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Tutto è arbitrario e contingente per una coscienza non radicata nell’Assoluto

di Francesco Lamendola - 25/08/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Ci si è chiesti sovente da dove tragga origine la caratteristica angoscia dell’uomo moderno; di questo particolare tipo di umanità che, forte della scienza e della tecnica, orientato da un Logos strumentale e calcolante che è capace, in apparenza, di condurlo al raggiungimento dei più alti destini, vive nondimeno in uno stato di malessere cronico, quale non è dato di vedere in altre epoche della storia se non, forse, al momento del crollo della civiltà antica.

Per parte nostra, siamo persuasi che, fra le molteplici cause, una spicchi su tutte e le riassuma in se stessa: la confusione morale, che si manifesta nella perdita di punti di orientamento e di dialogo profondo con la propria interiorità; con la mancanza di significato dei singoli atti e della vita nel suo insieme; con la crisi gravissima dell’orizzonte di speranza, senza il quale l’essere umano non può vivere, ma appassisce e muore come un fiore dimenticato in cantina.

Tutto, alla coscienza confusa, appare arbitrario e contingente; scetticismo e cinismo esercitano la loro sinistra signoria sulla vita dell’anima; ogni slancio generoso, ogni anelito verso la luce, la verità e la bontà viene scoraggiato sul nascere, soffocato, spento, quando non apertamente deriso e canzonato, non solo dagli altri, ma anche dalla propria coscienza smarrita. Tutto appare gratuito, insignificante, assurdo; niente sembra importante, valido e meritevole.

Questa perdita di senso, questa cronica confusione, questa perplessità e questo fatalismo paralizzanti, sono, a loro volta, la conseguenza di un atto di superbia: l’aver voluto farsi l’uomo il Dio di se stesso; aver preteso di dettare da sé le norme fondamentali della vita e della morte; aver negato e calpestato ogni senso del limite, ogni riverenza davanti al mistero, ogni riconoscimento, implicito o esplicito, della propria finitezza e della propria creaturalità.

L’uomo moderno, con orgoglio luciferino, ha voluto ribellarsi contro la propria condizione creaturale, vale a dire contro il proprio statuto ontologico: da ciò hanno origine la sua amara solitudine, la sua disperata infelicità, il suo terribile senso di frustrazione e d’impotenza. Egli è in guerra contro se stesso, perché non ha voluto riconoscere la propria natura; eppure, incredibile a dirsi, sembra tuttora stupito e incredulo di non aver raggiunto quella pace, quella sicurezza, quella padronanza di sé e del mondo che era certo di poter conseguire, una volta proclamata la morte di Dio, questa scomoda e imbarazzante presenza, e aver affermato la propria assoluta, inalienabile libertà nei confronti di tutto e di tutti.

Da qui i sospetti, le inimicizie, i conflitti; da qui le gelosie, le invidie, i rancori; da qui le contese, le parole amare, i gesti violenti: è venuta meno una figura “super partes”, una presenza moderatrice, una garanzia superiore rispetto ai mutevoli, capricciosi, imprevedibili appetiti individuali, l’un contro l’altro armati. Il mondo è diventato una foresta di belve e il mio prossimo è diventato un potenziale nemico, sempre e comunque, per il solo fatto di esistere, ed, esistendo, di poter fare ombra alle mie ambizioni, alle mie pretese, al mio egoismo. Non c’è più Qualcuno che potrebbe domandarmi: «Dov’è tuo fratello?»; Qualcuno al quale io debba, bene o male, rendere conto di quel che gli ho fatto e di quel che ho omesso di fargli.

Soprattutto, l’orgoglio ha accecato l’uomo moderno e gli ha fatto dimenticare una semplice, essenziale verità: che uomini e donne non si nasce, si diventa; che il cammino verso la persona è un impegno individuale, esigente, assiduo, dal quale nessuno è dispensato; che una persona mancata è un essere umano il quale abbia detto “no” alla propria chiamata, alla propria vocazione.

Osservava il filosofo Luigi Stefanini a questo proposito (cit. in: Pier Giorgio Brufatto, «Il personalismo integrale del filosofo Luigi Stefanini», sulla rivista «Maestro e Padre. Periodico degli Amici del Beato A. G. Longhin», n. 3, nov. 2012, pp. 31-2):

 

«La persona è un problema: cioè l’uomo non si trova costituito, fin dall’inizio, nella sua unità personale ma conquista la sua razionalità, la sua libertà, la sua personalità con uno sforzo  diuturno, al quale può fallire. La personalità del’essere è difficile a conseguire, perché l’uomo è libertà. […]

Il fondamento primo della moralità è l’io; la moralità è, anzitutto, AUTONOMIA: siamo responsabili verso la nostra coscienza. [È necessario agire secondo coscienza con l’esercizio della razionalità;] l’essere si razionalizza in quanto diventa persona. Essere se stesso ed esserlo pienamente; agire secondo coscienza e formarsi una coscienza. [Ma, riconoscendo la finitezza umana,] tutto è contingente e arbitrario per una coscienza che non si radichi nell’Assoluto della sua origine [Stefanini chiama “teonomia” tale radicamento]: la creazione non è soltanto dogma, ma esperienza del nostro essere personale il quale, incapace di sostenersi nell’essere per virtù propria, riconosce che la virtù che lo sostiene non si sostituisce ad esso. Il concetto e l’esperienza della creazione costituiscono il vincolo che congiunge e distingue AUTONOMIA e TEONOMIA. […] Non c’è nulla di fatto che non debba diventare atto significante in quest’alba della creazione che è la vita di ciascun uomo. […] Sentirci creati è sperimentare la realtà sostanziale del nostro essere finito e spirituale. È la presenza di noi a noi stessi, il fulcro vivente in cui si ritraggono le vibrazioni dell’universo quando si colorano di BELLEZZA, a cui si richiamano le molteplici esperienze quando assumono senso di VERITÀ, in cui si annodano gli atti nostri quando diventano VALORE MORALE. Sentirci creati è sentirci impegnati verso la nostra persona e impegnati nel rapporto personale che ci congiunge a Dio. [Le leggi possono essere un valido sussidio per le coscienze vacillanti,] ma nessuno può essere giustificato dalla pura esecuzione formale della LEGGE, senza quel complemento personale della legge che è l’AMORE. […]

Resta sempre la possibilità che l’uomo renda contraddittorio il suo essere, generando l’irrazionale e il male, con un processo d’interna dissoluzione; la razionalità è il volere dell’uomo che realizza la vita più alta della persona; l’atto morale, sostanziato di libertà, riacquisterà il suo carattere meritorio e il suo pregio umano. Allora si passerà dal PAGANESIMO, per cui il PECCATO È ERRORE, al Cristianesimo, per cui L’ERRORE È PECCATO. […] Tutti i peccati sono violazione del diritto della persona; il male è la disgregazione, la dissoluzione, la morte della persona.

[Stefanini insiste sul fatto che noi siamo ancora sotto l’influsso del paganesimo, che tiene prigioniera la verità, e che non ci siamo ancora convertiti al cristianesimo, che ci insegna a conquistare, nell’unità del pensiero e della volontà,] la verità del cuore. […] Siamo rimasti tributari della dottrina PAGANA delle facoltà, e abbiamo concesso che per secoli ragione e volontà si rincorressero a vicenda, [quasi in una gara per primeggiare l’una sull’altra, mentre] pensiero, volontà, amore non sono mai l’uno fuori dall’altro, ma segnano una compresenza dei tre aspetti di un’unica realtà.

[L’etica della persona dà anche il fondamento alla socialità.] La socialità non può avere altro fondamento che sull’etica della persona. […] La persona contiene in sé la sua destinazione sociale; neppure potrebbe compiersi come persona se non attuasse questa destinazione. Quanto più discendo in me tanto più trovo gli altri: e quanto più mi apro agli altri tanto più approfondisco me stesso.»

 

Siamo dunque, tuttora, pagani, nel senso che siamo tuttora sotto la falsa credenza che il peccato non esista, che sia solamente un errore, e non una violazione deliberata dell’ordine umano e divino; sotto la falsa dottrina che separa pensiero e volontà e che riserva l’amore non a tutti, ma soltanto agli amici, anzi, soltanto agli amici che ci fanno del bene, e finché ci fanno del bene, ossia che rende l’amore facoltativo e non obbligatorio, non indispensabile?

Molte cose porterebbero a crederlo. Non illudiamoci: i vizi profondi dell’uomo sono lenti, lentissimi a morire: una civiltà può dirsi cristiana per duemila anni, ma avere appena incominciato a convertirsi nel profondo, avere appena cominciato a introiettare la parola dell’amore, a volersi staccare dall’uomo vecchio, sottoposto alla tirannia delle passioni egoistiche, dell’ambizione, della superbia, della crudeltà.

Oggi dominano ancora largamente, nella prospettiva esistenziale dell’uomo-massa, il relativismo etico, l’edonismo spicciolo, il consumismo compulsivo e amorale. È bene quel che piace, è male quel che non piace; o ancora: è giusto ciò che produce utili, è sbagliato ciò che non li produce. Questo è il ritornello che la maggior parte dei cosiddetti intellettuali, con diverse sfumature di facciata, dicono e ripetono, fino all’ossessione: con la complice solidarietà dei mass-media, del cinema e, naturalmente, della pubblicità commerciale. Niente ricerca interiore, nessuna disponibilità all’ascolto, tranne quello delle proprie “esigenze” spacciate per “bisogni” naturali; il messaggio è sempre lo stesso: vai bene così, tu sei o.k., io sono o.k., tutti siamo o.k., siamo invidiabili, siamo eccezionali, siamo perfetti così come siamo, non c’è bisogno di lavorare su noi stessi, non ci sono difetti da correggere o mali da combattere. Non c’è bisogno di sacrificio, di pazienza, di umiltà: la verità è già servita in tavola, bella e pronta: e la verità principale è quella di Aleister Crowley, il noto mago e satanista inglese del XX secolo, che tanto piaceva ai Beatles: «Fa’ ciò che vuoi». Sei un Dio, siamo tutti quanti degli Dèi; siamo liberi a trecentosessanta gradi: non neghiamoci nulla di quello che può procurarci piacere, successo, potere.

Prendiamo un prontuario, fra i tanti, di psicologia sessuale: «Il sesso è amore», di Raffele Morelli; già il titolo è tutto un programma. Morelli, psichiatra e psicoterapeuta di grido, presentissimo nei salotti televisivi di mamma Rai, ha pubblicato tutta una serie di libri dal titolo-programma, fra i quali: «Ciascuno è perfetto», «Come essere felici», «Non siamo nati per soffrire», «Ama e non pensare», «Innamorati di te». Il messaggio è chiaro, perfino disarmante nella sua rozzezza: il più piatto narcisismo che rende lecito, giusto e buono qualsiasi errore, qualsiasi infedeltà verso se stessi, qualsiasi noncuranza nei confronti del prossimo. Va tutto bene, la natura è buona e santa in se stessa; non avrai altro Dio che le tue passioni, i tuoi desideri, il tuo piacere. Un naturalismo edonistico integrale, senza fronzoli e senza edulcorazioni. I titoli dei capitoli del primo libro che abbiamo citato, poi, sono ancora più eloquenti: «Non pensare a come andrà a finire», «Segui soltanto il desiderio», «Il “per sempre” fa male all’amore», «Ama a modo tuo». Amare a modo tuo? Ciascuno ha, dunque, il diritto di amare a modo suo? E se quel modo non andasse bene all’altro, proprio a colui che si dice d’amare? Evidentemente, tanto peggio per lui.

Simili cattivi maestri non fanno che mettere nero su bianco quanto un pubblico propenso a una eccessiva auto-indulgenza vuole sentirsi dire: questa è musica per i suoi orecchi. È una musica che piace (quasi) a tutti, che attira soltanto applausi e consensi, che riempie le sale delle conferenze: l’equivalente del più basso populismo demagogico nell’ambito della politica. Il bello è che questi intellettuali alla moda si sentono bravi e coraggiosi, si sentono campioni della libertà e dell’anticonformismo; e, soprattutto, difensori dei “diritti”, la grande parola magica che spalanca tutte le porte, che annienta ogni possibile resistenza. Tutto è soggettivo, tutto può essere allungato o accorciato secondo la propria misura; tutto diventa lecito, purché sia nel nome dei “diritti”. L’unica strategia sbagliata è quella che non paga in termini immediati. Un freudismo ancora più grossolano, ancora più manicheo di quello del Maestro, il quale, almeno, riconosceva che, se la società non vuole auto-distruggersi, bisogna che ponga dei limiti al principio del piacere.

C’è, in questi atteggiamenti e in queste posizioni, una terribile deformazione del concetto di “amore”. Sant’Agostino diceva: «Ama e fa’ ciò che vuoi»; non: «Fa ciò che vuoi e ama a modo tuo». Sono due filosofie opposte e inconciliabili. O prima viene l’amore, l’amore inteso come dono e come generosa uscita da sé per andare incontro all’altro, in quel che è bene per l’altro; oppure viene prima la libertà anarchica, che riduce tutto, anche le relazioni umane e dunque anche l’amore, a strumento dei propri disegni, a mezzo per soddisfare il proprio Io, in quanto vi è in esso di più primitivo, di più basso, di più abietto. In questo secondo caso, si può contrabbandare per “amore” qualunque desiderio cieco, brutale, sopraffattorio: si può giustificare tutto, dalla pedofilia all’aborto, e sempre in nome dei “sacri” diritti dell’Io, troppo a lungo conculcati da una cultura repressiva.

Dobbiamo tornare a una sana filosofia di vita: se la coscienza non si radica nell’Essere, dal quale ha tratto origine e a cui farà ritorno, ogni cosa diventa insensata e precaria, ogni abuso diventa lecito…