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Ritorno alla foresta magellanica

di Francesco Lamendola - 05/11/2014

Fonte: Arianna editrice

 


 

Vi sono due tipi di ritorni: il ritorno a casa e il ritorno sui luoghi dove siamo stati in passato; il primo ci fa sentire in pace, perché ci offre la sicurezza del nido, degli affetti, dei ricordi; il secondo ci fa sentire vivi, perché da esso spira il fascino dell’altrove, e tuttavia, nello stesso tempo, anche la consapevolezza che quell’altrove siamo stati capaci di rivederlo, di ritrovarlo, di farlo ancora nostro. Entrambi ci rassicurano sulla nostra continuità, sul flusso perenne del nostro Io vitale, ma con un movimento apparentemente opposto: verso l’interno il primo, verso l’esterno li secondo: là ci sentiamo accolti e protetti, là ci vediamo proiettati alla riconquista di ciò che è stato e che non vogliamo perdere, non vogliamo dimenticare: perché sentiamo oscuramente che, se ciò accadesse, anche noi ci perderemmo. Però, a ben guardare, si tratta di due movimenti che vanno nella medesima direzione: verso la nostra parte più intima, verso il paesaggio interiore popolato di emozioni, di attese, di speranze, di ricordi, di memorie.

Il viaggio, infatti, per quanto spettacolare o remoto possa essere nella geografia esterna, è sempre un andare dell’anima verso se stessa, verso il proprio compimento, verso il proprio destino: è un riflesso del movimento vero, quello della costruzione del Sé, che corrisponde allo scopo ultimo della nostra vita e senza il quale potremmo confessare d’aver vissuto invano. Perciò vi sono viaggi utili e viaggi inutili: i primi ci avvicinano alla rivelazione e alla costruzione di noi stessi, i secondi ce ne allontanano; e vi sono dei ritorni significativi e dei ritorni insignificanti: i primi ci restituiscono alla consapevolezza del nostro essere viandanti alla ricerca, i secondi sono soltanto dei riti formali, privi di echi profondi, di risonanze rivelatrici. Partire, tornare, sono movimenti significativi solo se corrispondono all’acquisizione di una nuova consapevolezza, se ci innalzano almeno di un gradino lungo la scala dell’essere. Torna veramente solo chi è partito veramente: perché vi sono delle partenze apparenti, dei viaggi apparenti, quindi anche dei ritorni che non restituiscono nulla, perché nulla era stato realmente lasciato indietro.

Il viaggiatore, l’esploratore di terre lontane, è colui che sente nella carne, fisicamente, il pungolo dell’altrove, ma non è detto che quello che cerca si trovi realmente da qualche parte dello spazio: forse quello che conta davvero, per lui, non è arrivare alla meta, ma il viaggiare in se stesso e lo scoprire per il gusto dello scoprire. Ma per quanto possa esaltarlo il pensiero di essere il primo uomo, forse, a calpestare quel particolare angolo di mondo, a tracciare quel particolare sentiero, a oltrepassare quella catena di montagne, resta il fatto che le gioie più pure, le sensazioni più struggenti e sublimi, egli le ritrova all’interno di sé, nell’aprirsi dell’anima all’ascolto di voci nuove, di cui le voci fisiche – lo stormire del vento, il canto degli uccelli, il chioccolio dell’acqua nel torrente – non sono che la preparazione e il preambolo.

Così, l’alpinista che contempla il sorgere del mattino sulle pareti di ghiaccio, e che vede i fianchi della montagna tingersi di mille riflessi opalescenti, è trasportato in un altrove che non è un luogo fisico, ma un luogo dello spirito, ineffabile e irraggiungibile per definizione; e l’esploratore che ritorna, dopo dieci o venti anni, nell’angolo di foresta che aveva attraversato da giovane, quando il suo cuore era impaziente e palpitava carico d’aspettativa, è come se tornasse indietro nel tempo e potesse misurare, con un solo colpo d’occhio, quel così gran tratto della sua vita, confrontando il suo Io di allora con quello di adesso e riflettendo se la costruzione del proprio Sé ha registrato dei progressi, se le esperienze passate, le cose vedute e vissute gli hanno veramente insegnate qualcosa, o se sono scivolate via sulla sua pelle, senza modificarlo nel profondo.

Walter Bonatti ha bene descritto le sensazioni del ritorno in un luogo remoto, già visitato in precedenza, laddove rievoca - con una capacità letteraria che sarebbe stata ben altrimenti elogiata dalla critica, se fosse venuta da uno scrittore professionista anziché da un “semplice” scalatore - una sua spedizione del 1971 al Ghiacciaio Patagonico Meridionale, ossia negli stessi luoghi che già aveva percorso più di tredici anni prima, nel 1958 (da W. Bonatti, «I miei ricordi. Scalate al limite del possibile», Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008, pp. 197-200):

 

«… Appena imboccata la valle di rio Tunel, e passato il ponte di corde sul fiume turbolento (ponte che oggi purtroppo non esiste più), ebbi quasi la sensazione che il tempo, qui, si fosse da sempre fermato. Nulla era cambiato dall’ultima volta che vi ero stato. I boschi, i sentieri, i corsi d’acqua, le praterie e le paludi smaltate di fiori, gli uccelli e gli animali in assoluta tranquillità, tutto era rimasto come allora, tutto fluiva dal ricordo, dalle nostalgie, e riprendeva il suo giusto posto nella realtà. Per anni aveva urlato dentro di me il richiamo di questi luoghi, avevo sentito un bisogno immenso di rivederli, e adesso ero qui, finalmente, e non volevo, non potevo trascurarne il minimo dettaglio. Così via via assorbivo tutte le forme e i colori che il mio sguardo riusciva ad abbracciare, e assaporavo la pace della natura che mi circondava, e anche quella dentro di me.

Ero dunque assorto nei miei pensieri quando un movimento improvviso dell’aria, accompagnato da un’ombra passata scura e fugace, mi fece alzare di scatto la testa: era un condor che  roteava poco sopra ad ali spiegate. Ne seguiva subito un altro. Spinti da irriducibile curiosità – già lo avevo sperimentato in passato. I due giganti alati girarono più volte intorno a noi aprendo a ogni stretta virata le ultime penne delle ali. Ci stavano esaminando con vista acutissima, mettendo in mostra la nuda testa crestata e il caratteristico collare bianco: erano infatti due maschi. Tanta imponenza mi affascinava, ed ero rimasto lì un bel po’ immobile a osservare la fierezza del loro premeditato volo. Poi, con un leggero movimento d’ali, salirono maestosi l’uno dopo l’altro lasciandosi trasportare da una corrente ascensionale, che li condusse presto a disperdersi nel gelido azzurro.

Colonne di pecore lasciate allo stato brado seguivano pigramente, in fila indiana, i loro sentieri attraverso radure acquitrinose; ma più addentro nella valle si fecero rade fino a scomparire. Ora, a rimpiazzare una così nutrita presenza di vita animale, presero a sgattaiolare in ogni dove torme di conigli selvatici: una vera calamità da queste parti; apparvero con sempre maggior frequenza tra le pozze paludose del fondovalle anche grandi oche bianche: i “caiquenes”. Solitamente, prima di allontanarsi in volo, restavano a lungo ferme e sospettose a guardarci finché non fossimo giunti a pochi passi da loro. Queste oche arrivano ogni giorno in compatti stormi dalle lontane pianure per rientrarvi la sera.

Improvvisi ciangottii rompevano il silenzio annunciando un rapido e colorato volo di “cunnurus”, i pappagalli magellanici. Il loro piumaggio dai beni toni verdi e rossi portava una nota allegra nel paesaggio austero, e spinti anch’essi dalla curiosità venivano qualche volta a posarsi sui rami secchi del tronco più vicino, ravvivandolo.

I faggeti dai grossi fusti rigogliosi adesso cedevano il posto a chiazze sempre più larghe di tronchi scheletriti, ma ancora ritti: erano i resti di antiche foreste incendiate dai pionieri con l’intento di ottenere buoni pascili. Ebbene, quei tronchi possenti e mummificati, bianche ossa di alberi contro il cielo cupo, grotteschi simboli guizzanti di tragica luce e su cui il vento freddo modula il suo lamento, facevano sentire la suggestione che ancora si ha per le cose velate di mistero.

Il mattino seguente, dopo un’ora di marcia, arrivammo a quota 580, ai piedi di un faggio enorme. Era l’ultimo grande albero offerto dal tratto quasi pianeggiante di questa valle prima che cominciasse a inerpicarsi, accidentata, verso il passo ghiacciato. Non fu senza stupore che ritrovammo, a ridosso del grande faggio, la catasta di tronchi che quattordici anni addietro avevamo elevata a riparo del vecchio accampamento là da noi posto. La protezione era ancora tale e quale l’avevamo lasciata dopo averla costruita con le nostre braccia. Ritrovare dopo tanti anni una propria cosa abbandonata in capo al mondo, ebbene dà una certa emozione.

Ora dopo ora, proseguendo oltre questa nostra vecchia base, crescevano distanze disabitate, inabitabili. Soltanto i condor, altissimi, roteavano ogni tanto in fugaci apparizioni. Gli ultimi radi alberelli, già striminziti e contorti, spingevano le chiome verso valle: erano cresciuti in quel modo ed era il segno impresso dai venti prevalenti e gelidi che irrompono da occidente, dopo aver spazzato lo Hielo Continental. Ormai intorno a noi non v’erano che pendii sterili, franose e precipiti scarpate, torrenti impetuosi che sgorgavano dai ghiacciai vicini, e a dominare il paesaggio si ergevano i candidi picchi che sbucavano, come becchi di condor, da uno spesso collare di nubi.

Così arrivammo ai 1.530 metri del passo del Viento, la porta d’ingresso al gelido nulla. Il Ghiacciaio Continentale Patagonico si apriva davanti a noi senza ritegno, ostentando tutto ciò che di più rude può offrire una distesa di gelo perenne a chi sta per affrontarla.

Prima ancora degli spazi immensi, e prima delle architetture colossali di cime e ghiacciaio, erano i cieli a stupire, i densi azzurri che verso oriente a poco a poco sbiadivano e sfumavano fino a confondersi con i nevai. Il semplice atto di passare un colle e trovarsi in un mondo tanto diverso aveva del prodigioso. Ora davanti a me non si stendeva soltanto un immenso ghiacciaio, ma qualcosa di ben più incredibile fino a sembrare del tutto immateriale. Solo forma e luce, un mare di luce su cui scorrevano trascinate dalle fredde correnti enormi formazioni di nuvole, subito rincorse dalle loro stesse ombre azzurre proiettate sull’abbacinante altipiano. Avevamo finito per bivaccare al di là del passo, al margine del ghiacciaio, e stamane di buon’ora ci eravamo rimessi in movimento diretti verso il Cerro Mariano Moreno.»

 

Un bosco, una foresta, suscitano in noi sensazioni arcane, memorie che non appartengono solo, forse, al nostro Io, ma alla nostra specie; e il ritorno alla foresta possiede, quindi, un particolare significato inconscio, un po’ come il ritorno al mare: è una sorta di ritorno alle nostre origini, una immersione nell’inconscio collettivo e nelle pagine dimenticate di un diario di bordo che è stato scritto quando noi, come singoli individui, non eravamo neppure nati. Ecco perché si tratta di un’esperienza tanto suggestiva: e chi è penetrato in una foresta con animo aperto e con tutti i sensi ben desti, sensibile ad ogni ronzio di mosca, ad ogni muover di foglia, ad ogni occhieggiare di fiore colorato nella penombra, lo sa, lo avverte istintivamente. Sente che penetrare in mezzo ai tronchi possenti degli alberi è come avanzare attraverso le colonne, nella navate di una immensa cattedrale verde, dove la luce del sole filtra attenuata e trepidante, così come, in una chiesa, essa è filtrata dalle vetrate dei finestroni, che provocano mille riflessi iridescenti.

La luce schermata, il grande silenzio, la profondità delle verdi quinte le quali, sempre rinnovandosi, s’aprono davanti al piede dell’uomo, creano una risonanza unica e indimenticabile, che lascia nell’anima sensazioni meravigliose, destinate a stabilirsi per sempre in qualche piega della memoria; sensazioni che, per quanto parzialmente sbiadite dal tempo, torneranno ad affiorare sino all’ultimo giorno, evocando squarci d’eternità e lampi di assoluto: non soltanto ricordi, ma sostanza viva dell’anima, divenuta parte integrante di essa, luminosa e indistruttibile.

Ritornare in una foresta da noi già attraversata molto tempo prima e ritrovarla nostra, significa ridestare nell’anima quella musica, quell’armonia, quella eco profonda; non è solo come ritrovare un amico, ma come ritrovare una parte di noi stessi: forse la più remota, ma anche la più importante, senza la quale eravamo incompleti, quasi mutilati; e vedere i raggi del sole che scendono brillanti in mezzo ai rami e che incendiano di luce le fronde e le cortecce, è come assistere alla ri-creazione del mondo, alla sua redenzione, alla sua solenne glorificazione. Perché cos’altro sono, i tronchi che si slanciano dritti verso l’alto, se non una preghiera carica di ardore; e cosa significa la nostra presenza in mezzo ad essi, se non unire la nostra voce a quella preghiera, il nostro slancio a quello slancio, il nostro cuore al cuore del mondo?

Nessuna foresta è misteriosa quanto il nostro cuore; nessun labirinto di fusti, di rami, di festoni rampicanti, esprime un anelito verso l’assoluto che sia più grande di quello della nostra anima, allorché essa è assetata di verità, di bontà e di bellezza. La verde foresta, con le sue infinite gallerie ed il suo mormorio variegato, è la metafora della nostra dimensione interiore, con le sue ombre e le sue luci, coi suoi riflessi e i suoi miraggi, con le sue armonie e disarmonie. Anche noi vorremmo fare ritorno a noi stessi: vorremmo scrollarci di dosso e dimenticare il superfluo, l’ingannevole, l’illusorio, e giungere al cuore di ciò che, in noi e fuori di noi, costituisce l’essenziale. In qualche angolo profondo noi sappiamo, noi sentiamo che cosa sia l’essenziale, sfrondato di tutto ciò che non lo è: la luce dell’Essere, la pienezza dell’Essere. E quel segno sul vecchio tronco, da noi inciso tanti anni fa, è la prova del fatto che c’eravamo già stati, e che ne portavamo in cuore l’eterna nostalgia...