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È possibile conoscere se stessi?

di Francesco Lamendola - 18/08/2014


 

 

«Conosci te stesso», ammoniva l’Oracolo di Delfi; «Conosci te stesso», ripeteva Socrate; e Platone era della stessa opinione: per filosofare, cioè per interrogare la realtà, prima di tutto bisogna essere in grado di conoscersi e riconoscersi.

Ma è possibile?

In questo caso, infatti, colui che vuole conoscere è lo stesso che deve essere conosciuto: sembrerebbe una condizione ottimale per la conoscenza di qualcosa; invece è tutto il contrario. Se io che voglio conoscere sono il medesimo che deve essere conosciuto, chi o che cosa potrà mai garantire la veridicità dell’atto conoscitivo e, quindi, dei suoi risultati?

Si suole rispondere: l’atteggiamento di onestà della ricerca è garanzia della sua serietà e, pertanto, anche della attendibilità dei risultati. Magari fosse così semplice! Chi lo dice che il mio atteggiamento di ricerca è “onesto”? Chi lo garantisce? Io, sempre e solo io. Non possono esserlo gli altri, sia perché nessuno può leggermi dentro, sia perché si tratta di valutare una operazione ben precisa e non una disposizione generica. Per gli altri, infatti, posso essere una persona affidabile e onesta, ma nessuno può dire che io lo sia anche mentre compio questo atto specifico: leggermi dentro e riconoscere quello che vedo, senza aggiungere o togliere nulla, senza abbellire, senza edulcorare.

Ma se a garantire della mia onestà resto io solo, allora si cade in una spirale solipsistica dalla quale sembrerebbe impossibile venir fuori. Infatti, quando mi giudico onesto, e onesta la mia ricerca, potrei ingannarmi: e potrei ingannarmi in perfetta buona fede. In tal caso, non mi accorgerei della mia “disonestà” e sarei pronto, prontissimo a giurare sul contrario. Se, poi, non mi giudico onesto, allora è meglio che non incominci neppure la mia indagine, perché so in partenza che da essa non verrà fuori mai niente di buono, niente di vero. Certo, potrei essere onesto e non sapere di esserlo; potrei interrogarmi in maniera onesta, ma non rendermene conto, convinto di essere, al contrario, poco onesto e quindi poco attendibile. Ma chi potrebbe accorgersi di tutto questo? Chi potrebbe dirmi: «No, fidati di te stesso, non sei così ambiguo e sleale come ti giudichi, al contrario, sei molto ben intenzionato e molto attendibile quando ti guardi dentro»? Nessuno, evidentemente. La mia verità resterebbe inconsapevole, trascurata, inutile.

Per molti aspetti, il circolo viziosi dell’epistemologia del sé ricalca la nota posizione socratica quanto al problema generale della conoscenza. Se cerco qualcosa, lo faccio perché so di non saperla, cioè di essere ignorante; diversamente, non la cercherei, riterrei di possederla già. Però, nello stesso tempo, se la sto cercando, significa che ho una qualche idea, e sia pur vaga e confusa, di quella  verità che inseguo: se così non fosse, non saprei neppure da che parte cominciare, anzi, non mi metterei nemmeno in cerca, pago del mio falso sapere. Quanto al conoscere se stessi, le cose stanno pressappoco negli stessi termini. Io cerco di scendere nel profondo del mio essere, alla ricerca della mia verità interiore: dunque, per il solo fatto di cercarla, riconosco di non possederla; ma, nello stesso tempo, ritengo di essere sulla strada giusta, ritengo di aver capito cosa e dove debbo cercare, altrimenti non mi sarei messo alla ricerca, non mi sarei neanche posto il problema.

Resta lo scoglio dell’auto-referenzialità, uno scoglio apparentemente insuperabile. Chi o cosa mi garantisce di essere capace di guardarmi dentro in maniera veritiera, di leggermi e di capirmi in maniera attendibile e onesta? Potrei ingannarmi; potrei auto-ingannarmi sia intenzionalmente, sia inconsciamente. Potrei deformare la realtà per incapacità di guardare le cose come stanno e potrei auto-convincermi che quella deformazione è il quadro obiettivo della realtà; potrei persuadermi che mi sto analizzando onestamente e che mi sto rappresentando in maniera corretta, anche se ciò non fosse affatto vero. Del resto, situazioni del genere sono frequentissime. E dunque?

Una penetrante analisi di questa contraddizione epistemologica è stata svolta da uno studioso brasiliano, Eduardo Giannetti, nel suo libro «Le bugie con cui viviamo. L’arte di auto-ingannarsi» (titolo originale della prima edizione in lingua portoghese: «Auto-engano», São Paulo, Companhia das Letras1997; titolo originale della prima edizione inglese: «Lies We Live by: the Art of Self-deception», Bloomsbury Publishing, 2010; traduzione dall’inglese di Barbara De Filippis, Roma, Newton Compton, 2000, pp. 80-2):

 

«La strategia della confessione, comunque, deve affrontare un grave problema di “circolarità”. Supponiamo che io sia, in fondo, disonesto anche con me stesso. Se fosse questo il caso,  allora la confessione non sarebbe attendibile. Sarei capace di mentire  senza accorgermene, dimenticando ingenuamente qualche dettaglio cruciale lì, omettendo qualche informazione rilevante là, senza farlo apposta. Confessare è come raccontare, raccontare significa fare una selezione; selezionare significa soppesare; soppesare giudicare: la mia confessione sarebbe il riflesso più o meno levigato dei mie verdetti tendenziosi  e velatamente fraudolenti che costituiscono la mia disonestà. Ma il problema globale è che io non so, e non ho modo di sapere,  se le cose stanno davvero così. Se devo dire tutto ad un interlocutore  neutrale per sapere se sono onesto o meno con me stesso già questa è di per sé una chiara prova del fatto che io diffido di me. Ma, se diffido di me al punto di cercare un verdetto esterno, come potrei fidarmi di una confessione che io stesso faccio?

La qualità dell’introspezione su cui si basano la confessione e il verdetto esterno è incerta. Se potessi conoscerne e fissarne il grado di autenticità, l’idea di chiedere un aiuto esterno sarebbe superflua, e non avrei bisogno di sforzarmi a cercarlo. Dato che ciò non è possibile, il risultato dell’introspezione  sarà incerto, ed ogni verdetto basato su di esso lo sarà altrettanto.

Ed inoltre, l’ultima parola sarà e comunque la mia. L’autorità di qualunque verdetto esterno dipenderà sempre dal mio assenso! Se il mio interlocutore afferma che io sono onesto e che non ho nulla di cui preoccuparmi,  potrei concludere che il mio racconto deve essere stato viziato, o che egli sia stato clemente nei miei confronti. Se egli dicesse, al contrario, che io sono disonesto e che non sono altro che un’opportunista cronico per tutto ciò che mi riguarda, niente mi impedirà di credere con tutto il cuore di aver dato un’impressione  sbagliata di me, o che il mio interlocutore  sia stato troppo duro, severo e puritano nei miei confronti.  Sono oneste queste conclusioni?

Escludendo l’illusione di un verdetto esterno, ritorno a me ed alla mia iniziale questione.  La familiarità ostacola la conoscenza.  Ma nel caso della conoscenza di sé tramite introspezione,  non è una semplice e a volte soffocante familiarità - “sono stanco della mia stessa immaginazione” -  a danneggiare il processo cognitivo. Ciò che perpetra il vero danno è la completa assenza di un termine di paragone. Nessun essere umano saprà mai cosa significa essere un altro essere, umano o meno. L’esperienza interiore di se stessi è L’UNICA che ciascuno possa avere.  Se desidero sapere se di solito sono onesto o meno con me stesso, non c’è possibilità alcuna che io possa spostarmi all’interno  dell’intimità soggettiva di un’altra persona,  neppure per un istante, per avere un minimo di contrasto  e di prospetto in relazione alla mia mente. L’accesso privilegiato alla mia mente lo pago -  più che pagarlo, mi viene estorto – con la totale esclusione  dall’esperienza diretta di qualsiasi altra manifestazione  di soggettività diversa dalla mia. Posso unirmi al filosofo stoico Epitteto e dire, senza paura di sbagliare: “Parlano male di me?  Ah, se solo mi conoscessero come mi conosco io!”. Invece, il fatto che gli altri non mi conoscano davvero diventa un sollievo, l’isolamento e la precaria conoscenza che abbiamo di noi stessi  generano perplessità ed apprensione.

L’analisi del’epistemologia dell’introspezione  suggerisce cautela quando si tratta di stabilire le nostre convinzioni. Sono onesto? Ogni risposta chiara ed assertiva  è o contraddittoria o altamente sospetta. Se la risposta è un “no” sonoro, porta in sé i semi della sua stessa negazione. Dopo tutto, come potrebbe qualcuno così disonesto con se stesso Accettarsi onestamente? La conclusione ottimista è: non sono poi così cattivo, dopotutto! Se la risposta fosse un “sì” splendido, pieno di sicurezza, il campanello d’allarme suonerebbe, e già si sentirebbe odore di auto-inganno. L’introspezione è UN PASSO verso l’interno: io divido me stesso e cerco di osservare me stesso attentamente. Una parte di me cerca di scoprire e conoscere le altre. Analizzando questo movimento però, sto compiendo un ULTERIORE PASSO verso l’interno. Ora voglio esaminare me stesso nell’atto introspettivo, cioè, osservare me stesso nell’atto di osservare me stesso: sono onesto nel momento in cui fiduciosamente rispondo di essere onesto? Ci sono molte ragioni epistemologiche per dubitarne. La domanda iniziale – sono onesto? – rivela che non mi fido di me stesso.  Ma, se non mi fido dell’INTEREZZA mentale osservata,  perché dovrei fidarmi di quella PARTE della mia mente che è stata invitata a distinguere se stessa dalle altre  e ad osservarle? Quali sono le credenziali di quella parte di me che cerca di conoscere e giudicare il resto? Cosa mi protegge dal potenziale opportunismo della parte che osserva? Niente. Prima di accettare qualsiasi verdetto, è necessario porre le stesse domande che poniamo al TUTTO anche alla PARTE che osserva. Chi sorveglia il guardiano? Chi verifica il revisore? È una involuzione  infinita. Il sole brillante della certezza  mi riempie di dubbi. La disonestà debole  ed anemica vorrebbe APPARIRE onesta; quando è forte e piena di vita, ci convince di ESSERLO GIÀ

 

Il problema, dunque, è reale: su questo non c’è dubbio. La storia, del resto, è piena di casi di fanatici che si credono giusti, di faziosi che si credono al servizio della comunità e di imbecilli che si credono geni. Nondimeno, se esso appare pressoché insolubile in termini astratti, lo è molto meno quando viene calato nella pratica esistenziale – perché allora si manifesta attendibile, in fondo alla coscienza di ciascuno, una sensazione di verità o di falsità, che può essere ignorata, ma mai completamente messa a tacere.

Inoltre, crediamo che il problema dell’auto-inganno sia stato enormemente ingigantito dalla cultura decadente contemporanea, che si compiace della propria abiezione e che eleva il sospetto maligno e sistematico a principe indiscusso di tutte le umane virtù. Da quando Freud ha insegnato che, quando proviamo o manifestiamo un certo sentimento, vi sono ottime ragioni per pensare che il nostro VERO sentimento sia quello diametralmente opposto; da quando Pirandello ci ha insegnato che ciascuno di noi è “uno, nessuno e centomila”; e da quando Svevo, ne «La coscienza di Zeno», ci ha ricordato che in noi sonnecchia una falsa coscienza, che mescola incessantemente verità e menzogna, al punto da farci smarrire ogni criterio di verità su noi stessi, è diventato di moda e politicamente corretto demolire ogni certezza, ogni verità, ogni valore, dichiarare che l’essere umano è il più miserabile bugiardo che sia comparso sulla faccia della terra e che non esiste alcun modo per eludere la spirale delle menzogne nelle quali ci avvolgiamo senza posa.

Lo steso Giannetti, erede di un certo biologismo e di un certo evoluzionismo di matrice darwiniana, insiste un po’ più del necessario nel far notare che l’uomo, come ogni altro essere vivente, mente e inganna per soddisfare i due bisogni naturali fondamentali, quello della sopravvivenza e quello della riproduzione. La menzogna e l’inganno, compreso l’auto-inganno, sarebbero dunque una strategia assolutamente naturale – e, quindi, “legittima”- per affrontare e superare le difficoltà della vita e per conservare l’integrità del proprio essere. L’auto-inganno, in particolare, non sarebbe altro che una forma di auto-difesa mirante a preservare il proprio Io dalla traumatica scoperta delle sue deficienze e delle sue inadeguatezze.

Il punto è che gli esseri umani non sono semplicemente dei fiori, che ingannano gli insetti per farsi impollinare, né delle farfalle, il cui disegno sulle ali è fatto in modo da ingannare la percezione di eventuali predatori; sono qualcosa di molto più complesso, in cui entra in gioco un fattore nuovo: la libertà; e uno strumento nuovo per realizzarla: la volontà. Solo l’uomo è dotato, in senso proprio, di libertà e di volontà: dunque, a lui solo competono la gioia, il tormento e la responsabilità di cercare la verità e non la menzogna, compreso il fatto di cercare la sua verità interiore.

Ma come trovarla, se nulla lo garantisce contro le dinamiche perverse dell’auto-inganno? È vero: nessuno può ergersi a detentore della verità: né lui stesso, per le ragioni sopra discusse, né gli altri, perché nulla sanno, in profondità, di lui. E allora non resta che un terzo: un Terzo che faccia da supremo garante fra l’Io e il Tu e fra l’Io e se stesso; un Terzo che possa garantire la verità perché è, egli stesso, Verità. Senza questa presenza silenziosa, impalpabile, eppure estremamente pregnante e luminosa, la vita umana non sarebbe che una commedia; e la ricerca della verità, una tragica beffa...