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La “Grande Bruttezza” della nostra epoca

di Giuseppe De Falco - 25/04/2014

Fonte: millennivm


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Uno dei fenomeni più caratteristici e allo stesso tempo più curiosi ed esplicativi del pensiero dominante del mondo odierno appartiene all’ambito dell’etica. Questo fenomeno potremmo definirlo, parafrasando ironicamente il titolo di un noto film di recente uscito presso il grande schermo, “Grande Bruttezza”. A nostro avviso è davvero singolare che si parli di “Grande Bellezza”, dando a quest’ultima una carica di significato non indifferente, laddove è unicamente Bruttezza con la b maiuscola a potersi scorgere nel desolato panorama culturale odierno, trovandoci noi oggi in una situazione di ristagno intellettuale senza precedenti, in cui ormai la cultura sembra ridotta a faccenda solipsistica senza alcuna velleità di trasformare l’ordine (o meglio il disordine) ufficiale. I moderni paesi capitalistici – e questo la dice lunga circa il loro attuale stato di salute – propongono infatti un vero e proprio culto del godimento effimero, egoistico e illimitato, ridotto a religioso e morente simulacro. L’urlo di Munch è l’immagine che più si avvicina ad esprimere uno stato di cose in cui il Bello è ormai considerato “antiquato” e “passato” e tutto ciò che giustamente è sempre stato ostracizzato come brutto, osceno e persino abominevole è oggi non solo ammesso e considerato lecito, ma persino riconosciuto apertamente e senza più tante remore come ciò che è veramente positivo e “bello”. Possiamo ben dire di essere di fronte alla parodia e al rovesciamento finale della Kalokagathia di ellenica memoria, concezione che riunisce il Bello e il Buono in un unico termine, in accordo con l’arcaica dottrina secondo cui il Bello non altro sarebbe se non lo “splendore del vero”, ossia la manifestazione sensibile e “formale” del Buono, platonicamente inteso come una categoria ontologica. Due cose fondamentalmente definivano la percezione del Bello anticamente: armonia di forme e chiarezza di colori. Oggi si vorrebbe invece bello tutto ciò che è sformato, grottesco, paradossale. Un popolo che rende omaggio a tutto ciò è evidentemente un popolo che brinda inconsapevolmente al proprio stesso annichilimento morale e, in ultima istanza, alla propria distruzione. Non è mai esistito nella storia un popolo forte e sovrano e al tempo stesso preda di simili assurde allucinazioni, e ciò per un motivo molto semplice: un popolo non può sopravvivere attivamente se non promuovendo, anche solo in minima misura, valori positivi e tali da portare, se non idealmente all’accrescimento delle potenzialità insite in ciascuno, quantomeno alla conservazione degli istinti vitali sani e basilari. È proprio qui l’intima perversione del sistema liberal-capitalistico, in quanto quest’ultimo, essendo costretto per sua stessa natura a promuovere un culto anodino a base di produzione e consumo, non può che risolversi, sul piano sociale, nella promozione di antivalori atti, per così dire, a tirar fuori il peggio anziché il meglio dai popoli. Idee come quella secondo cui un popolo debole e apatico, ridotto a massa informe eppure totalmente frammentata, è un popolo facile da governare, sono scolpite nella mente dei fautori degli odierni regimi plutocratici. L’odierno “regno animale dello spirito”, prendendo in prestito un’espressione di grande incisività da Hegel, è simile ad una nave piena di passeggeri sballottata dalle onde della corrente marina verso sentieri sconosciuti e sempre più incerti, in cui però non vi sia al comando un saggio ed esperto timoniere, bensì un folle e maldestro sabotatore. E ancora più triste e persino tragicomica apparirà allora la situazione in cui tale sabotatore è onorato e applaudito per i suoi stessi misfatti da coloro i quali ne risentono per primi. Esattamente questo è lo scenario attuale, all’origine del quale va senz’altro posta una volontà faustiana di trascendimento di ogni limite, in una parola: hybris. Con tale parola gli antichi greci definivano l’eccesso, l’andare oltre, la tracotanza che supera l’equilibrio del giusto limite fondato sul metron, sulla misura, e su un’etica di sobrietà e contenimento. Il procedimento è analogo a quello della genesi, in cui Adamo, l’Uomo Primordiale, decade per via di ciò che si potrebbe definire come una “rottura ontologica di livello”: la rinuncia all’Albero della Vita per ottenere il frutto dell’Albero della Conoscenza del Bene e del Male, che è sinonimo non già di progresso spirituale bensì di perdita dell’originaria visione sinottica e universale, e cioè, in altri termini, lasciando paradossalmente il più per amore del meno. I frutti di tale tracotanza sono chiari e belli che maturi. Secondo un progressivo processo di oblio del Sé l’uomo è lentamente sprofondato nell’Ego, soggiacendo sempre più all’illusione della realtà singolare, individuale. La logica conseguenza non è altra se non quella dell’homo homini lupus di hobbesiana memoria, il cui punto conclusivo è rappresentato dal Leviatano, un mostro artificiale destinato al contenimento degli appetiti bestiali degli individui che malgrado ciò continueranno a credersi “liberi” ed “emancipati”, che in realtà tradotto dal lessico liberale all’italiano sarebbero definiti dissoluti e rotti a ogni bassezza. Mai come oggi “libertà” è una parola abusata, a tal punto da aver assunto l’opposto del suo vero significato. L’uomo occidentale contemporaneo ha però ormai tagliato i ponti sia con le soluzioni hobbesiane che con ogni idealistico tentativo di “stato etico”. Finalmente “libero” dai fantasmi del passato è ormai approdato al salvifico e messianico concetto americano del self-made man, il Signor Nessuno senza passato, senza avvenire, senza Tradizione né Futuro che può finalmente essere tutto quello che vuole. Siamo tutti visitatori coatti del “Grand Hotel Abisso”, per usare una felice immagine di Lukacs. Qui, sicuri e tranquilli nelle loro illusioni quotidiane, gli uomini albergano incuranti della realtà esterna, un oscuro abisso marino, allo stesso modo dei prigionieri della caverna platonica. La tranquillizzante ideologia del progresso, la rassicurante convinzione che l’attuale sia, se non il “migliore dei mondi possibili” quantomeno l’unico dei mondi possibili, contribuiscono a rafforzare questa prigione dalle sbarre dorate, la weberiana “gabbia d’acciaio”, in cui tutto è lecito fuorché una seria critica allo stato di cose esistente. È davvero singolare, infatti, che l’attuale sistema autoproclamatosi “democratico” non accetti alcuno stato di cose ad esso alternativo. Questa abnorme presunzione è un tratto tipico delle moderne società occidentali, che non possono riconoscere un modello alternativo a loro, pena il venir meno della loro stessa ragion d’essere, che è per definizione votata a ciò che potremmo definire una sorta di imperialistico messianesimo del mercato. Chi però attacca tale modello considerandolo come “materialista”, pur partendo da corretti presupposti, non centra realmente il bersaglio. L’occidente moderno, è qui un grosso equivoco, non è più materialista da ormai un pezzo, essendo ormai entrato in una fase realmente peggiore. Tale fase la si potrebbe definire “liquida”, dopo la “solidificazione” del mondo annunciata dal materialismo, che, innanzi tutto, va ritenuto un sintomo più che una causa di mutazioni di ordine più complesso. Il summenzionato film non è che un sintomo anch’esso di una situazione oramai quantomeno generalizzata. Nichilismo estremo, violento, portato alle estreme conseguenze, sottile e disperato. Questa è la materia di cui sono fatti gli incubi, diremmo noi, parafrasando Shakespeare. La mondanità qui arriva addirittura ad essere una sorta di gorgo, di vortice consumante, una specie di forno crematorio delle anime malate, per usare un’immagine un po’ forte, in cui, alla fine, non rimangono che resti indistinti e ammucchiati senza nome e senza volto. Se la fase materialistica della civiltà occidentale aveva come corollario la sterilizzazione spirituale e la desertificazione dell’immaginario collettivo, la “morte di Dio”, quest’ulteriore fase punta indiscutibilmente a distruggere ciò che rimane dell’uomo. Per questa ragione, essenzialmente, l’uomo ha abdicato ad ogni senso comunitario di responsabilità e appartenenza, a ogni vivere per qualcosa che non inizi e finisca nella soddisfazione perenne di appetiti mai sazi (cosa che ricorda da vicino l’idea greca del kyklos tes phthoras, ciclo della rovina, la pena di Sisifo) e si è rifugiato nella caverna dell’Ego, a celebrare il lugubre culto della sua stessa lenta autodistruzione. In ragione di tutto ciò non può che colpire profondamente in negativo l’associazione che sempre più sta prendendo piede nelle coscienze dei più tra “bellezza” e sprofondamento nichilistico, edonismo dell’istante. Secondo Dostoevskij la Bellezza (stavolta quella vera, con la b maiuscola) avrebbe salvato il mondo.

L’umanità può vivere senza la scienza, può vivere senza pane, ma soltanto senza la bellezza non potrebbe più vivere, perché non ci sarebbe più nulla da fare al mondo. Tutto il segreto è qui, tutta la storia è qui.

Se si vuol dar retta a Platone, che affermava, come precedentemente ricordato, che la Bellezza fosse lo splendore del vero, c’è davvero da credere a queste parole e sperare nel ritorno prossimo di una visione del mondo risanata, un “capovolgimento di tutti i valori” o meglio degli “antivalori” dei nostri tempi che paralizzano le potenzialità collettive e rendono sterile e vuoto l’agire umano. Chiudo pertanto con questa citazione di Benedetto XVI che credo possa riassumere al meglio la problematica:

Troppo spesso, però, la bellezza che viene propagandata è illusoria e mendace, superficiale e abbagliante fino allo stordimento e, invece di far uscire gli uomini da sé e aprirli ad orizzonti di vera libertà attirandoli verso l’alto, li imprigiona in se stessi e li rende ancor più schiavi, privi di speranza e di gioia. Si tratta di una seducente ma ipocrita bellezza, che ridesta la brama, la volontà di potere, di possesso, di sopraffazione sull’altro e che si trasforma, ben presto, nel suo contrario, assumendo i volti dell’oscenità, della trasgressione o della provocazione fine a se stessa. L’autentica bellezza, invece, schiude il cuore umano alla nostalgia, al desiderio profondo di conoscere, di amare, di andare verso l’Altro, verso l’Oltre da sé.