L’estate è soprattutto il momento, specie nelle località di villeggiatura, in cui il “turista per caso” si ritrova, improvvisamente, coinvolto, in sagre e feste locali. Alle quali il villeggiante partecipa, felice di poter recuperare un mondo che credeva scomparso per sempre. Come ogni buon cittadino...
Il problema è tuttavia più complicato di quel che possa sembrare. E merita di essere approfondito.
Oggi discutere di tradizioni e feste popolari, pur essendo importante in un mondo sempre più clone di se stesso, porta purtroppo con sé il rischio di suscitare un vespaio. Per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché le tradizioni e le feste popolari, così come ora le intendiamo, sono un lascito del romanticismo ottocentesco: la “reinvenzione” di un passato idealizzato. I romantici, insomma, hanno scoperto per primi e imposto il culto delle radici. Una scoperta che in seguito, come spiccato senso di una comunità di lingua, costumi e tradizioni, vivificherà i cosiddetti risorgimenti nazionali. Grandi rivolgimenti politici che tuttavia - ecco il rovescio della medaglia - riprendono e sviluppano, su scala più piccola, quella dello Stato Nazione, il cammino accentratore dello Stato moderno. Che, una volta consolidatosi distinguerà fra tradizioni buone e cattive: nazionali antinazionali.
In secondo luogo, su questo inquietante “distinguo”, si è poi abbattuto nel Novecento, il ciclone dei totalitarismi (incluso il comunismo nazionalistico di Stalin). Che trasformerà le diverse tradizioni nazionali, in “serbatoi razziali”, puntando su un’esplosiva miscela di romanticismo e positivismo come nel caso del nazionalsocialismo, dove però il determinismo biologico soppianta persino la costruzione culturale. Tuttavia anche lo stato totalitario cercherà di privilegiare, sempre nel senso romantico dell’invenzione, le tradizioni e celebrazioni popolari in sintonia coi suoi principi.
Ecco dunque il problema: l’incendiaria triangolazione tra romanticismo, nazionalismo e totalitarismo ha travolto tutto. Fino al punto di far diventare per reazione i concetti di radici, identità e tradizioni popolari politicamente scorretti. Ovviamente, poiché il senso di appartenenza, come abbiamo visto non è stato - attenzione - inventato ma reinventato dai romantici, si è cercato nel secondo dopoguerra di attribuire alle feste popolari un carattere, come dire, “democratico” in linea con le ragioni ludico-turistiche ed economiche del nouveau régime politico. Si è tentato di appagare, ma in modo innocuo o “sublimato”, quei bisogni di appartenenza e di gioco innati nell’uomo.
E con ottimi risultati, visto che oggi resta complicato, e non solo in Occidente, rifarsi a tradizioni popolari autentiche, a parte quelle ancora esistenti in sperduti paesini scozzesi, bretoni, portoghesi, o comunque non lambiti dalla globalizzazione economico-turistica. E soprattutto ritrovare quelle che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato consuetudini: vecchi modi di agire e comunicare ancora vitali da secoli, se non da millenni. Detto in breve: la tradizione reinventata è una teoria “letteraria”, la consuetudine una pratica quotidiana. La prima viene “inculcata” dall’alto, la seconda “trasmessa” dal basso.
Purtroppo oggi grandi feste popolari come i Ceri di Gubbio o la Corsa dei Tori di Pamplona sono diventate eventi turistici. Dove, certo non manca il popolo, ma è del tutto assente qualsiasi riferimento identitario alle radici guerriere, religiose e ludiche delle celebrazioni. Un altro esempio può essere dato da certe kermesse come quella della Taranta, tenutasi la scorsa estate a Melpignano in provincia di Lecce. Con l’antichissima cerimonia della “pizzica”, la musica dei tamburelli che scandiva ossessivamente l’antico rituale precristiano di cura dal morso, non sempre immaginario della tarantola (la Taranta) trasformata in una specie di concerto rock, all’insegna dell’universalismo politicamente corretto, con De Gregori, Pelù e troupe televisive straniere al seguito. Ma la lista degli eventi “taroccati” potrebbe essere ancora più lunga.
Fine delle feste e delle tradizioni popolari? Il pericolo è grande. Così come è notevole, visto che si tratta di una situazione sociologica border line, il rischio del contraccolpo: della rinascita per reazione di un localismo esasperato, (ri)fondato su cerimonie e feste popolari “reinventate” di sana pianta. Valga come esempio, il rito della celebre ampolla, con le acque del Dio Po, levata solennemente verso l’alto da Bossi, come segno di una ritrovata quanto improbabile padanità …
E tra i due pericoli è difficile indicare il peggiore.
Il problema è tuttavia più complicato di quel che possa sembrare. E merita di essere approfondito.
Oggi discutere di tradizioni e feste popolari, pur essendo importante in un mondo sempre più clone di se stesso, porta purtroppo con sé il rischio di suscitare un vespaio. Per almeno due ragioni.
In primo luogo, perché le tradizioni e le feste popolari, così come ora le intendiamo, sono un lascito del romanticismo ottocentesco: la “reinvenzione” di un passato idealizzato. I romantici, insomma, hanno scoperto per primi e imposto il culto delle radici. Una scoperta che in seguito, come spiccato senso di una comunità di lingua, costumi e tradizioni, vivificherà i cosiddetti risorgimenti nazionali. Grandi rivolgimenti politici che tuttavia - ecco il rovescio della medaglia - riprendono e sviluppano, su scala più piccola, quella dello Stato Nazione, il cammino accentratore dello Stato moderno. Che, una volta consolidatosi distinguerà fra tradizioni buone e cattive: nazionali antinazionali.
In secondo luogo, su questo inquietante “distinguo”, si è poi abbattuto nel Novecento, il ciclone dei totalitarismi (incluso il comunismo nazionalistico di Stalin). Che trasformerà le diverse tradizioni nazionali, in “serbatoi razziali”, puntando su un’esplosiva miscela di romanticismo e positivismo come nel caso del nazionalsocialismo, dove però il determinismo biologico soppianta persino la costruzione culturale. Tuttavia anche lo stato totalitario cercherà di privilegiare, sempre nel senso romantico dell’invenzione, le tradizioni e celebrazioni popolari in sintonia coi suoi principi.
Ecco dunque il problema: l’incendiaria triangolazione tra romanticismo, nazionalismo e totalitarismo ha travolto tutto. Fino al punto di far diventare per reazione i concetti di radici, identità e tradizioni popolari politicamente scorretti. Ovviamente, poiché il senso di appartenenza, come abbiamo visto non è stato - attenzione - inventato ma reinventato dai romantici, si è cercato nel secondo dopoguerra di attribuire alle feste popolari un carattere, come dire, “democratico” in linea con le ragioni ludico-turistiche ed economiche del nouveau régime politico. Si è tentato di appagare, ma in modo innocuo o “sublimato”, quei bisogni di appartenenza e di gioco innati nell’uomo.
E con ottimi risultati, visto che oggi resta complicato, e non solo in Occidente, rifarsi a tradizioni popolari autentiche, a parte quelle ancora esistenti in sperduti paesini scozzesi, bretoni, portoghesi, o comunque non lambiti dalla globalizzazione economico-turistica. E soprattutto ritrovare quelle che lo storico Eric Hobsbawm ha chiamato consuetudini: vecchi modi di agire e comunicare ancora vitali da secoli, se non da millenni. Detto in breve: la tradizione reinventata è una teoria “letteraria”, la consuetudine una pratica quotidiana. La prima viene “inculcata” dall’alto, la seconda “trasmessa” dal basso.
Purtroppo oggi grandi feste popolari come i Ceri di Gubbio o la Corsa dei Tori di Pamplona sono diventate eventi turistici. Dove, certo non manca il popolo, ma è del tutto assente qualsiasi riferimento identitario alle radici guerriere, religiose e ludiche delle celebrazioni. Un altro esempio può essere dato da certe kermesse come quella della Taranta, tenutasi la scorsa estate a Melpignano in provincia di Lecce. Con l’antichissima cerimonia della “pizzica”, la musica dei tamburelli che scandiva ossessivamente l’antico rituale precristiano di cura dal morso, non sempre immaginario della tarantola (la Taranta) trasformata in una specie di concerto rock, all’insegna dell’universalismo politicamente corretto, con De Gregori, Pelù e troupe televisive straniere al seguito. Ma la lista degli eventi “taroccati” potrebbe essere ancora più lunga.
Fine delle feste e delle tradizioni popolari? Il pericolo è grande. Così come è notevole, visto che si tratta di una situazione sociologica border line, il rischio del contraccolpo: della rinascita per reazione di un localismo esasperato, (ri)fondato su cerimonie e feste popolari “reinventate” di sana pianta. Valga come esempio, il rito della celebre ampolla, con le acque del Dio Po, levata solennemente verso l’alto da Bossi, come segno di una ritrovata quanto improbabile padanità …
E tra i due pericoli è difficile indicare il peggiore.