario il consenso, l’azione politica si

arricchiva di una forte componente didattica: occorreva spiegare il proprio progetto di società,

illustrarne le ragioni, le possibilità, le conseguenze. Per conquistare i voti occorreva prima conquistare le

coscienze. Partendo dagli interessi specifici delle diverse categorie di soggetti, ma cercando di farli

convergere verso un interesse più ampio: verso un interesse generale.

Oggi l’attenzione è tutta schiacciata sul breve periodo, sull’immediato, su ciò che si può raggiungere

oggi, prima che inizi la prossima campagna elettorale. E poiché ciò che conta è conservare (o

conquistare) il potere, ecco che lo sforzo non è rivolto a formare le coscienze e a costruire il futuro, ma

a guadagnare il consenso con una doppia operazione: da una parte, calibrando la propria proposta

politica sul consenso che si può guadagnare nell’immediato, sugli interessi già presenti oggi e in grado

oggi di essere soddisfatti; dall’altra parte, impiegando tutte le tecniche capaci di modellare la coscienza

di strati vasti di popolazione.

Dall’interesse generale alla cattura di tutti gli interessi più immediati e spiccioli. Dalla faticosa

costruzione del futuro alle piccole trasformazioni nell’immediato. Dalla formazione alla manipolazione.

Dalla visione prospettica alla miopia. Questa è la sintesi della caduta della politica.

Attività e insediamenti ambientalmente sostenibili

Una introduzione verso il progetto della città "sostenibile"1

Oggi, l’urbanistica deve occuparsi non solo di aspetti funzionali ed estetici, ma anche di quelli ecologici.

Agire ecologicamente vuol dire utilizzare le risorse disponibili con maggiore razionalità ed economia

nella consapevolezza che esse sono limitate e devono bastare anche per le generazioni future.

I problemi dell’ambiente urbano non sono unicamente problemi di inquinamento, di ambiente

edificato, di natura e fauna in città. Sono soprattutto questioni di mancata gestione dei cicli energetici,

idrici, materiali, e della perpetuazione della città come massimo sistema dissipativo.

Definire oggi una qualche attività umana "sostenibile" nel lungo periodo è impresa per nulla semplice e

forse sarebbe più corretto parlare della necessità di perseguire uno sviluppo "meno insostenibile"

dell’attuale. Una visione di questo tipo non è certo nuova nella nostra cultura. Alcuni pensatori,

scienziati ed economisti ne hanno indicato la necessità già da tempo. Per esempio vale la pena ricordare

quanto scritto da un famoso scienziato, padre della termodinamica, Rudolf Clasius: "in economia vi è

una regola generale secondo la quale il consumo di un dato bene in un dato periodo non deve superare

la sua produzione nello stesso periodo. Oggi stiamo comportandoci come eredi scialacquatori. Si estrae

dal suolo quanto la forza umana e i mezzi tecnici consentono, e quel che viene estratto è consumato

come se fosse inesauribile. Quando guardiamo al futuro, ci domandiamo inevitabilmente cosa accadrà

una volta che le riserve di carbone saranno esaurite". Queste riflessioni risalgono al 1885, a

dimostrazione di come il concetto di sostenibilità risponda soprattutto al buon senso ed a un minimo di

conoscenza su come opera ed evolve la natura.

Nel 1991 il noto bioeconomista Herman Daily ha fissato quattro principi operativi per lo "sviluppo

sostenibile", chiarendo meglio i contorni di questo concetto:

1. il peso complessivo del nostro impatto sui sistemi naturali deve essere riportato al livello in cui non superi la

capacità di carico della natura;

2. il prelievo delle risorse rinnovabili non deve superare la loro velocità di riproduzione;

1 In questo testo il termine "sostenibile" è molto utilizzato e non sempre in una accezione condivisibile da chi sostiene la

necessità di una decrescita conviviale; per questo è sempre virgolettato. È chiaramente una scelta dell’autore in quanto

nell’immaginario collettivo, istituzionale, tecnico, politico, …, è ancora ampiamente (e spesso inutilmente) utilizzato (e

abusato). Per qualunque osservazione e/o chiarimento sul tema reputo che il riferimento bibliografico ottimale sia (ad

esempio, per citarne uno) "Come sopravvivere allo sviluppo" di Serge Latouche (Bollati Boringhieri, 2005).

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3. lo scarico di emissioni nell’ambiente non deve superare la capacità di assorbimento dei recettori;

4. il prelievo di risorse non rinnovabili deve essere compensato dalla produzione di una pari quantità di risorse

rinnovabili che, a lungo termine, siano in grado di sostituirle.

Come attuare però la sostenibilità? Tutte le ricerche più avanzate sull’applicazione concreta delle

politiche di sostenibilità confermano che esse devono essere capaci di rispondere ad un sapiente mix di

"efficienza e sufficienza". Ciò significa coniugare politiche che mirano all’ottenimento degli stessi beni e

servizi con un impiego inferiore di energia e materie prime, con politiche che mirano all’ottenimento

dello stesso livello di benessere con un minor impiego di beni e servizi.

Nell’ultimo capitolo dello "State of the World 1998", dal titolo "Costruire una nuova economia", Lester

Brown e Jennifer Mitchell hanno scritto: "Gli ecologi sanno da molto tempo che il sistema economico

esistente è insostenibile, ma pochi tra gli economisti condividono questa opinione. Quale tipo di

sistema sarebbe ecologicamente sostenibile? La risposta è semplice: un sistema le cui strutture rispettino

i limiti e la capacità di carico dei sistemi naturali. Un’economia "sostenibile" è nutrita da fonti di energia

rinnovabili. È un’economia basata sul riuso e sul riciclo. Nella sua struttura imita la natura stessa dove

lo scarto di un organismo diventa il sostentamento di un altro…L’economia deve soddisfare i principi

dell’ecologia per poter durare nel tempo". E ancora scrive sempre Lester R. Brown in "Ecoeconomy. Una

nuova economia per la Terra": "Gli economisti concepiscono l’ambiente come sottoinsieme dell’economia

(invece) l’economia è un sottosistema dell’economia terrestre […] La sola formulazione di politica

economica che avrà successo sarà quella che rispetterà i principi dell’ecologia."

Oramai esiste un’ampia letteratura qualificata che dimostra la praticabilità dello sviluppo

ambientalmente sostenibile. Vi sono purtroppo immensi ritardi del mondo politico, economico ed

imprenditoriale nel recepirla e metterla in pratica ed è presente inoltre un’informazione ed una

conoscenza ancora generica e superficiale da parte dell’opinione pubblica nel suo complesso. A monte

di tutto ciò vi sono interessi, resistenze al cambiamento, malafede e ignoranza.

L’umanità del terzo millennio ha la possibilità concreta (oltre che l’imperativo morale) di cambiare rotta

e avviarsi sulle strade della sostenibilità. Certamente si tratta di un percorso difficile, che richiede un

approccio nuovo, dinamico e orientato al futuro.

Ri-progettare l’economia: dal sistema lineare al sistema ciclico

Ogni azione umana determina un assorbimento/acquisizione di risorse dall’ambiente da una parte, e,

dall’altra, il rilascio di varie emissioni, quali agenti chimici e/o fisici, sostanze più o meno tossiche,

rumori, ecc. sia le estrazioni/prelievi che le emissioni sono forme di impatto ambientale. L’emissione

comporta il rilascio di sostanze nell’ambiente, mentre l’uso di materie prime determina il prelievo di

sostanze dall’ambiente. Ogni forma di impatto ha quindi alla base lo scambio di sostanze nell’ambiente

e il sistema di produzione e consumo. Questo sistema, come insieme di azioni umane nel suo

complesso, ha determinato impatti che non sono assorbibili dagli ecosistemi e che compromettono

l’equilibrio e la sopravvivenza della flora e della fauna e finanche dell’uomo.

Scrive Barry Commoner nel suo famoso libro "Il cerchio da chiudere"(1986): "Gli esseri umani hanno

spezzato il cerchio della vita, spinti non da necessità biologiche ma da una organizzazione sociale che

hanno progettato per conquistare la natura […] Una volta ancora, per sopravvivere, dobbiamo chiudere

il cerchio."

Bisogna allora definire una strada verso la sostenibilità ambientale (ecologica) e i percorsi praticabili, che

possono essere diversi, devono tutti partire dal presupposto che affinché le attività umane possano

continuare indefinitivamente e senza perdita di qualità ambientale, è necessario che la loro impronta

sugli ecosistemi sia tendente a zero. E quindi che sia tendente a zero (ovvero che sia sostenibile nel

senso definito da Herman Daly) ogni attività di prelievo che porti ad impoverirli, ed ogni attività di reimmissione

che tenda ad accumulare sostanze con caratteristiche e concentrazioni diverse da quelle

iniziali.

In sostanza è il "concetto di ciclo chiuso" che va riconosciuto e metabolizzato in ogni azione antropica.

Un concetto che nasce come metafora del tentativo di creare analogie e corrispondenze tra sistema

produttivo della natura, caratterizzato da interdipendenza e reciprocità di tutti i rapporti vitali a tutti i

livelli dell’ecosistema, e l’ecosistema umano.

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Il ciclo produttivo della natura vivente è chiuso dal momento che i rifiuti vengono ritrasformati in

sostanza assimilabili dai produttori primari e rimessi in ciclo; tutti gli organismi naturali ingeriscono,

trasformano ed espellono materia per ottenere l’energia e la biomassa necessarie alla sopravvivenza e

alla riproduzione.

Il richiamo alle economie a ciclo chiuso diventa quindi una scelta strategica per ri-progettare le cose, i

sistemi, gli spazi e i tempi dell’economia di oggi.

Purtroppo ancora oggi tale trasformazione appare lontana nonostante che oramai si manifestano sotto

gli occhi di tutti i fenomeni di cambiamento ambientale globale dovuti al nostro scriteriato modello di

sviluppo.

I cicli biogeochimici (acqua, CO2), quello sedimentario, quello energetico, quello della materia

(compresi i rifiuti quindi) quello dei nutrienti, ecc., rivestono di fatto un ruolo fondamentale nel

processo di mantenimento e sviluppo di ogni ecosistema naturale.

I piani urbanistici devono quindi tendere a includere nel proprio programma azioni rivolte al

mantenimento di cicli naturali e delle risorse. Tale attenzione è ancora troppo spesso valutata con

sospetto dai professionisti, come se le cosiddette questioni ecologiche dovessero rimanere questioni

esterne al piano e risolvibili in altri contesti.

Tre le risorse fondamentali di cui tener conto:

Il suolo

La principale risorsa dell’urbanistica è il suolo, il territorio che, come sappiamo, non è ampliabile

(nonostante che l’universo sia in continua espansione). Rendendo un’area edificabile significa sottrarla

da altri usi. Occorre quindi combattere la continua espansione delle aree edificabili, completare le aree

già parzialmente edificate prima di occuparne di nuove, utilizzare delle aree già compromesse (cave,

zone industriali) e recuperare gli spazi insufficientemente utilizzati o abbandonati.

"L’obiettivo del consumo "zero" di suolo si può sostanziare in due forme complementari: dichiarando

tutte le aree non urbanizzate aree di riserva agricola e ambientale (salvo necessità collettive che non è

possibile soddisfare altrimenti, da dimostrare pubblicamente), e prevedendo un sistema di incentivi

procedurali e sostanziali che rendano decisamente più conveniente intervenire nelle aree già

urbanizzate." (…..) La legislazione toscana ammette l’utilizzazione del suolo non urbanizzato

"esclusivamente qualora non sussistano alternative di riutilizzazione e riorganizzazione degli

insediamenti e delle infrastrutture esistenti"( A. Magnaghi e A. Marson, "La controriforma urbanistica.

Critica al disegno di legge Lupi", Alinea Editrice, 2005).

Energia

Il risparmio energetico non è più una scelta, ma, in considerazione del cambiamento del clima, una vera

necessità. L’urbanistica può contribuire al risparmio energetico in vari modi: i piani urbanistici possono

facilitare lo sfruttamento passivo e attivo dell’energia solare conferendo agli edifici un orientamento che

favorisca la captazione dell’energia solare; un’elevata densità dei quartieri favorisce una razionale

produzione di energia in centrali di micro-cogenerazione. I regolamenti edilizi possono promuovere un

livello prestazionale migliore degli edifici pubblici e privati (un uso più efficiente dell’energia e una

riduzione dell’uso di energia).

Acqua

Per mantenere l'equilibrio ecologico bisogna rispettare il ciclo delle acque ed evitare

l’impermeabilizzazione delle superfici. Le acque piovane, oltre ad essere utilizzate individualmente in

casa, possono essere raccolte in conche di assorbimento. Il 50 per cento degli attuali usi di acqua

potabile può essere sostituito usando acqua piovana. Almeno nelle aree non servite o lontane dalla rete

fognaria e dai depuratori (ma non solo), dovrebbero essere utilizzati sistemi naturali di depurazione

(filtri, fitodepurazione, ecc.) che consentono l’immediata restituzione delle acque depurate direttamente

alla natura.

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Il carattere di questi interventi rende ovvio che la loro attuazione non può essere imposta solo dal piano

regolatore e dal regolamento urbanistico ed edilizio, che sono gli strumenti più importanti

dell’urbanistica. Il risparmio energetico, l’uso di fonti energetiche rigenerabili, l’organizzazione dei

trasporti pubblici e la gestione dei rifiuti richiedono anche altri strumenti che, tuttavia, hanno delle

ripercussioni sull'assetto urbanistico. Ciò che il cittadino desidera è una città vivibile e questa vivibilità

non dipende solo dall’urbanistica, ma dall’intera gestione della città. Edifici, strade, giardini e parchi

sono elementi necessari e conferiscono alla città, o al quartiere, un aspetto formale inconfondibile, ma

da soli non soddisfano i bisogni dei cittadini.

Una città "più sostenibile" è una città che funziona come sistema ecologico

Una città è per sua natura, come ricorda E.P. Odum (Basi di ecologia, 1983, Piccin, Padova), un

ecosistema fragile, contraddistinto da una ridotta capacità di carico e del tutto dipendente dall’esterno

per l’approvvigionamento della popolazione, principale consumatore di risorse naturali e maggiore

produttore di inquinamento e rifiuti.

La città è un sistema aperto molto complesso nel quale gli input sono l’energia, i materiali e

l’informazione ---pura o incorporata in altri materiali--- e gli output sono rifiuti, emissioni, scarichi,

calore. È sempre stato così da quando esistono le città. Quello che fa la differenza con la situazione

passata è la drammatica crescita della quantità degli input e, di conseguenza, degli output: dovuti

entrambi al progresso tecnologico e alla disponibilità di energia, non percepita come una risorsa scarsa.

L’effetto di questo cambiamento, che insieme all’aumento della popolazione coinvolge quasi tutte le

città del pianeta, ha provocato un deterioramento della qualità della vita urbana e minaccia la salute

dell’intero pianeta a causa degli effetti delle emissioni di CO2. Minaccia che proviene soprattutto dalle

città, che consumano l’80% dell’energia.

La nostra sfida, ora, è quella di saper invertire la tendenza, combinando il miglioramento della qualità

della vita con una significativa riduzione di energia fossile, input e rifiuti. L’obiettivo finale è quella che

parecchi chiamano la "città sostenibile".

Una città più sostenibile dovrebbe funzionare quanto più possibile come un sistema ecologico,

dovrebbe essere cioè capace di massimizzare l’efficienza nell’utilizzo di ciascun input (energia, materiali)

attraverso l’uso e il riciclaggio multiplo/a cascata di ciascuno di essi, reso possibile dall’elevata diversità

delle specie (= tecnologie) presenti in esso.

D’altra parte, a differenza dei sistemi ecologici, le città ambientalmente sostenibili non sono in

equilibrio, sono sistemi in continua evoluzione a causa del continuo progresso tecnologico. Questo

rende più difficile una loro adeguata gestione, visto che esse sono come sistemi ecologici nei quali è

introdotto un continuo flusso di nuove specie, le quali devono entrare a farne parte senza danneggiarli.

Quindi, che cosa ---realisticamente parlando--- vuol dire città più sostenibile?

Di sicuro, finchè saranno necessari energia e materiali, non vorrà dire che la città è del tutto

autosufficiente, come accade invece in un sistema ecologico. In una città più sostenibile l’input di

energia deve essere il più possibile di energia non fossile, gli input di materiali/oggetti debbono avere

un basso impatto ambientale per tutto il loro ciclo di vita, gli output di rifiuti devono essere minimizzati

anche attraverso un maggior ricorso al riuso e al riciclaggio, l’utilizzo finale di energia deve essere

minimizzato riducendo i consumi, razionalizzandone l’uso nonchè attraverso l’adozione di appropriati

sistemi e tecnologie.

La soddisfazione di queste esigenze implica un sostanziale cambiamento di tre sottosistemi: produzione

di beni, edifici, mobilità. Per raggiungere la sostenibilità, i tre sottosistemi che convivono nella città

devono attuare una trasformazione al loro interno e nella loro mutua interazione. I tre sottosistemi

devono essere integrati in un programma di pianificazione energetica e ambientale della città.

Ogni sottosistema della città deve cambiare, apprendendo come utilizzare meno energia e più risorse

rinnovabili. Deve imparare come cooperare con gli altri al fine di trasformare i propri rifiuti in utili

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input per gli altri sottosistemi attraverso un nuovo network che diffonda energia, materiali e

informazioni, in maniera sempre più simile al sistema biologico.

Uno degli obiettivi prioritari della città ambientalmente sostenibile è ridurre l’emissione di CO2 a una

quantità che possa essere sostenuta dal sistema Terra nel lungo periodo.

Una città più sostenibile è una città solare. Una città in cui si materializza quella che è stata definita "la

triade energetica", costituita da tre linee di azione che devono integrarsi: l’uso esteso delle fonti

rinnovabili, l’uso razionale dell’energia e la gestione intelligente della domanda di energia.

U na città capace di un futuro "sostenibile" riduce la propria impronta ecologica e migliora

quella sociale.

La sfida che ci attende nei prossimi decenni ---la rivoluzione culturale cui tutti siamo chiamati, a

qualunque livello agiamo--- deve vederci impegnati nel trasformare le basi concettuali che misurano il

nostro attuale benessere e la salute economica dei nostri paesi, non più in termini di crescita della

produzione e dei consumi materiali, per porre le basi di una società in cui si sia capaci di vivere meglio,

consumando molto meno, evitando la dilapidazione del capitale naturale e sviluppando un’economia

che riduca gli attuali input di energia e materie prime.

Per tenere sotto controllo il progresso verso lo "sviluppo sostenibile", è dunque necessario essere in

grado non solo di definire, ma anche di misurare i vari aspetti della sostenibilità: i limiti che ci impone la

natura, il nostro impatto su di essa e la "qualità" della nostra vita.

Questo ci impone un invito ad una riflessione sulla nostra impronta ecologica, ponendoci l’imperativo

categorico in ogni nostra azione/attività ---di cittadinanza e di governo a qualsiasi livello--- di ridurla.

L’impronta ecologica è un indicatore aggregato e sintetico che misura lo stato di pressione umana sui

sistemi naturali, ovvero misura la pressione che le nostre attività, il nostro stile di vita esercitano non

solo sull’ambiente che ci circonda ma sul Pianeta nel suo insieme. Un indicatore concettualmente

semplice e ad elevato contenuto comunicativo in quanto rappresenta tale pressione con un parametro

di facile comprensione qual è il consumo di terra e di natura (che appunto viene misurato in ettari).

L’impronta ecologica permette di capire perché la "crescita economica illimitata" non è assolutamente

realizzabile. I dati sulla nostra impronta ecologica sono dati che inducono al cambiamento. Un

cambiamento mirato a farci vivere, quanto più possibile, in armonia con il mondo della natura da cui

deriviamo e senza il quale, fino a prova contraria, non possiamo vivere.

Abbiamo molto più bisogno noi della Natura che la natura di noi!

La popolazione umana ha bisogno di cibo, acqua, aria e sostanze nutritive per crescere, per sostenere

l’organismo e per riprodursi. I sistemi economici, industriali e tecnologici da noi creati richiedono

energia, acqua e un’enorme varietà di materiali, sostanze chimiche e biologiche che servono a produrre

beni e servizi.

L’ecologia, tutte le scienze della natura e, oggi, le scienze dei cambiamenti globali ci dicono chiaramente

che esistono limiti ai tassi secondo i quali la popolazione e quindi i nostri sistemi economici e produttivi

possono impiegare materiali ed energia; e vi sono limiti ai tassi secondo i quali è possibile continuare a

emettere scarti, emissioni, rifiuti senza danneggiare i sistemi naturali e le loro capacità di assorbimento,

rigenerazione e regolazione, nonché gli stessi esseri umani e il nostro sistema economico e produttivo.

A questo punto risulta più chiaro come e perché dobbiamo impegnarci ciascuno di noi, molto più di

quanto si sia fatto fino ad oggi, per spostare i nostri consumi verso un’economia realmente

"sostenibile", rispettosa delle capacità rigenerative ed assimilative dei sistemi naturali che ci consentono

di vivere e basata su di un principio di equità che impedisca il prosieguo delle intollerabili iniquità sociali

di cui è purtroppo ricco il mondo odierno.

La privatizzazione dell'acqua, delle risorse energetiche, della biodiversità, dei servizi essenziali alla

sopravvivenza, come acquedotti e fognature, servizi idrici ed elettrici, scuola e sanità, rischia di

aggravare ulteriormente il quadro già drammatico dei conflitti sociali e delle guerre in corso per

conquistare le risorse naturali di cui i Paesi del Sud del mondo sono ricchi.

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Inoltre anche sul tema della sostenibilità si pongono questioni fondamentali di diritti e di poteri. Diritti

quali quello dell’accesso all’informazione, alle competenze, allo sviluppo di una progettazione

partecipata che parta dal coinvolgimento dei cittadini, oggi sempre più messo in discussione. Poteri che

vanno conquistati, contro gli interessi dominanti, per affermare una progettualità sociale e nuove

pratiche dal basso.

I principi di riferimento

Alcuni principi debbono guidare, alle diverse scale, le linee fondamentali dell’assetto del territorio. La

loro origine deriva dall’accumulo teorico e sperimentale delle conoscenze a livello internazionale ed

europeo ed è sancita da trattati e direttive. È fondamentale che questi principi vengano esplicitati in

modo che su di essi vi possa essere un dibattito chiaro e partecipato.

Il principio di sostenibilità

Il territorio attuale è il risultato di processi evolutivi, fisici e biologici e dei loro complessi rapporti con

le attività antropiche di sviluppo economico e sociale.

Ogni scelta suscettibile di produrre modificazioni territoriali rilevanti deve perciò fondarsi sul

riconoscimento della rilevanza globale e indivisibile del territorio ai fini della sicurezza, della qualità

della vita e dello sviluppo per le attuali e le future generazioni.

Alla base delle politiche territoriali deve esserci la piena consapevolezza della complessità delle

interdipendenze che legano, ad esempio, il ciclo delle acque e i processi naturali all’organizzazione e

all’uso del territorio; tra la tutela ambientale, la difesa del suolo, la gestione delle acque e la

pianificazione urbanistica e territoriale ci sono connessioni che si manifestano in modo anche

drammatico.

Il principio di sostenibilità richiede un approccio a scale diverse nello spazio e nel tempo.

Azioni che non risultino pienamente giustificate su tutti i terreni non sono più ammissibili; piani

urbanistici privi delle necessarie indagini geologiche e idrogeologiche, delle necessarie valutazioni del

patrimonio edilizio, dell’edilizia rurale, del patrimonio botanico e faunistico, non debbono più essere

consentiti.

La sostenibilità attraversa tutte le discipline e comporta che non sia più accettabile che queste agiscano

in modo isolato, ignorandosi o competendo per un inesistente predominio: una politica del territorio

può nascere solo dalla convergenza di dati, metodi e assunti di varie discipline in un lavoro comune.

La nuova fase richiede la consapevolezza dell’intreccio, ormai imprescindibile, fra sostenibilità e qualità

dello sviluppo.

Il principio di prevenzione

Occorre riconoscere che, nel nostro contesto storico e geografico, l’utilizzo e la domesticazione

antropica dei sistemi naturali non possono estendersi e intensificarsi senza limiti e occorre anche

riconoscere che, allo stato attuale delle conoscenze, il progresso tecnologico non può risolvere tutti i

problemi, né proteggere da ogni rischio, né continuare a sfidare la natura. La prevenzione dei rischi e la

loro riduzione entro limiti accettabili comporta la riduzione dell’interferenza antropica nei processi

naturali: le politiche del territorio devono rispettare, assai più di quanto non si sia fatto nel recente

passato, la capacità evolutiva degli ecosistemi e le manifestazioni naturali dei processi idrogeologici e

geo-morfologici, prevenendo interventi e sviluppi insediativi e infrastrutturali che possano provocare o

aggravare i rischi o i sovraccarichi ambientali.

Il principio di precauzione

Non possiamo d’altra parte permetterci di trascurare una diagnosi anche se questa è incompleta: il

principio di precauzione richiede che ogni decisione sulla gestione del territorio venga presa con il

massimo margine di sicurezza possibile. Poiché la complessità dei sistemi ecologici (e l’imprecisione

stessa delle scienze) non permette mai di avere un quadro completo delle conoscenze, né di prevedere

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con esattezza lo sviluppo delle dinamiche dei sistemi, il principio di precauzione richiede che si agisca

avendo sempre come riferimento lo scenario più prudente tra quelli possibili, quello che corrisponde

all’attuale livello di dubbio nella conoscenza della situazione e nella previsione dei fenomeni futuri. La

vera precauzione è nell’agire con i metodi della programmazione dinamica e della pianificazione in

presenza di incertezza.

Precauzione significa limitare gli interventi sul territorio a quelle azioni delle quali possiamo

ragionevolmente prevedere effetti non distruttivi e delle quali possiamo comunque assicurare la

compatibilità.

Adottare il principio di precauzione su basi scientificamente fondate, specialmente quando i danni

temuti possono essere seri, consente di ridurre i rischi e gli errori di valutazione.