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Vogliamo essere ricchi o poveri? Capire la nuova geografia del lavoro

di Daniele Scalea - 25/08/2014

Fonte: huffingtonpost


 

 

 

 

 

Poco meno di dieci anni fa il rinomato giornalista Thomas Friedman pubblicò un'opera intitolata Il mondo è piatto. La sua tesi è che la globalizzazione e l'innovazione tecnologica avrebbero portato a un livellamento del mondo, in termini di standard di vita, e all'insignificanza della localizzazione geografica nell'economia. Come spesso accade, i giornalisti sono abili interpreti del senso comune, il quale non è però necessariamente corretto. La vera storia la racconta, con piglio divulgativo ma fondandosi su una solida letteratura scientifica, l'economista di Berkeley Enrico Moretti nel suo La nuova geografia del lavoro, edito nel 2013 da Mondadori.

Il libro del Professor Moretti è uno studio dell'economia degli USA, ma l'edizione italiana è arricchita da alcuni riferimenti anche al nostro paese. Innanzi tutto, l'Autore sottolinea con cura come l'innovazione nel settore ad alta tecnologia sia il motore dello sviluppo. I servizi locali (ricezione, intrattenimento, distribuzione, libere professioni, settore pubblico) sono un effetto della crescita e non la sua causa. Essi prosperano laddove c'è la ricchezza creata dal settore innovativo, ma non la creano essi stessi. Infatti, nei fulcri (hub) dell'alta tecnologia sono più alti i salari medi non solo di ricercatori e ingegneri, ma anche degli altri professionisti e dei lavoratori non qualificati. C'è di più: in questi hub l'occupazione è maggiore a tutti i livelli, maggiore la speranza di vita, minori i divorzi, maggiore la partecipazione politica. E attenzione: questi dati non sono raccolti confrontando la Silicon Valley con qualche paese del terzo mondo, bensì i centri dell'innovazione statunitensi con altre aree degli USA stessi, comprese alcune che fino a pochi decenni fa erano perni dell'industria nazionale (Detroit, Flint ecc.).

L'unico rovescio della medaglia è che, per ovvi motivi, in questi hub tecnologici il costo della vita è molto superiore che nelle altre aree. Da qui la domanda centrale dell'opera: se il settore hi-tech non dipende dalla localizzazione di una determinata risorsa (come potevano essere, per industrie del passato, il carbone o un canale navigabile), perché le sue compagnie tendono a concentrarsi in determinate località in cui i costi salgono alle stelle, anziché, se non proprio delocalizzare all'estero, spostare gl'impianti in altre città statunitensi in cui i costi sarebbero molto più contenuti?

È rispondendo a tale quesito che Enrico Moretti rivela come la posizione geografica sia determinante più nell'economia della conoscenza che in quella industriale. Apparentemente, sarebbe più facile spostare un gruppo di cervelli coi suoi maneggevoli strumenti (computer e connessioni a Internet) che ingombranti stabilimenti manifatturieri. In realtà, si è rivelata molto agevole e remunerativa (per i capitalisti) la delocalizzazione di quest'ultimi che quella dei primi. La chiave sta nel concetto di esternalità del capitale umano: la condivisione del sapere aumenta la produttività (e la produttività genera prosperità).

La diffusione del sapere e aumento della produttività tramite interazione costante tra gl'innovatori non è però l'unica forza di agglomerazione. Il Professor Moretti ne individua almeno altre due. Il primo è un mercato del lavoro denso. Il settore hi-techimpiega lavoratori qualificati, dunque con ben precise specializzazioni. Per un lavoratore del genere è più facile trovare un'offerta di lavoro relativa alla sua specializzazione laddove vi siano concentrate molte imprese del settore, sicché tende a emigrarvi. Viceversa, la compagnia che cerca un lavoratore altamente specializzato ha più possibilità di trovarlo in un hub hi-tech. La seconda forza di agglomerazione è costituita dai servizi specializzati per questo tipo di aziende, con meccanismi di domanda-offerta non troppo dissimili da quelli del mercato del lavoro specializzato.

Secondo il Professor Moretti, la nascita di questi hub è stata tutto sommato fortuita: il fattore decisivo non si trova nella presenza di università d'alto livello o nell'attrattività del luogo per i "cervelli", bensì nella presenza di un luminare che conduce ricerca d'avanguardia nel settore. Così, Seattle è divenuta un fulcro del hi-tech grazie alla presenza di Bill Gates o la Silicon Valley grazie a William Shockley (l'inventore del transistor). Il resto lo hanno fatto le forze di agglomerazione sopra menzionate. Ciò si traduce però nella difficoltà di creare nuovi hub, mentre l'innovazione va sempre più concentrandosi in quelli esistenti e le aree escluse si deprimono. Da qui il fenomeno che il Professor Moretti chiama grande divergenza. Una parte degli USA stanno diventando sempre più ricchi, con salari medi sempre più elevati a ogni livello, maggiore istruzione, maggiore speranza di vita, maggiore occupazione, maggiore attività politica, maggiore presenza del no profit; l'altra parte, invece, diviene sempre più povera, disoccupata, disistruita. Vale la pena notare che, purtroppo, l'Italia è nella condizione di questa "seconda America", priva di hub hi-tech e dunque in via di depressione economica.

La ricetta del Professor Moretti per cercare di sollevare le aree depresse passa per l'intervento pubblico. E non tanto sotto forma di offerte ai privati per portare in un determinato luogo un nuovo stabilimento: queste ultime, a suo avviso, rischiano di essere eccessive al punto da essere controproducenti, e inoltre se la concorrenza è tra regioni allora a livello nazionale si traduce in una perdita secca. Molto meglio invece concentrarsi in programmi di investimento, sovvenzioni e agevolazioni a favore degli abitanti locali per indurre nuovi investimenti.

La lettura del saggio di Enrico Moretti è preziosa per comprendere la centralità che il settore dell'alta tecnologia e dell'innovazione ha nell'economia contemporanea. Esso è imprescindibile per lo sviluppo; eppure l'Italia, che fino agli anni '80 vi aveva una buona posizione, si è completamente estromessa da quest'ultimo a causa d'una serie di scellerate decisioni politiche e imprenditoriali. Purtroppo, alla luce della "grande divergenza" che le forze di agglomerazione e di moltiplicazione della ricchezza pongono in essere, non pare profilarsi alcuna possibilità di quieto vivere, di vegetazione a un livello mediano. La scelta è tra lo sviluppo e il sotto-sviluppo, la prosperità e la miseria. Sta a noi decidere se lasciare in eredità alle future generazioni un'Italia del primo o del secondo mondo.