Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Vineta, la città sommersa, evoca il mistero d’un mondo perduto e favoloso

Vineta, la città sommersa, evoca il mistero d’un mondo perduto e favoloso

di Francesco Lamendola - 05/11/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

 

Vineta è il nome di un’antica città che sorgeva sulle rive meridionali del Mar Baltico, press’a poco fra le isole di Darss e di Wolin, lungo le coste del Mecklemburgo e quelle della Pomerania occidentale.

Tutta la tradizione relativa ad essa, riconducibile soprattutto alla «Jómsvikinga Saga», databile al 1240, ha qualcosa di vago e di leggendario, un po’ come per la mitica città di Ys, che sarebbe esistita sulle coste della Bretagna o della Normandia e che, come quella, sarebbe scomparsa dalla sera alla mattina, travolta da una qualche sconosciuta catastrofe che la sommerse nelle acque del mare. E, come Ys, la sua tragica distruzione sarebbe da ricollegarsi a una colpa imperdonabile e al relativo castigo divino, cosa che ricorda la distruzione di Sodoma e Gomorra narrata nell’Antico Testamento. Infatti per i suoi peccati, o meglio per quelli dei suoi abitanti, la città, già grande e fiorente di commerci marittimi, sarebbe andata incontro al suo drammatico destino.

Di storico, se la città esistette davvero, non si sa quasi nulla, neppure se sia stata fondata dai Vichinghi o dagli antichi Slavi, precisamente i Vendi, una delle ultime popolazioni pagane dell’Europa nord-orientale che finirono per cristianizzarsi; la sua fondazione si perde nella notte dei tempi, un po’ come quella di Venezia, forse nel sesto secolo; il suo apogeo marinaro si colloca fra il X e il XII secolo, a metà del quale dovette aver luogo la sua brusca fine. Una leggenda vuole che, in alcune particolari giornate, quando la luce cade sulle onde del Baltico con una particolare inclinazione, se ne possano intravvedere i tetti, le strade, i palazzi. Sono stati fatti numerosi tentativi per identificarne il sito, ma non si è giunti ad alcun risultato sicuro: gli studiosi oscillano fra diverse possibili località, quattro in particolare, che sono, da Ovest a Est: Barth, sulla terraferma, tra la foce del Recknitz e l’isola di Rügen; Rude, all’estremità settentrionale dell’isola di Usedom; Koserow, al centro della medesima; e Wolin, sull’isola omonima.

È curioso il fatto che anche l’Europa settentrionale possieda la sua piccola Atlantide, come essa sprofondata nel mare nel corso di una sola giornata per le colpe dei suoi abitanti, forse a causa di un uragano; e che la sua memoria sia così poco conservata, al di fuori della Germania.

La leggenda, o la storia, di Vineta, è stata ripresa da musicisti, scrittori e drammaturghi, dei quali sarebbe troppo lungo fare l’elenco; ci limiteremo a dire che ne parlano anche Theodor Fontane nel suo celebre romanzo «Effi Briest», del 1895, e Selma Lagerlöf nel suo «Viaggio meraviglioso di Nils Holgersson», del 1906, così amato e così letto presso la gioventù svedese.

Di Vineta ha scritto anche una autrice tedesca della fine dell’Ottocento, Elisabeth Bürstenbinder, più nota con il suo nome d’arte di Elisabeth Werner (1838-1918), oggi pressoché dimenticata, che però godette, ai suoi tempi, di una celebrità paragonabile a quella di scrittori come Charles Dickens, le sorelle Brontë, George Sand, Hector Malot, Georges Ohnet, specialmente presso il pubblico delle giovani romantiche di buona famiglia: una specie di Liala “ante litteram” della letteratura tedesca, insomma, paragone che non vuol essere affatto riduttivo e meno ancora derisorio, dato che Liala è stata una scrittrice forse un po’ banale, ma a suo modo tutt’altro che insignificante, come certa critica seriosa vorrebbe oggi far credere.

Ci piace dunque riportare il brano della scrittrice Elisabeth Werner che rievoca la leggenda di Vineta (da: E. Werner, «Vineta, la città sommersa»; titolo originale: «Vineta», 1877; versione dal tedesco a cura di M. Giometti, Bologna, Malipiero, 1966, pp. 31-33, 35):

 

«Il Bosco dei Faggi era un tempo un isolotto, ma ora consisteva in un folto di alberi, collegati da un sentiero alla terraferma. Era un angolo remoto di strana bellezza e la solitudine imperava. I due giovani, perciò, si trovarono soli come in mare. Nordeck legò la barca e Wanda si slanciò sulla sabbia lucente. Il Bosco di faggi le si apriva dinanzi mostrando magnifici alberi  dalla larga chioma, che gettavano una spessa ombra sull’erba e su certe pietre di forma bizzarra, sparse sul terreno. Si diceva che esse fossero residui di antichi sismi altari serviti ad immolare giovani vittime, in onore degli dei. Lontano lontano, fino all’orizzonte il mare stendeva la sua azzurra superficie e sembrava di essere in un’isola, nell’immensità dell’oceano.

Wanda si era appoggiata ad un masso ricoperto di muschio e si era tolta il grande cappello di paglia, adorno di nastri neri.

La bianca e vaporosa veste fluttuava al venticello ed era trattenuta in cintura da una larga fascia di velluto scuro.

L?immagine della giovinetta sembrava uscita dal quadro di un celebre pittore. Nordeck la contemplava quasi fosse irreale e fantastica. L’atteggiamento di lieve abbandono della fanciulla, che rovesciava indietro il capo congiungendo le mani sulle ginocchia, rapiva addirittura il giovane innamorato; egli sussultò quando udì la voice squillante di Wanda esclamare:

- Che silenzio sepolcrale! Siamo in mezzo alle pietre sacre, vero?

Nordeck alzò le spalle.

- Dovete chiederlo al professor Fabian, il mio precettore – disse. Egli conosce meglio i tempi preistorici di quelli contemporanei e potrebbe darvi precise informazioni sui nostri avi, parlandovi di questi argomenti con grande entusiasmo.

- Io non parteciperei troppo alla sua gioia- rispose sorridendo la contessina. – Come mai non vi sentite attratto dalle età remote con un simile precettore? Mi sembrate molto indifferente, anzi.

- Non mi curo di queste antiche glorie – soggiunse Nordeck un po’ risentito. – Boschi e campi destano in me solo un desiderio di caccia.

- Sono certa che qui non pensate che a cervi, daini e lepri!

No! – rispose il giovane cin voce dolcissima. – Penso ad altro.

- Bene! – esclamò la contessina. – Guardate sul mare. Quale splendido effetto di luce!

- Waldemaro seguì il gesto della piccola mano e disse:

- Si crede che in quel punto giaccia Vineta.

- Vineta? Che cos’è? – chiese Wanda con curiosità.

- Non lo sapete? Una nostra antica leggenda la descrive.

- Vi prego, narratela!

- Qualunque vecchio pescatore della costa può raccontarla. Io non ne sono capace.

- Voglio sentirla subito… Avanti! Cominciate!

La fronte di Nordeck si corrugò all’ordine così imperioso: - La volete, dunque?

- Sì, lo esigo – ripeté con audacia la giovane.

- La fronte di Waldemaro si oscurò. Il forte temperamento stava per ribellarsi al comando quando gli occhi di Nordeck  s’incontrarono con quelli neri e vellutati della contessina, esprimenti ora una preghiera. L’espressione del volto si addolcì e il giovane disse sorridendo:

- Accontentatevi allora di una descrizione molto prosaica perché non si può dare quello che non si possiede… Stando alla tradizione, Vineta era una splendida città, capitale di questi luoghi. Entro le sue mura affluivano tesori da tutte le parti del mondo fino a che, per castigo divino dovuto ai delitti e alla immoralità degli abitanti, Vineta sprofondò nel mare. I marinai assicurano che nelle giornate serene e calme, si può distinguere la bella città sommersa, le sue torri e le sue chiese; non solo! Assicurano di aver udito anche il suono delle campane.  Dicono altresì che pochi privilegiati abbiano avuto la visione della magica città sorgente dall’abisso per ricomparire alla luce del sole., luminosa e stupenda come nel passato. La gente del Nord ha molta immaginazione…

- Non dite altro, ve ne prego! – esclamò la giovinetta. - Non m’importa che il fatto sia vero o n, la leggenda mi piace perché è bella. […]

All’orizzonte le nuvole si tingevano di porpora e d’oro e il sole scendeva maestosamente nel mare,. Laggiù, dove giaceva Vineta, le onde si coloravano di un rosso dorato e mandavano bagliori di fuoco, luccichii di brillanti. Le antiche leggende hanno un profondo significato. Sono state create dagli uomini e i loro enigmi rivelano i segreti dell’anima e le voci misteriose della coscienza.

Non a tutti appare un mondo fantastico, è vero, ma i due giovani, soli nel bosco, ne subirono il fascino strano, che tolse loro la forza e la volontà di muoversi.

Il vento muoveva appena le foglie degli alberi e il mare parlava al silenzio con voce più insinuante. Le onde orlate di schiuma, s’infrangevano sulla riva, ora con un suono come scoppi di riso, ora come un tenue singhiozzo. Era l’eterna canzone dei flutti e del vento, che si ascolta in estatico raccoglimento.

A un tratto il suono delle campane vibrò sul mare e Vineta, la città sommersa e leggendaria, si destò dal suo sonno secolare e si offrì allo sguardo dei due giovani, provocando una penosa e deliziosa commozione… Visione di sogni?

Nello stesso istante il sole scomparve e così Vineta. I raggi infuocati si spensero a poco a poco e un lungo sospiro agitò il petto della fanciulla, che portò la mano alla fronte.»

 

Il romanzo della Werner mette in scena una storia d’amore romantico sulla sfondo delle tensioni etniche e culturali della Germania nord-orientale, fra la maggioranza tedesca e la minoranza polacca, dovute alla politica di germanizzazione portata avanti dai grandi proprietari tedeschi, gli Junker, e dal governo del Reich, dopo l’unificazione nazionale del 1871; eppure, curiosamente, in essa traspare anche la viva simpatia dell’autrice per la resistenza contro una analoga politica di russificazione condotta dal governo zarista ai danni dei Polacchi stanziati al di là della frontiera prussiana. Ambivalenza che era tipica dei Tedeschi dell’Est: sia lo storico Ferdinand Gregorovius, sia il filosofo Friedrich Nietzsche erano fieri delle loro vere o presunte ascendenza polacche, mentre il governo nazista, dopo la sua salita al potere, modificò i cognomi tedeschi con la desinenza slava in modo da germanizzarli, un po’ come fece il governo fascista, per italianizzarli, con i cognomi della Venezia Giulia che tradivano una origine slovena o croata.

A parte questo, nella pagina della Werner relativa alla leggenda di Vineta si coglie tutto il fascino che le antiche tradizioni sanno ancora esercitare sull’animo degli Europei moderni – o, almeno, che sapevano esercitare fino a quattro cinque generazioni fa -, per quanto questi possano essere colti, pratici e razionali: è l’anima slava, poetica e sognante, che s’innesta sul fronte tronco germanico, più prosaico e smaliziato, e nondimeno anch’esso, a suo modo, romantico; ma è una cosa difficile da spiegare a chi non sa cosa fosse il germanesimo orientale, quale fosse il clima culturale di città come Danzica, Königsberg, Posen, Breslavia. L’anima tedesca è sempre stata bifronte: ad Est, verso il mondo slavo, estatica e sognante, ma anche bellicosa e perfino selvaggia, capace d’improvvisi scoppi di furore; a Ovest, verso la Francia e il mondo latino, molto più metodica e razionale, molto più permeata dei valori e della cultura dell’Europa occidentale. La leggenda di Vineta è una leggenda tipicamente tedesco-orientale, che affonda le sue radici nella temperie slava, quando Vendi, Prussiani antichi, Sorabi e Lituani, nei loro villaggi tribali, ancora praticavano i culti pagani e resistevano tenacemente alla germanizzazione e alla cristianizzazione delle loro scure foreste, dei loro laghi e delle loro paludi. Ma è una leggenda che trova rispondenza emotiva nell’animo di qualunque persona, perché nessuno può restare del tutto indifferente alla memoria di una superba città portuale che le onde del mare sommersero insieme ai suoi sventurati abitanti, stendendo un equoreo sarcofago sopra di essa e occultandone il segreto allo sguardo delle generazioni a venire.

Anche in Italia, specialmente lungo le coste, ma anche presso i laghi delle Alpi e degli Appennini, sopravvivono ricordi di città sommerse dall’acqua: città reali, sparite per lo sprofondamento del fondo marino o, al contrario, per il suo innalzamento, come la bizantina Eraclea, che sorgeva al centro di una laguna nell’entroterra veneto dell’Alto Adriatico, o come l’etrusca Spina, nelle valli di Comacchio; altre leggendarie, d’incerta origine e di dubbia collocazione. Ma l’idea d’una città che giace addormentata in fondo al mare, come il Porto sepolto di Ungaretti, avvolta da festoni di alghe e popolata di pesci, è troppo seducente per non esercitare un fascino strano, cui è difficile sottrarsi...