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La piaga dello spreco alimentare

di Simona Bottoni - Francesco Giappichini - 18/08/2014

Fonte: Lettera 43


 

Siamo orgogliosi che l’appello di circa tre mesi fa abbia avuto risposta, e la nostra testata possa offrire le risposte più complete – e soprattutto attuali – ai dubbi più comuni in tema di sicurezza alimentare.  Nel mondo, e in particolare nell’Area latinoamericana. L’Expo di Milano 2015 – intitolato “Nutrire il pianeta – Energia per la vita” – si avvicina, e è più stimolante giungervi preparati. Ha soddisfatto la nostra invocazione uno dei più autorevoli think tank italiani, il quale si occupa principalmente di politica estera e affari internazionali.

Vi invitiamo quindi a leggere le approfondite risposte di Simona Bottoni, latinoamericanista, ricercatrice associata dell'Istituto di alti studi in geopolitica e scienze ausiliarie (Isag), dove fa parte del Programma di ricerca «America latina». L’intervista sarà pubblicata in sei puntate (erano sei le nostre domande): a partire da oggi, e con cadenza bisettimanale. Nel presente articolo l’esperto ci indica quali sono, e dove sono situale, le aree più a rischio.  

 

Limitandoci a parlare della Regione latinoamericana, quali sono le aree con maggiore criticità, in quanto a sicurezza alimentare? Un'osservazione forse superficiale ci fa pensare che la fame sia diffusa un po' a macchia di leopardo; questo risponde al vero? Più nello specifico, crede che i maggiori rischi di approvvigionamento alimentare riguardino i centri urbani, oppure le campagne?

«Secondo le stime della Fao, la fame colpisce circa 840 milioni di persone nel mondo, quarantasette milioni nell’America latina e nei Caraibi. Ciò comporta che l’8,3 per cento della popolazione della regione non assume giornalmente le calorie necessarie per condurre una vita sana. Su scala mondiale, in un ventennio, circa 160 milioni di persone non soffrono più la fame nel mondo, considerato che siamo passati da circa mille di persone nel 1990-1992 a 840 nel 2012-2013, che rappresenta un importante passo avanti sulla strada della riduzione della fame.

La fame in America latina non è diffusa a macchia di leopardo, ma concentrata in particolar modo nei Paesi centroamericani e del Caribe, ed in alcuni Paesi del Cono sud: Haiti (col 44,5 per cento della popolazione), Guatemala (30,4 per cento), Paraguay (25,5 per cento) Bolivia (24,1 per cento), e Nicaragua (20,1 per cento), ed anche il Perú, l’Ecuador e la Colombia. Questi dati ci fanno comprendere che si tratta di un fenomeno complesso ed esteso in tutta la regione. Alcuni paesi come Cuba, l’Argentina, il Cile, il Messico, l’Uruguay ed il Venezuela sono riusciti a sradicare il flagello della fame. Molti paesi hanno ridotto la percentuale di popolazione colpita da denutrizione o sottonutrizione, tra i quali il Brasile, dove la fame è fortemente diminuita nell’ultimo decennio.

Nella maggior parte dei casi l’insicurezza alimentare è conseguenza ed allo stesso tempo causa della povertà della popolazione. In questo senso la povertà può essere indicativa dell’esistenza di problemi nutrizionali: esiste una correlazione positiva tra la povertà estrema e la denutrizione cronica. All’estremo opposto, ci sono paesi dell’area con bassi livelli di povertà estrema e quindi con bassi livelli di denutrizione cronica. Non è tanto, quindi, un problema di centri urbani e campagne, ma di paesi con alti livelli di povertà della popolazione o meno.

In tutta la regione, comunque, i Governi hanno dato vita ad iniziative di rafforzamento nutrizionale degli alimenti: mi viene in mente la politica del Costa Rica, in vigore da oltre cinquanta anni, per l’arricchimento di alimenti come la farina di grano, quella di mais o del riso. Oppure la produzione di farina di mais fortificata cosiddetta «super tortilla» in Guatemala, per le donne in gestazione ed i bimbi fino ai cinque anni d’età».

Secondo alcuni osservatori, la prima strada da percorrere per combattere la piaga della fame può essere rappresentata dalla lotta agli sprechi del cibo. Una piaga che a dire il vero non risparmia certo i grandi Paesi dell'area latinoamericana. Anzi, nelle megalopoli brasiliane - penso alle grandi churrascaria con ogni taglio di carne - il fenomeno presenta dimensioni assolutamente notevoli. Secondo lei, si fa abbastanza per contrastare gli sprechi?

«In effetti ciò che lei dice è vero: oltre agli interventi in agricoltura, nella gestione delle risorse naturali, nell’istruzione e nella sanità pubblica, dovrebbe essere data un’attenzione particolare anche alla lotta contro lo spreco di cibo. Secondo un rapporto Waste watcher del 2013 in Italia ogni famiglia getta in media 200 grammi di cibo a settimana: ogni anno gettiamo cibo per 8,7 miliardi di euro (numeri che valgono il trentadue per cento del gettito Imu del 2012). L'abitudine a contrastare lo spreco, quindi, dovrebbe avvenire in ogni casa; anche se, certamente, un intervento governativo, ad esempio con una legge che imponga ai supermarket di scontare la merce in scadenza, sarebbe auspicabile.

Prevenire lo spreco serve non soltanto a redistribuire risorse a chi ne ha più bisogno ma è anche un modo per combattere lo sperpero di risorse naturali come terra, acqua ed energia utilizzate nella filiera del cibo che va dal campo alla tavola.

Va detto che il Governo italiano, a seguito di direttive dell’Ue in tal senso, che non a caso ha deciso di dedicare l’anno 2014 alla lotta contro gli sprechi, si è dotato recentemente (ottobre scorso) di un Piano nazionale di prevenzione dello spreco alimentare (Pinpas) che si inserisce tra le iniziative che il Ministero dell'Ambiente ha legato all'Expo2015 di Milano. Fra le priorità, l'istituzione dell'Anno europeo contro lo spreco nel 2015, in concomitanza proprio con l'Expo di Milano».

Non trova un po' stucchevole - mi vengono in mente associazioni come Coldiretti - che chi si batte come un leone contro ingenue falsificazioni dei prodotti made in Italy, sia poi anche in prima fila nelle campagne contro la fame? Forse costoro non si sono mai chiesti quanti posti lavoro crea l'industria del queijo parmesão brasiliano …

«Queste linee di condotta da parte delle associazioni che sono espressione diretta del mondo dell’agroalimentare del nostro paese sembrano, a prima vista, un po’ contraddittorie, ma in effetti non lo sono: quelle che lei definisce ingenue falsificazioni dei prodotti dell’agroalimentare italiano non possono essere ritenute tali per via delle stime che sono state fatte dei danni che esse producono sia a livello economico che di salute per l’uomo.

Da stime del Censis risulta che, soltanto nel 2011, i beni contraffatti ammontavano all’8 per cento del commercio mondiale, con un giro d’affari in Italia tra i qiattro ed i sette miliardi di euro, circa lo 0,35 per cento del pil, con un danno per l’erario di 1,37 miliardi di euro, e la perdita di circa 110mila posti di lavoro legali. I prodotti alimentari, purtroppo, si collocano al terzo posto della classifica delle merci maggiormente contraffatte, dopo l’abbigliamento (col 36,7 per centodel mercato totale del falso, per un giro d’affari di 2,6 miliardi di euro) ed i cd, dvd, video e software (col 23,2 per cento, per affari da 1,6 miliardi di euro), col 16,2 per cento del mercato totale del falso, per un giro d’affari di 1.153 miliardi di euro. Solo per fare un esempio, i vini italiani consumati negli Stati uniti nell’anno 2009 hanno fatturato circa 396,60 milioni di dollari; mentre quelli contraffatti venduti per italiani ne hanno fatturati oltre 943,10 milioni, in pratica più del doppio.

La maggior parte dei prodotti falsamente italiani proviene per il diciotto per cento dalla Turchia, il dodici per cento da Singapore, il sette per cento dall’Ungheria ed il cinque per cento dagli Stati uniti. E la contraffazione non è un rischio che colpisce i nostri prodotti soltanto oltre i confini italiani, ma spesso ne siamo vittime anche a casa nostra: secondo la Confederazione italiana agricoltori (Cia) in Italia un piatto tipico italiano su tre viene regolarmente imitato, procurando un danno economico per il nostro paese pari ad oltre due miliardi di euro all’anno.

L’immagine della produzione alimentare italiana sui consumatori all’estero viene associata al buon vivere, è evocativa di uno stile di vita che essi percepiscono come foriero di benessere e di qualità e questo sta alla base del successo di molti prodotti del comparto agroalimentare italiano. Questo patrimonio non può e non deve essere perso, perché fa parte della nostra cultura, ne è una rappresentazione, ed ha una valenza economica considerevole. Si tratta allora, sulla base di dati così sconfortanti, di portare avanti una politica mondiale di lotta alla contraffazione, soprattutto tenendo presente che la contraffazione di un prodotto, di un marchio o di un brevetto, è causa di effetti assai nocivi: non soltanto il potenziale danno alla salute dei consumatori, ma anche i danni all’economia nazionale (con la diminuzione del fatturato delle imprese titolari dei marchi dei prodotti contraffatti che perdono profitti), il danno erariale per il mancato versamento di imposte, la perdita di posti di lavoro e, da ultimo, ma non per minore importanza, la minaccia per la sicurezza pubblica derivante dal finanziamento indiretto che il grande mercato del falso fa alle grandi organizzazioni criminali che, sempre più spesso, gestiscono questo smisurato business.

Sinceramente, poi, non ritengo che campagne di sensibilizzazione al contrasto della contraffazione si pongano in antitesi con la difesa del diritto universale all’alimentazione, anche e soprattutto se a spendersi in tal senso sia il mondo dell’associazionismo che, in entrambi i campi (quello della produzione agroalimentare e quello della sensibilizzazione sul tema della sicurezza alimentare), ha dato e dà un apporto fondamentale per lo sviluppo di politiche più adeguate nel settore».