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Quando la discepola confusa cerca l’amore nella propria guida spirituale

di Francesco Lamendola - 18/08/2014


 

 

Che cosa succede allorché la discepola confusa non si rende conto che, nella propria guida spirituale, in colui che ha eletto al ruolo di Maestro (che egli lo sappia o no, che egli lo voglia o no), non sta cercando, in realtà, un aiuto per la propria chiarificazione interiore, per la propria illuminazione, o non soltanto quello, ma anche qualcosa di molto più concreto e meno mistico, cioè l’amore, anche nella sua dimensione sessuale?

È una situazione tutt’altro che rara, tutt’altro che infrequente. Un tempo le donne s’innamoravano, o – il che è lo stesso – credevano d’innamorarsi della propria guida spirituale, del proprio sacerdote, del proprio confessore; oggi s’innamorano del proprio psicologo, del proprio psicanalista, del proprio psicoterapeuta: ma la sostanza è sempre la stessa.

Naturalmente, può verificarsi anche il caso opposto; e, di fatto, si verifica: che il discepolo s’innamori di colei che ha eletto al ruolo di guida spirituale, o di salvatrice, o di donna-angelo, eccetera, eccetera, specialmente se si tratta di un giovane al cospetto di una donna matura. Però, secondo la nostra esperienza, la cosa è assai meno comune; si direbbe che, nella donna, vi sia una sorta di predisposizione a innamorarsi di un uomo che, ai suoi occhi, si trova molto più in alto. Accade anche su un piano prosaico, se l’uomo in questione è un famoso intellettuale, uno scrittore di successo (si badi, di successo: ben raramente se si tratta di uno scrittore ancora sconosciuto, per quanto di talento); oppure se è un capitano d’industria, un uomo d’affari, un banchiere, un generale, un uomo di potere di qualsiasi specie - persino un famoso bandito.

Le ragioni possono essere parecchie, ma tutte riconducibili, crediamo, ad una sola: la ricerca della sicurezza, ora intellettuale e spirituale, ora materiale, ora – magari - entrambe le cose insieme; la tendenza a voler conquistare un uomo importante, per sentirsi a sua volta importante; quel caratteristico miscuglio di umiltà esagerata e di orgoglio camuffato, mirante a ottenere una risposta da parte di un uomo che ha lottato vittoriosamente per farsi una posizione eminente: perché ricevere le attenzioni di un tale uomo è particolarmente gratificante. È, un po’, lo stesso meccanismo per cui le donne, in genere, tendono a lasciarsi attrarre non da uomini particolarmente belli, o ricchi, o intelligenti, ma, puramente e semplicemente, da uomini che hanno molto successo con le donne, da uomini dei quali si dice che abbiano fatto una lunga serie di conquiste femminili. Spuntarla su di uomini del genere, offre una autentica voluttà psicologica: è come sconfiggere tutte quelle “altre” e affermare trionfalmente la propria supremazia.

Ma torniamo al caso della guida spirituale. Ve ne sono di più tipi: uomini onesti e miserabili cialtroni; e, soprattutto, uomini che si propongono come guide, magari a pagamento – e già per questo solo fatto non lo sono, né potrebbero esserlo – e uomini che disinteressatamente sono disposti ad offrire ad altri i risultati della propria faticosa ricerca personale verso la verità. Alcuni di costoro si fanno chiamare maestri e desiderano il riconoscimento della loro eccellenza, altri non si ritengono dei maestri e non ci tengono affatto ad essere qualificato tali. Non esiste una tipologia unica della guida spirituale: certo è una figura oggi abbastanza di moda, senza dubbio perché stiamo attraversando un’epoca di grande confusione e di profondo smarrimento.

Sia come sia, l’incontro fra una discepola confusa e smarrita, ma assetata di verità, e una guida spirituale di sesso maschile che afferma di sapere chiaramente da che parte si debba volgere i passi, è di per se stesso, potenzialmente, un incontro galeotto.

Questa situazione, dunque, tutt’altro che originale, è stata descritta, fra gli altri, dalla scrittrice francese di origine belga Béatrix Beck nel romanzo «Léon Morin, prete», che nel 1952 la rivelò improvvisamente al pubblico, fruttandole il Prix Goncourt, e dal quale il regista Jean-Pierre Melville ricavò poi, nel 1961, un film, anch’esso divenuto celebre per la partecipazione di due noti attori, come Emmanuelle Riva e Jean-Paul Belmondo, nel ruolo dei protagonisti.

Ne riportiamo uno dei passaggi risolutivi, tratto dall’ultimo capitolo, l’undicesimo (da: B. Beck, «Léon Morin, prete»; titolo originale: «Léon Morin, prêtre»; traduzione dal francese di Lalla Romano, Milano, Longanesi & C, 1969, unico volume contenente anche gli altri due romanzi della trilogia: «Barny» e «Une mort irrégulière», pp. 296-300):

 

«In un torrido pomeriggio di sabato, stavo lucidando il pavimento nella camera, con lo stoino abbassato. Mi ronzava per il capo un canto assurdo:  “Con la cera vergine, lustra la camera nuziale / nuziale, nuziale”. Contemporaneamente, recitavo l’orazione della domenica e il saluto angelico. Le preghiere e il ritornello formavano un atroce miscuglio. A parte il letto, i soli mobili della camera erano uno slittino e un crocifisso, che lucidai entrambi, con un’amara energia. Disposi sul letto la coperta di cotone, cin la stessa cura che se preparassi qualche cerimonia. Poi passai in cucina e incominciai a fare il bucato, quando suonò il campanello. Era Morin.

Disse con l’aria di aver premura: “Buongiorno”. Vengo a portarvi dei libri per Danièle, la signora Sangredin mi ha detto che domani sareste andata al sanatorio. Ce n’è anche uno per voi, eccolo.”

Mi porse un grosso volume grigio, il cui titolo occupava parecchie righe e in cui dapprima non colsi che le parole: “Dogmatismo tradizionale e empiriocriticismo”.

“è spaventosamente difficile, non credo che capirò”, esclamai.

Morin, che stava per andarsene, aprì il libro»e acconsentì a sedersi accanto a me, davanti al tavolo, per parlarmene un po’. Ascoltavo con attenzione le sue spiegazioni, ma avveniva uno strano fenomeno: non solo non comprendevo il senso delle sue frasi, ma inoltre ciascuna delle parole, presa per sé, colpiva i miei timpani come un suono musicale, senza alcun rapporto col linguaggio. Attraverso il muro, vedevo con una cocente nitidezza la camera preparata, il letto fiorito di convolvoli. La fronte mi si coperse di sudore. Morin disse malizioso:  “Oh, come fa caldo!”

Lui, con la sua livrea nera e il suo alto colletto rigido, sembrava immerso nella frescura, mentre io, nuda sotto la mia camicetta di tela, ero in un bagno doloroso. Ebbi l’impressione che Morin m’interpellasse come da un’altra riva. Infissi la punta di un coltello nel legno grezzo del tavolo. Morin me lo prese di mano, col manico mi picchiò sulle dita e lo ripose nel cassetto. Aprì il libro, coll’indice mi indicò alcune righe. Io vedevo ogni lettera distintamente: era un piccolo disegno , un piccolo personaggio che riconoscevo, ma di cui non sapevo più il nome. La chiave della lettura era perduta. Mi battevano forte i denti. Tentavo inutilmente di tenerli stretti. Vedevo noi dall’altra parte del muro. Dio, esaudisci il mio desiderio, una sola, un’unica volta, e i sia benedetto il tormento eterno”. La tentazione non esiste. Esser tentati sarebbe allora bramare ciò che si riconoscerebbe come cattivo. Sarebbe pazzia. Per il fatto stesso che io desideravo, il mio desiderio mi appariva buono. Il mio desiderio ed io eravamo una cosa sola. Ironico risultato! Il mio spirito non aveva mai potuto darmi la semplicità che Morin tanto raccomandava, e il mio sangue vi riusciva con la velocità del lampo!

Morin sollevò il braccio, la sua manica nera si abbassò, scoprendo una manica di camicia azzurra, laica. “Tutto è possibile”, pensai. Il mio braccio si tese  verso Morin, lo chiamai: “Vieni”.

Si gettò all’indietro. La mia mano non incontrò che il vuoto.  Lui si alzò, in tre passi fu davanti alla porta. Con una parola, avevo distrutto il mio universo. Tutti i miei sforzi verso la vita cristiana sboccavano in quel grido animale. Morin era ritornato sui suoi passi, con un aspetto così inesorabile  che io mi dissi: Adesso mi ammazza”. Chiusi gli occhi, e udii la sua voce consolatrice: “Non è più la signorina Sabine, adesso. Meno male, così va già meglio”. “Guardate la gente, quando vi si parla”, mi chiese dopo un istante di silenzio. Il suo volto aveva un’espressione da contadino, astuta. Disse: “Se soltanto chiamaste Dio come chiamate il maschio. Questo è pregare”.

“Non verrete più”, feci io. come se constatassi un fatto.

Rispose deciso: “Certo che sì, perché no?” e, scherzando: “Non discuterò più con voi dell’ipostasi, mi mancherebbe”. Era di nuovo davanti alla porta, con la mano sulla maniglia, e si rivolse ancora una volta verso di me: “Bisognerà che vi confessiate”.

“No”, protestai. “Dire questo a qualcuno!”

Morin propose con dolcezza: “Se è a me che lo dite, visto che lo so già…”

“ A voi!” ribattei con terrore, e senza riuscire a frenare le lacrime. “A voi!”

“Anche per me è una schiavitù confessarmi, ma ci vado lo stesso, e anche sovente.”

Ribattei con ironia e con collera: “Ci andare lo stesso, e anche sovente! Voi, voi non fate mia dei peccati, perciò c’è da credere che vi accusiate di quelli degli altri.”

“Certi colpi vanno a vuoto” disse Morin.  “Verrete questa sera, vero? Dopo le cinque e mezzo. Vi aspetterò quanto sarà necessario.”

“Deve ritornare mia figlia da scuola.”

“Verrete con lei, confesserò anche lei.”

Se ne andò lanciandomi un: “Arrivederci. A presto.”

Lo sentii scendere i gradini a quattro a quattro. Sentivo Dio come un’infinita assenza, un vuoto impossibile da colmare, una carenza, , un sovrano sordomutismo. L’ateismo sarebbe stato più sopportabile.  Mi lavai la faccia. La mia anima mi faceva l’impressione d’una casa chiusa.

Giunse France, e io le dissi dove saremmo andate. Domandò con curiosità: “Tu, che peccati hai fatto?” Con tono falsamente divertito, le risposi: “Questo non ti riguarda.”

Insisteva: “Se tu mi dirai i tuoi, io ti dirò i miei.”

Per accrescere la contrizione, mi ripetevo: “Gesù Cristo ha insegnato che la concupiscenza equivale al’adulterio.” Ma questo pensiero andava più in là del suo scopo; mio malgrado, dal fondo della mia disperazione, io esultavo: “Ho desiderato, dunque ho posseduto”.

“Ora ci divertiremo”, fece Morin aprendo lo sportello.

“Padre, aiutatemi.”

“Non ne avete bisogno. Parlate”.

“Ho mancato… Ho detto… Io, non so come si chiama, ciò che ho fatto”.

“In questo momento voi fate il ramo secco. Sapete che cosa si fa, ai rami secchi?”

“Sì.”

“Che cosa gli si fa?”

“Li si taglia.”

“E quando si sono tagliati, che cosa se ne fa?”

“Li si brucia.”

“Sì. Parlate.”

“Io, io ho tentato di indurre al male…”

“Non lasciate le vostre frasi sospese, se non vi spiace.”

“Ho voluto spingere un prete a infrangere i suoi voti, io stesso ho voluto infrangere il nono e anche il decimo comandamento.”

“Così”, disse Morin. “Forse non è tutta colpa vostra. Domani, andrete a trovare Danièle. Cercate di far sì che la vostra visita le faccia un po’ di bene. Vi farete del bene reciprocamente. Come penitenza, leggerete ogni sera una pagina del libro di cui avete ascoltato il commento tanto bene. E adesso andate, e state in pace.” Me ne andai, quasi in pace. 

La sera, France, che giocava in cortile con Amanda, risalì, rossa d’indignazione, a dirmi: “Amanda è proprio cattiva.” Senza lasciarla finire, la sculacciasi ben bene, chiamandola delatrice, spia. “Ahimé”, mi dissi, mentre lei piangeva in un angolo, “sei una cattiva madre. Confessa che, se picchi così tua figlia, è perché non puoi far l’amore.”»

 

Per capire la reazione sproporzionata della protagonista contro la figlioletta, bisogna sapere che ella era rimasta profondamente turbata da un episodio di delazione, avvenuto durante l’occupazione tedesca della sua cittadina - siamo negli anni della seconda guerra mondiale -, ai danni di un membro della comunità israelita (e che la stessa Autrice, di cui la protagonista è un trasparente “alter ego”, aveva sposato un ebreo; indi, rimasta vedova, si era convertita al cattolicesimo). Resta comunque sostanzialmente vera l’auto-accusa di aver sfogato sulla bambina, sculacciandola, la propria frustrazione sessuale. Questa capacità di guardarsi dentro con lealtà è, se non altro, indice di forza d’animo e di una certa dirittura morale.

Durante tutto il romanzo, il lettore assiste a una sotterranea rincorsa della protagonista nei confronti del prete giovane e colto, che l’ha letteralmente sedotta. Lei era entrata in un confessionale a caso, per sfida, decisa a scandalizzare il prete con una aperta professione di ateismo; e invece si era imbattuta in Morin, che l’aveva presa per la briglia, come una puledra imbizzarrita, e con un abile miscuglio di indulgenza divertita e di severità maliziosa, aveva ricondotto la pecorella smarrita, pian pianino, verso l’ovile.

Per tutto il tempo in cui dura la schermaglia, la donna è combattuta fra opposte tensioni e desideri: vorrebbe trovare in Morin la zattera cui aggrapparsi, il ponte per traghettare verso la certezza della fede, dopo una vita tribolata dalla solitudine e dall’amarezza; ma è anche attratta dal calore umano del prete, dalla sua naturalezza, dalla propria sensualità prepotente. È confusa, non sa bene quel che vuole, quel che cerca. Cerca la guida spirituale, ma anche il maschio cui abbandonarsi.

Sono due desideri inconciliabili, o assai difficilmente conciliabili, perché presuppongono, quanto meno, che fra le due persone coinvolte non vi sia una netta disparità nei rispettivi livelli di evoluzione spirituale; solo in quel caso potrebbero confondere i due ruoli, della discepola e della guida, in una relazione sessuale che li avvicinerebbe finirebbe per metterli sullo stesso piano: ma forse, a quel punto, non sentirebbero più l’urgenza disperata del desiderio sessuale, oppure saprebbero comunque gestirlo in altro modo. È certo, ad ogni modo, che il rapporto fra un maestro di sesso maschile e una discepola di sesso femminile si svolge sempre sull’orlo di un precipizio: anche senza bisogno di scomodare casi famosi, come quelli di Abelardo ed Eloisa o dello scultore Augsute Rodin e Camille Claudel (sorella del grande poeta Paul Claudel), la cosa è fin troppo nota - e, del resto, facilmente intuibile.

Bisogna tener presente che la psicologia del discepolo è una psicologia molto particolare: si tratta di una persona desiderosa di apprendere, ma anche, sovente, psicologicamente fragile e instabile, bisognosa di continue rassicurazioni: sente che, per avere qualche valore ai propri occhi, deve legarsi a qualcuno che sta più in alto, molto più in alto, e che possiede quel che gli manca: sicurezza, pace, volontà; per cui tende a idealizzare il maestro e, nello stesso tempo, a sfruttarlo spietatamente, a vampirizzarne le energie, senza concedergli tregua.

Il discepolo-tipo è un essere debole, ma solo in apparenza: in effetti, sa molto bene quello che vuole e quel che gli manca; trovatolo, lo spreme senza pietà: e non è disposto a concedergli la minima attenuante, alcuna debolezza, alcun segno d’incertezza. Lo lascerebbe morire di sete in mezzo al deserto, pur di non dover riconoscere che anche lui, dopo tutto, è un essere umano bisognoso di acqua, come chiunque altro. Il discepolo è un individuo terribile, spietato e sommamente egoista, che non vuol sentire ragioni e, dietro il velo della deferenza e quasi della venerazione, nutre un tenace rancore represso verso il suo maestro, pronto a esplodere alla prima occasione. Non è disposto a perdonargli nulla: avendolo posto così in alto, la più piccola discesa, il minimo cenno di ondeggiamento da parte di lui, e subito lo disprezzerà senza misericordia, si vergognerà di averlo seguito, lo coprirà di insulti e si compiacerà di aver contribuito a demolirlo.

Perciò, nella psicologia della discepola seduttrice, vi è anche una contraddizione intima: da un lato vorrebbe sedurlo, per strappare, in tal modo, un segno inequivocabile del proprio valore; dall’altro, teme inconsciamente di riuscire, perché, se ciò avvenisse, il suo maestro scenderebbe dal piedistallo e lei dovrebbe cercarsene un altro da idolatrare.

Naturalmente, l’ambiguità può delinearsi anche dall’altra parte. Il maestro sente, percepisce in maniera distinta, che una delle ragioni, forse la principale, dello zelo con cui la discepola lo ascolta, dipende dal fascino che egli esercita su di lei come uomo, come maschio; però, nello stesso tempo, sa che, se mostrasse anche solo un piccolo cedimento – basterebbe uno sguardo di ammirazione sensuale, per esempio – ed egli perderebbe la faccia, tutta la sua autorevolezza andrebbe in fumo. Perciò l’istinto gli suggerisce di muovesi con estrema prudenza, come un funambolo, fra i due abissi spalancati: quello di perdere la stima della discepola, mostrandosi attratto da lei, e quello di ferirla e allontanarla, ignorandola in maniera troppo netta.

Si direbbe che Morin segua questa strategia, ed è questo, forse, a spiegare quella sua frase sibillina, durante la confessione: «Forse non è tutta colpa vostra», nonché la relativa mitezza della penitenza che infligge alla contrita discepola. Sa di avere scherzato col fuoco: lui, così sicuro del fatto suo, sa di aver spinto il gioco in una zona ambigua, mettendo alla prova la debolezza di lei – e sia pure per un nobile fine, quello di recuperare un’anima in cerca di Dio. Anche quella osservazione maliziosa sul cado, mentre la vedeva tutta sudata (e non solo per la temperatura della giornata estiva) tradisce, quanto meno, una piena consapevolezza circa l’ambiguità della situazione, se non anche una disinvolta attitudine a servirsene per il proprio scopo.

Ma le sfumature quasi infinite che possono caratterizzare un rapporto fra discepola e maestro comprendono anche aspetti ancora più segreti e inconfessabili, ancora più torbidi e misteriosi, nei quali è cosa assai ardua tentar di gettare un fascio di luce.

Può accadere, per esempio, che la discepola desideri sessualmente il proprio maestro, ma non sia disposta ad ammetterlo nemmeno con se stessa: ciò dipende dalla capacità di guardarsi dentro con lealtà e onestà. Allora la situazione che verrà a crearsi sarà particolarmente complicata: lei lancerà all’uomo dei messaggi assolutamente contraddittori; il suo sguardo, le sue parole, i suoi silenzi e i suoi gesti avranno sia il sapore e il chiaro significato del desiderio, dell’invito, della seduzione, sia la torpida inconsapevolezza che rende il desiderio non già meno trasparente, ma certo meno comprensibile e, dunque, tanto più pericoloso.

Vi sono donne che tendono a sedurre il loro maestro, ma non lo sanno o, per meglio dire, non vogliono saperlo: il tono di voce, il sorriso, certi movimenti in apparenza casuali, scoprendo il seno o le gambe; l’invito a casa propria ad ora tarda, magari per chiarire qualche punto oscuro di un libro o di una conferenza, tutto questo viene fatto in modo apparentemente innocente, e loro stesse non saprebbero dire se consapevole o no delle implicazioni e del significato che non può non assumere agli occhi di una persona di sesso maschile. Probabilmente tali donne si riservano, inconsciamente, la possibilità di farsi avanti o di ritrarsi, sia che il maestro abbocchi all’amo e si mostri attratto da loro, sia che resista o che, in apparenza, non si renda conto delle “avances”.

Forse il loro più profondo godimento non consiste né nel far capitolare l’uomo, né nel verificare quanto egli sia inattaccabile (e, quindi, si confermi come un “vero” maestro), ma semplicemente nel tirare avanti l’ambiguità del gioco il più a lungo possibile, come bambine capricciose, perché tale ambiguità consente di tenere aperte tutte le porte e, quindi, dà loro la inebriante sensazione di poter disporre a piacere sia della guerra che della pace, a seconda del loro estro. Una decisione, in un senso o nell’altro, porrebbe fine al gioco e, con esso, anche alla sensazione di potere che lo caratterizza.

E quale rivincita migliore di questa, da parte di una discepola che ammira tanto il suo maestro, quanto lo detesta inconsciamente (proprio perché lo sente più forte e sicuro di quanto ella sia): tenerlo sulla corda, sembrare sempre sul punto di crollare ai suoi piedi, anche sessualmente, ma non farlo mai, aspettando anzi di vedere se a capitolare sarà proprio lui?