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Privatizzano la Patria

di Filippo Bovo - 01/09/2014

Fonte: Stato e Potenza

220px-ENI_logo.svgPare che fra settembre e novembre, cercando di cogliere le più favorevoli condizioni da parte del mercato, verrà messo sul mercato un altro 5% sia di ENI che di ENEL, con l’obiettivo dichiarato d’incassare almeno 5 miliardi d’euro. Al momento attuale il Tesoro detiene all’incirca il 30% d’entrambi gli enti, quota che in linea di diritto gli permette di controllarne le Assemblee degli Azionisti. Con questa privatizzazione questa situazione potrebbe cambiare significativamente a danno dello Stato, inaugurando potenzialmente l’uscita di ENI ed ENEL dal suo controllo ed il loro progressivo passaggio sotto la “tutela” degli azionisti privati.

E’ una storia scritta sin dai primi Anni ’90, allorchè si diede inizio alle privatizzazioni a valanga che portarono alla dismissione d’ingenti quote dell’industria di Stato. Sparirono, nel giro di pochi anni, l’IRI, l’IMI e tutto il resto. Gran parte delle imprese e delle banche privatizzate fecero una brutta fine, fagocitate da privati avidi ed incapaci che le portarono alla completa estinzione. Si pensi, ad esempio, al colosso Telecom completamente svuotato al proprio interno e ridotto ad un guscio vuoto.

Il motivo di questa nuova ondata di privatizzazioni, oggi come nel passato, è costituito dalla necessità di fronteggiare il debito pubblico. Il governo aveva pensato, non a caso, di privatizzare anche il 40% di Poste Italiane. Ma quando Francesco Caio, il nuovo amministratore delegato, s’è reso conto d’aver ereditato dal suo predecessore Massimo Sami un’azienda non proprio in condizioni ottimali o comunque tali da giustificarne una quotazione in borsa, al Tesoro hanno preferito soprassedere e rimandare l’operazione al 2015. Stesso discorso anche per SACE ed ENAV.

Di conseguenza, al governo, rimaneva soltanto il solito binomio ENI ed ENEL: due aziende prospere, dai brillanti fatturati, le cui azioni possono fruttare guadagni sicuri. C’è da ringraziare che non abbiano pensato anche a Finmeccanica. Ma possiamo star certi che, presto o tardi, si ricorderanno anche della sua esistenza e che opteranno per privarla di qualche altra sua preziosa componente, come già è avvenuto nel recente passato.

E così, privatizzando l’industria pubblica, si privatizza la Patria. La sovranità sarà sempre di più un ricordo e l’Italia verrà progressivamente, ma in tempi comunque molto rapidi, ridotta ad una colonia commerciale ed economica delle altre potenze, quest’ultime a differenza nostra ancora dotate d’una grande industria e capaci di tutelare i propri interessi. L’obiettivo è sempre il solito: trasformare l’Europa mediterranea, di cui l’Italia fa incontestabilmente parte, in un mercato succube degli Stati Uniti (che si preparano al grande banchetto col Trattato di Libero Commercio, i cui effetti saranno ulteriormente enfatizzati dalle sanzioni russe che ci privano di un grande partner commerciale) e, in misura minore, anche della subpotenza tedesca.

In tutto questo scenario recitano la loro parte i guru politici ed intellettuali alla Oscar Farinetti che ripetono ossessivamente come l’Italia potrebbe tranquillamente crescere e prosperare rinunciando all’industria e dedicandosi esclusivamente al turismo e all’agroalimentare. Ovvero, ritornare ad una situazione non molto dissimile a quella che caratterizzava l’Italia negli anni precedenti al boom economico del Secondo Dopoguerra, quando gli italiani per sopravvivere dovevano emigrare o lavorare per poco (o per niente), dato l’elevato tasso di disoccupazione che abbassava i costi della forza lavoro. Insomma, quello che sembrava essere un brutto ricordo tornerà ad essere il nostro futuro: o andremo a fare i camerieri ed i lavapiatti in Inghilterra, oppure lo faremo qui in Italia, a beneficio dei giapponesi, degli americani o dei tedeschi che verranno a godersi il sole dello Stivale. E chi non farà il cameriere o il lavapiatti, andrà a fare il bracciante: o vogliamo essere così ingenui da credere che diventeremo tutti imprenditori, a capo di qualche ricca azienda agricola che sforna decine di migliaia di bottiglie di vino all’anno? E se non andrà bene fare nè l’uno nè l’altro mestiere, si potrà sempre andare a lavorare nelle fabbriche tedesche. Tedesche, eh: non italiane.

Dopotutto, non è forse quello che sta già avvenendo?