Se tutta la conoscenza viene solo dall’esperienza, cosa distingue la realtà dalla parvenza?
di Francesco Lamendola - 14/05/2014
Fonte: Arianna editrice
Il matematico, scienziato e filosofo Johann Heinrich Lambert (1728-1777), autodidatta, discepolo ideale di Leibniz, Locke, Christian Wolff, è stato un tipico esponente del pensiero illuminista: convinto che bisognasse rifondare la filosofia su basi rigorosamente matematiche, si affaticò a determinare la assoluta oggettività e dimostrabilità dei concetti semplici, sì da pervenire a delle conclusioni speculative che sfuggano a tutti quegli alti e bassi di tipo soggettivistico, che rendono così incerto il progresso del pensiero. Né a lui, né a quelli come lui, evidentemente, è mai venuto in mente che non sia possibile alcun progresso del pensiero, per il semplice fatto che il pensiero non ha da “progredire”, ma, piuttosto, da focalizzare bene la sua prospettiva. Le scienze progrediscono, perché si basano sull’accumulo dei dati, sempre più esatti, derivanti dall’esperienza e dalla formulazione di teorie atte a spiegare i fenomeni della natura; ma la filosofia è un’altra cosa: non si fonda sui dati dell’esperienza, ma li trascende, né ha come obiettivo la spiegazione dei fatti naturali, bensì la comprensione del reale che si cela dietro le apparenze del dato sensibile.
Il tipo di approccio lambertiano alla rifondazione del sapere filosofico presuppone una approfondita “fenomenologia”, intesa come lo studio delle possibili fonti di errore insite nelle varie forme di “apparenza”: perché Lambert riconosce che il dato sensibile, fornito dall’esperienza immediata, non è che “parvenza”, per adoperare il suo linguaggio. Per lui, però, il filosofo non si può accontentare del “fenomeno”, deve penetrare oltre di esso, verso la cosa in sé, verso il “noumeno” (per usare, questa volta, il linguaggio del criticismo kantiano). Potrebbe sembrare, a questo punto, che Lambert si diriga nuovamente verso l’aborrita metafisica (aborrita dal pensiero illuminista), ma non è così: la cosa in sé di cui va in cerca, in effetti, lo interessa meno della strada necessaria per arrivarci; per cui egli dispiega il meglio delle sue energie a tracciare le linee di una “semiotica” universalmente valida, ossia di un complesso di segni precisi, non sottostanti a interpretazioni opinabili e soggettive, dalla cui “combinazione” scaturisce la verità – o la falsità – dei giudizi. Di qui il suo particolare interesse per la filosofia del linguaggio, che ne fa un precursore – o, come sarebbe meglio dire, che fa di lui una bandiera per certi pensatori moderni - delle successive filosofie del linguaggio ; e, in particolare, per la definizione dei concetti semplici, come l’estensione, la solidità, l’esistenza e la durata, sì da sottrarre la filosofia alle incertezze e a tutti i possibili equivoci e fraintendimenti di una ermeneutica approssimativa. Dalla ”ars combinatoria” di Leibniz alla filosofia del linguaggio di Wittgenstein: così, passando per la fenomenologia e la semiotica di Lambert, il cerchio si chiude.
Di speciale interesse a noi sembrano gli sforzi profusi da J. H. Lambert per definire, in un quadro concettuale ispirato alla massima chiarezza e linearità, le caratteristiche di una “fenomenologia” nel senso sopra indicato; sforzi che così la studiosa Maria Dello Preite sintetizza nel suo libro «L’immagine scientifica del mondo dio Johann Heinrich Lambert» (Bari, Dedalo Libri, 1979, pp. 146-53):
«[Nel pensiero di Lambert] l’aspetto primario della esperienza è costituito dalla condizione della parvenza (Schein), nel quale con concetto il nostro filosofo intende la neutralità del mondo dei fenomeni nell’anteriorità della distinzione tra errore e verità: “Noi non dobbiamo contrapporre soltanto il vero al falso, ma, nella nostra conoscenza, tra questi due estremi si trova anche qualcosa di intermedio, che noi chiamo PARVENZA”. […]
La nozione di PARVENZA è derivata dalla teoria della visione, ma designa la condizione generale di relazione tra uomo e mondo, tra soggetto ed oggetto; essa qualifica il mondo delle IMPRESSIONI che evidentemente rappresentano una condizione necessaria del conoscere, ma nello stesso tempo possono divenire causa e origine di conclusioni errate o illusorie. La parvenza è dunque la “conditio sine qua non” per l’espressione di giudizi di realtà: ”ogni… parvenza assunta come reale non esiste affatto per sé, e con ciò mostreremo che non può essere assunta come reale, ma il reale, o ciò che la cosa è in sé, deve essere soltanto ricavato da essa”. Il reale ci è accessibile in definitiva solo attraverso la parvenza. Sarà quindi esigenza della conoscenza scientifica di redigerne il linguaggio e le norme proponendo una PROSPETTIVA TRASCENDENTE. La scienza filosofica, che deve precedere ogni tipo di ricerca scientifica, la FENOMENOLOGIA, assume l’aspetto di una OTTICA TRASCENDENTE, estendendo la condizione di esperienza della visione alla complessità dell’esperienza sensibile. […]
La parvenza sensibile è base e condizione della conoscenza anche la più astratta. È chuiaro che l’esigenza di un conoscere che sia non solo in contraddittorio, formalmente ineccepibile, ma che verifichi anche la verità concreta delle sue asserzioni, ha bisogno di garantirsi dalle illusioni dei sensi. La condizione dell’esperienza comune è sempre quella della parvenza. Il vero va quindi attivamente ricercato; tuttavia senza parvenza non sarebbe neanche possibile il conoscere. La parvenza sensibile rende conoscibili i corpi, permette l’orientamento nella vita comune e inoltre offre i concetti per sé pensabili, divenendo quindi la condizione occasionale dei concetti orini e perciò dell’alfabeto fondamentale della realtà che permette di costruire il linguaggio vero. […]
Due principi servono principalmente alla prima elaborazione della parvenza: 1) “sorge una medesima sensazione, se proprio questo senso riceve la medesima impressione”; 2) l’isocronismo. Il primo assioma è un criterio per esaminare e confrontare le sensazioni secondo la loro gradualità. Il confronto dei gradi sensazione permette un primo rilievo delle anomalie del linguaggio della parvenza e quindi di evidenziare i primi segni della mera parvenza. Il secondo principio, tratto dalla nozione astronomica di paralasse, afferma che appartiene al soggetto la causa del mutamento che si estende nello stesso tempo ad un gran numero di oggetti. Il criterio primo, però, che permette di definire il reale, è quello del MUTAMENTO (Veränderung): se si verifica un mutamento nella parvenza infatti, esso è sempre segno di un mutamento nella realtà, sebbene poi rimanga noin ulteriormente definito riguardo al luogo della sua origine poiché, come sappiamo, la parvenza sensibile è complessa nelle sue fonti.[…]
Ma per il problema del vero contro l’illusione interessano evidentemente quei segni che sono per sé segno della realtà, e l’espressione SEGNO è introdotta nella pienezza del significato semiotico. ESTENSIONE, SOLIDITÀ E MOTILITÀ sono questi segni: essi sono i concetti estensibili a tutti i corpi e nessun corpo può essere pensato prescindendo da essi. Con loro si costituiscono le unità semiotiche con cui è scritto il vero linguaggio fisico. […] Ma il nostri filosofo non dimentica la condizione di relazione in cui il percepire ha pur sempre luogo. Il linguaggio vero non coincide perfettamente con la fonte oggettiva della parvenza, la fonte soggettiva vi svolge sempre un ruolo; ciò può voler anche indicare un limite innato nelle condizioni del percepire stesso. Perciò tra linguaggio della parvenza vera e e linguaggio fisico si stabilisce un rapporto di omonimia, ma non d’identità. […]
[Tuttavia] di fronte ai meccanismi impercettibili, come pure all’uso linguistico di concetti il cui meccanismo ci è noto, noi rimaniamo legati alla parvenza. Altro limite è il fatto che l’accertamento della realtà dei concetti dovrebbe essere legata alla possibilità di ricostruire il modo in cui l’azione di un oggetto sui sensi diviene immagine dell’oggetto per un soggetto. Il vero dei concetti è dato come sappiamo dal loro essere pensabili e possibili in sé; ma evidentemente anche nel caso in cui il concetto non è meramente apparente, e si trascura però di esaminarne le lacune e le possibili contraddizioni, il concetto rimane solo apparente, ovvero esatto solo secondo la parvenza. Lambert per la verità ritiene che le forze dell’intelletto e della ragione NON SIANO FONTE DI PARVENZA, “perché sono esse che penetrano attraverso i qualsiasi illusione della parvenza, e poiché in realtà si hanno intelletto e ragione nella misura in cui si pensa e si argomenta con esattezza e correttezza”. La difficoltà risorge al livello dei concetti fondamentali quali sono certamente per sé pensabili ma, proprio in ragione di quanto di empirico in essi rimane, si ripropone la questione decisiva: parvenza o realtà?»
Gira e rigira, quando si parte da una siffatta impostazione empiristica e “positiva” del fatto conoscitivo, si torna sempre allo stesso punto: se tutta la conoscenza viene solo dall’esperienza e se è sufficiente verificare la non contraddittorietà e la pensabilità degli enunciati, chi o che cosa potrà mai garantirci che la realtà sia qualcosa di distinto e di fondamentalmente diverso dalla mera apparenza – o parvenza, come preferisce chiamarla Lambert? Chi o che cosa potrà garantirci che le cose esperite nella veglia siano di natura essenzialmente diversa da quelle che vengono esperite nel sogno, nell’allucinazione, nella visione mistica e così via?
I due capisaldi d’un tale realismo filosofico di matrice razionalista sono, infatti, che una cosa sia pensabile e che ci appaia con evidenza. Eppure una cosa può essere pensabile e in se stessa non contraddittoria, e tuttavia non esistere, o anche non esistere nella maniera in cui ci si offre mediante i sensi. Questi ultimi, a loro volta, non offrono alcuna garanzia circa la verità intrinseca della cosa: tutto quel che di essa ci dicono, ce lo dicono in maniera riflessa, all’interno del nostro processo conoscitivo e non in virtù di una sostanza oggettiva che faccia loro da substrato.
Si racconta che una volta, mentre Bertrand Russell affermava, durante una lezione: «In questa stanza non vi sono rinoceronti», il suo allievo (ben più profondo) Ludwig Wittgenstein si chinasse sotto il banco a sbirciare più volte, intensamente e significativamente. L’affermazione del maestro era, infatti, perfettamente logica, ma non per ciò stesso doveva considerarsi vera: logicità e verità non sono sinonimi. Nello steso tempo, si deve ricordare anche la possibilità contraria: che una cosa appaia vera, in quanto cade sotto l’evidenza dei nostri sensi, ma in realtà non lo sia. Il Sole sembra sorgere, culminare e tramontare nel cielo: noi sappiamo, però, che tale movimento è frutto di apparenza, perché non è il Sole a muoversi, ma la Terra, la quale, girando su se stessa con il moto di rotazione, produce una simile illusione.
Lambert, dunque, sembra andare a cacciarsi da se stesso in un vicolo cieco: da un lato si dice consapevole della differenza che corre fra cosa e apparenza, fra razionalità e realtà, fra possibilità ed esistenza; dall’altro finisce per cadere nel più vieto dei pregiudizi illuministi, ossia che la ragione, in se stessa, non sia fonte di parvenza, ma solo di certezza. La parvenza, dunque, sarebbe tutta nelle cose, negli oggetti: ammettiamolo per un momento, per puro amore d’ipotesi. Ma non è forse un fatto, un fatto oggettivo e assolutamente incontrovertibile, che ciascuno di noi è non solo soggetto di conoscenza, ma anche oggetto di conoscenza per tutti gli altri enti capaci di pensare e di osservare? E dunque: come può la nostra ragione garantirci contro la parvenza, ossia contro l’inattendibilità del conoscere, se quella stessa ragione fa sì che noi, proprio noi, IN QUANTO DOTATI DI RAGIONE, siamo, per gli altri, oggetto di mera parvenza e, dunque, mistero, vale a dire il contrario della certezza e della verità gnoseologica? Come è possibile che una cosa sia, nello stesso tempo, oggetto (di parvenza) e soggetto (di conoscenza certa e vera)?
Eppure, se Lambert fosse coerente con le sue premesse, dovrebbe ammettere che noi nulla possiamo dire di certo circa l’esistenza di “altri “ soggetti, perché tutto quel che possiamo dire nasce e finisce con noi, con la nostra ragione e con il nostro intelletto. Dovrebbe, cioè – con Berkeley – ammettere che l’unico essere che a noi sia dato, è l’essere in quanto viene percepito, l’essere in quanto oggetto della percezione, che è nostra e soltanto nostra. E dovrebbe pure, con Hegel, giungere alla conclusione che non esistono differenti soggetti pensanti, ma un unico Pensiero che pensa la realtà e, pensandola, la determina e la modifica incessantemente. Singolare capovolgimento delle premesse e nemesi inevitabile di tutte le arroganti filosofie illuministe: per esse, infatti, in ultima analisi non è la realtà a determinare il pensiero, le sue condizioni, i suoi criteri di giudizio sulla verità e sulla falsità delle cose; ma è il pensiero a creare la realtà, a dare forma all’esistente, a fare del mondo quello che è.
Inevitabile conclusione, date le premesse: che tutta la conoscenza derivi dall’esperienza e che la ragione non possa ingannarsi, una volta fissato un metodo di ragionamento oggettivo, di tipo matematico. Dunque, le premesse sono sbagliate. Dunque, le filosofie illuministe sono un inganno...