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Mordechai Vanunu, una storia che non vuole cadere nell’oblio

di Michele Giorgio - 25/04/2014

Fonte: Il Manifesto


Nucleare. Dieci anni fa veniva scarcerato il tecnico nucleare che rivelò al mondo la produzione segreta di bombe atomiche da parte di Israele. Oggi pochi ricordano un eccezionale atto di coraggio compiuto in nome della verità e della non proliferazione in Medio Oriente

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Quando Mor­de­chai Vanunu il 21 aprile 2004 lasciò dopo 18 anni la pri­gione di Shi­qma (Ash­qe­lon), 11 dei quali pas­sati in com­pleto iso­la­mento, trovò ad acco­glierlo un grup­petto di soste­ni­tori israe­liani. «Ghi­bor, Ghi­bor» (eroe), gli urla­vano. Per il resto di Israele invece Vanunu era sol­tanto un tra­di­tore, col­pe­vole di avere rive­lato nel 1986 al set­ti­ma­nale bri­tan­nico Sun­day Times i par­ti­co­lari della pro­du­zione mili­tare nucleare nella cen­trale ato­mica di Dimona (Neghev). A lui del giu­di­zio della mag­gio­ranza degli israe­liani non impor­tava più nulla da anni. Cami­cia bianca, cra­vatta, vali­getta, le dita che face­vano il segno della vit­to­ria, Vanunu cul­lava il pro­getto di diven­tare il sim­bolo della lotta con­tro l’atomica israe­liana e della non pro­li­fe­ra­zione in Medio Oriente. «Sono orgo­glioso di ciò che ho fatto», pro­clamò ad alta voce. Prima salire a bordo dell’auto che lo avrebbe por­tato a Geru­sa­lemme, Vanunu salutò con calore l’attrice bri­tan­nica Susan­nah York, atti­vi­sta no-nuke. «Mor­de­chai ha seguito la sua coscienza – disse York al mani­fe­sto — ha com­preso che doveva rive­lare che nel suo paese si pro­du­cono in segreto ordi­gni ato­mici. Tutti i paesi, quelli arabi e Israele, devono rinun­ciare alle armi di distru­zione di massa. Sono qui a salu­tare il suo ritorno alla vita».

Sono pas­sati dieci anni è Mor­de­chai Vanunu non è mai tor­nato alla vita. Non è ancora riu­scito ad otte­nere il per­messo per lasciare il Paese. Il tec­nico nucleare si aggira come un fan­ta­sma per le strade della zona araba (est) di Geru­sa­lemme dove vive dal giorno della sua scar­ce­ra­zione per affer­mare il rifiuto di tor­nare in Israele. Rara­mente capita di vederlo in com­pa­gnia di qual­cuno. Le restri­zioni gli impe­di­scono di rila­sciare inter­vi­ste alla stampa estera: le dispo­si­zioni pre­ve­dono l’espulsione imme­diata e per­ma­nente dal paese dei gior­na­li­sti stra­nieri che pro­ve­ranno ad inter­vi­starlo. Ma oggi sono ben pochi i repor­ter che hanno ancora inte­resse verso l’uomo che con corag­gio, pagando con 18 anni di car­cere duro, rivelò nel 1986 la pro­du­zione di ordi­gni ato­mici da parte di Israele in vio­la­zione della lega­lità inter­na­zio­nale. E con pas­sare degli anni l’ex tec­nico della cen­trale di Dimona nelle strade, tra la folla, diventa sem­pre più una per­sona qua­lun­que, uno sco­no­sciuto, pur avendo scritto un capi­tolo della sto­ria recente del Medio Oriente. Se le auto­rità israe­liane inten­de­vano farlo cadere nell’oblio, poco alla volta stanno rag­giun­gendo l’obiettivo.

Si tratta di una vicenda umana e poli­tica ecce­zio­nale che riguarda anche l’Italia. Pochi lo ricor­dano ma Vanunu fu rapito dal Mos­sad a Roma e ripor­tato in Israele dove è stato pro­ces­sato e con­dan­nato per “tra­di­mento”. L’Italia, tranne una timida richie­sta di spie­ga­zioni pre­sen­tata a Israele da Bet­tino Craxi, ha taciuto per quasi 30 anni. Vanunu, ebreo di ori­gine maroc­china, prima di for­marsi una coscienza poli­tica aveva svolto con dili­genza il suo lavoro di tec­nico nucleare nella cen­trale di Dimona, costruita uffi­cial­mente per pro­durre ener­gia elet­trica ma che l’attuale capo dello stato israe­liano Shi­mon Peres, con l’aiuto del padre dell’atomica fran­cese Fran­cis Per­rin, tra­sformò in un cen­tro segreto. Vanunu comin­ciò a riflet­tere su ciò che avve­niva a Dimona quando venne tra­sfe­rito nel Machon 2, un com­plesso di sei piani sot­ter­ra­nei della cen­trale ato­mica dove, secondo i dati rac­colti dal tec­nico nucleare, sono (o erano) pro­dotti annual­mente una qua­ran­tina di chi­lo­grammi di plu­to­nio. Quella e altre sco­perte, docu­men­tate con foto­gra­fie, lo con­vin­sero dell’importanza di rive­lare al mondo la pro­du­zione di ordi­gni ato­mici in Israele. Le sue domande ai diretti supe­riori da quel momento in poi diven­nero più incal­zanti, i suoi dubbi gene­ra­vano imba­razzo tra i col­le­ghi. Nel 1985 Vanunu fu costretto a dimet­tersi per «insta­bi­lità psi­chica» e partì per l’Australia dove poco dopo si sarebbe con­ver­tito al Cri­stia­ne­simo. E pro­prio dall’Australia per la prima volta si mise in con­tatto con il Sun­day Times. Giunto a Lon­dra nell’agosto del 1986, si recò al gior­nale rife­rendo per due intere set­ti­mane i suoi segreti. Il quo­ti­diano bri­tan­nico gli firmò un asse­gno da 300 mila dol­lari — mai incas­sato — ma esitò fino al 5 otto­bre a pub­bli­care il suo rac­conto. Vanunu, come nel più clas­sico dei film di James Bond, cadde in una trap­pola pre­pa­rata da una donna affa­sci­nante, Cindy, al secolo Che­ryl Ben Tov, un’agente del Mos­sad, per la quale perse la testa. Il seque­stro non avvenne a Lon­dra ma a Roma dove il tec­nico fu atti­rato da Cindy per un “wee­kend romantico”.

Fu ripor­tato in Israele con una nave il 7 otto­bre. Vanunu riap­parve solo per qual­che attimo a Geru­sa­lemme, durante il pro­cesso, quando con uno stra­ta­gemma — scri­vendo sul palmo della mano che mostrò ai foto­grafi fuori dall’aula — fece sapere di aver rag­giunto Roma il 30 set­tem­bre con il volo 504 della Bri­tish Air­ways e di essere stato là rapito. E dove ha ancora desi­de­rio di tor­nare per fare domande a coloro che in que­sti 28 anni hanno fatto finta di non sapere nulla.