L'origine di uno stato non determina affatto il suo destino. Accade dunque che l'accumularsi degli avvenimenti, le decisioni prese (o eluse), il gioco degli interessi e delle ideologie finiscano col definire una sorta di tragica fatalità. È allora necessario un prodigioso sforzo di immaginazione per trovare un'altra uscita che non sia quella della catastrofe. Lo stato di Israele è stato generato da due movimenti nati nel XIX secolo e portati al loro estremo nel XX: il nazionalismo - da cui partiva il sionismo iniziale, cioè il progetto di una parte delle popolazioni ebree oppresse nell'Europa centrale e orientale - e il colonialismo europeo grazie al quale è stato possibile piazzare in Palestina una comunità di pionieri che combinavano l'utopia socialista col sogno messianico del «ritorno» sulla terra della Bibbia. La dichiarazione Balfour del 1917 che prometteva l'insediamento in Palestina di un «focolare nazionale per il popolo ebreo», fu un momento del «grande gioco» inglese nel Medioriente che la direzione sionista seppe utilizzare ai propri fini.
La seconda guerra mondiale scaricò in Palestina centinaia di migliaia di sopravvissuti allo sterminio nazista, il che conferì allo stato d'Israele una nuova legittimità morale e un riconoscimento internazionale pressoché unanime. Ma lo stato che, nonostante la sua forte minoranza araba si proclamò «stato ebreo» e si diede la missione di riunire il più grande numero possibile di ebrei del mondo intero nacque nella guerra e anche nel terrorismo. Ciò derivava dall'ostilità irriducibile degli stati arabi, il cui nazionalismo li obbligava a rifiutare a ogni costo il suo insediamento in Palestina e contemporaneamente dalla simmetrica intenzione d'Israele di espellere la popolazione araba autoctona. Le parole più tardi attribuite a Golda Meir: «Una terra senza popolo per un popolo senza terra» - in totale contraddizione con la realtà -, conteneva in germe la catastrofe attuale. Le guerre difensive e offensive dagli anni '50 agli anni '90 hanno comportato una profonda militarizzazione della vita sociale e del personale politico di Israele. Benché possegga una dei più potenti eserciti del mondo, lo stato di Israele presenta ogni conflitto con i suoi vicini come questione di vita o di morte e, utilizzando la memoria della Shoah mette al silenzio le critiche delle comunità ebree nel mondo e si attribuisce nelle relazioni internazionali un «diritto speciale», correndo così il rischio di minare uno dei fondamenti della sua legittimità.
Quanto agli accordi di Oslo, che davano forma all'Autorità palestinese e prefiguravano la costituzione di due stati sull'antico territorio mandatario questi accordi non hanno portato a un'inversione della logica di confronto fino ad allora dominante. Questi accordi servirono ad accelerare la colonizzazione, rafforzare il fatto compiuto e appaiono retrospettivamente come un momento tattico nella conquista del Grande Israele. Certamente la direzione dell'Olp non è stata esente di doppiezza ed è solo nel 1998 che gli articoli della sua Carta fondativa che rivendicavano la distruzione d'Israele sono stati abrogati; e da parte sua Itzhac Rabin ha pagato con la vita la sua speranza di trattare l'avversario su un piede di parità. Ma i fatti vanno massicciamente - con tutti i governi - nel senso di uno sviluppo delle caratteristiche coloniali dello stato d'Israele. Se Israele è riuscito a dare alla maggioranza dei suoi cittadini la democrazia politica e un invidiabile progresso economico e culturale (grazie anche a un forte aiuto americano) tuttavia ha istituito sui diversi territori che controlla una forma di apartheid: confinamento delle popolazioni dominate, controllo delle loro risorse materiali, distruzione progressiva delle loro istituzioni, violenza mortale contro le loro azioni di resistenza, anche non violente.
Chi pratica il terrore di massa
Possiamo noi dunque giudicare le forme prese dalle rivendicazioni di indipendenza dei palestinesi e in particolare del terrorismo, senza tenere conto della schiacciante sproporzione nel rapporto di forze? Noi riteniamo con buona parte della società civile palestinese, che gli attentati suicidi che hanno caratterizzato la seconda Intifada sono forme di azione moralmente ingiustificabili, distruttrici e controproducenti; ma quelli che praticano essi stessi il terrore di massa, con mezzi superiori, non ci sembrano nelle buone condizioni per denunciare.
La nazione palestinese è oggi un fatto che non può essere cancellato. Oppressa non può sopravvivere se non alimentando la speranza di una sua riunificazione e resistendo. Attualmente è divisa secondo gli stati giuridici e gli interessi materiali delle sue tre componenti: gli arabi israeliani dotati del diritto di voto e di una parte dei diritti civili ma socialmente e simbolicamente discriminati; gli abitanti di Gaza, della Cisgiordania e di Gerusalemme est sottoposti a forme diverse di segregazione, occupazione e controllo; infine i rifugiati nei campi del Medioriente e la diaspora. Questa nazione è ancora lacerata tra le identificazioni collettive derivanti dal nazionalismo laico per una parte di loro e dal populismo religioso per un'altra parte. È dunque particolarmente notevole che i palestinesi fino ad oggi siano abbastanza riusciti a limitare i loro conflitti interni. Lo testimonia l'accordo recentemente concluso tra il movimento della resistenza islamica (Hamas) e l'Autorità palestinese sulla base del «Documento dei prigionieri».
I palestinesi fanno indiscutibilmente parte del «mondo arabo»; è da questo innanzitutto che essi si attendono una solidarietà materiale e politica ma è anche da questo che gli sono venuti i colpi più duri. La causa palestinese è stata strumentalizzata dagli stati arabi a volte verso l'interno come compenso alla collera popolare suscitata dalla corruzione, dall'assenza di libertà, dall'ingiustizia sociale e verso l'esterno come una carta da giocare tra loro stati arabi o con le grandi potenze. Ed è per questo che l'indipendenza delle organizzazioni palestinesi è stata sempre precaria. Più grande oggi di ieri potrebbe nuovamente ridursi se le lotte antimperialiste del Medioriente confluissero nella sola ideologia religiosa e se la repressione riuscisse ad espellere le loro direzioni da Gaza e dai Territori. I palestinesi hanno degli interessi alla scomparsa dello stato d'Israele? Sì, senza dubbio, come ogni popolo oppresso ha interesse alla scomparsa dei suoi oppressori, ma una tale scomparsa necessariamente sanguinosissima non risolverebbe i problemi della nazione palestinese. L'esistenza e lo sviluppo d'Israele hanno cancellato quel che era l'antica Palestina e hanno rivoluzionato l'economia della regione contribuendo a uno sviluppo capitalistico del quale i palestinesi sono al tempo stesso esclusi e dipendenti. C'è proprio da scommettere e molto che questa dipendenza si trasferirebbe in un'altra, nei confronti degli stati arabi petrolieri e/o militarizzati.
Ciò dunque di cui i palestinesi hanno bisogno non è tanto la scomparsa quanto la metamorfosi di Israele. Tutto ciò implicherebbe una radicale decolonizzazione, una rinuncia all'abuso della forza, una riforma morale della nazione israeliana e della sua coscienza storica in modo da inventare per i due popoli che vivono oggi in Palestina forme costituzionali inedite di complementarietà sotto la garanzia di un'effettiva autorità internazionale. Da questa prospettiva, noi oggi siamo più lontani che mai, sembra addirittura che la situazione scivoli verso l'irrimediabile, tutto questo nasce dal fatto che la specificità del problema israelo-palestinese è in via di entrare in un conflitto di più vaste proporzioni, dai contorni ancora confusi ma di violenza crescente e sempre meno controllabile dai propri attori: gli Stati uniti e i loro diversi alleati da una parte; gli stati antiamericani e i movimenti «fondamentalisti» islamici dall'altra. Da qui l'idea di molti che bisognerebbe «regolare d'urgenza» il problema israelo-palestinese per disinnescare lo «scontro di civiltà» che si annuncia.
Un oceano di rovine e diffidenza
L'esportazione della «democrazia» secondo il modello e l'uso dell'Occidente e la definizione con la forza di un «nuovo Medioriente» non sono fantasie neoconservatrici ma fantasie di morte. Prendendo a pretesto gli attentati dell'11 settembre, gli interventi voluti dall'amministrazione Bush non sono riusciti ad altro che a trasformare l'Afghanistan e l'Iraq in focolai permanenti di guerra e terrorismo. Gli avversari degli Stati uniti non sono da meno. Rendendosi conto delle crescenti difficoltà nelle quali si scontra l'antica superpotenza essi cercano di moltiplicare i punti di scontro per avanzare, chi verso la restaurazione del califfato chi verso il dominio del Medioriente. Chi non vede che le retoriche di Bush e di Ahmadinejad sono l'una lo specchio dell'altra?
Entro un certo tempo gli Stati uniti vedranno il fallimento della loro impresa neo-imperiale, ma si ritireranno lasciando dietro di loro un oceano di rovine, di diffidenza, di odio. Israele non potrà sopravvivere se non mantenendo i propri cittadini in stato di mobilitazione permanente, moltiplicando le fortificazioni all'interno, le zone tampone e le operazioni di dissuasione massiccia contro gli stati della regione, forse anche con l'uso del nucleare.
Tutto ciò duererà dieci, venti o cinquant'anni prima del crollo, ma nell'intervallo è probabile anche che le nazioni palestinese e libanese avranno subito un colpo irreversibile. L'ingranaggio è implacabile ed è ora che la partita si gioca. Davanti all'accentuazione del militarismo israeliano che risponde alle azioni partigiane e ad episodi di terrorismo con veri e propri crimini di guerra, l'Europa non ha dato prova di condiscendenza. È necessario che l'Europa metta in campo tutti i mezzi di pressione e di convinzione di cui dispone, ivi compresi la sospensione temporanea degli accordi privilegiati che la legano a Israele, fino a quando non ci sarà la ritirata dai territori occupati nel 1967. L'Europa deve ripudiare l'unanimismo e se è il caso contrastare la volontà e le manovre di certi governi infeudati agli Stati uniti.
Bisogna soprattutto che l'Europa reimpianti la politica internazionale sul terreno del diritto. Il che vuol dire: riconoscere i rappresentanti eletti dal popolo palestinese e reclamare l'applicazione di tutte le risoluzioni delle Nazioni unite, passando se è il caso anche attraverso l'Assemblea generale.
Bisogna infine che l'Europa contribuisca all'attivazione di uno spazio mediterraneo di cooperazione e di negoziato. Gli Stati uniti, la Russia o l'Iran potranno averci un posto di osservatori, ma i suoi membri naturali sono quelli che si affacciano sul mare comune e che ne hanno fatto la storia. Questo consiglio regionale permanente non garantirà di certo automaticamente la pace ma è il solo antidoto alla logica dello scontro di civiltà in grado di far arretrare l'integralismo al tempo stesso che il razzismo post-coloniale, l'antisemitismo e l'islamofobia.
La costituzione di uno spazio politico mediterraneo darebbe a Israele la possibilità di sottrarsi alla dipendenza esclusiva nei confronti degli Stati uniti; gli offrirebbe una sicurezza negoziata in cambio della sua mutazione storica. Simmetricamente permetterebbe ai palestinesi e ai libanesi di sfuggire a una relazione soffocante con il solo mondo arabo e ridarebbe loro fiducia negli strumenti del diritto per far trionfare le loro rivendicazioni di uguaglianza, indipendenza e di giustizia. Quando noi diciamo «bisogna» è chiaro che si deve dire «bisognerebbe». Per poco che si voglia evitare il peggio. Ma lo si vuole veramente? L'interrogativo è posto non soltanto ai governi ma a tutti.
Etienne Balibar * Jean-Marc Lévy-Leblond ** * Filosofo ** Fisico
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