Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il nostro compito è far continuare la vita

Il nostro compito è far continuare la vita

di Don Felix Diaz* - 05/11/2014

Fonte: Arianna editrice



 

Emanuel Rozental e Vilma Almendra: Don Félix (il Don è in molti luoghi un segno di rispetto, in particolare per le persone anziane, ndt), benvenuto in questo spazio di discussione. Sappia che abbiamo seguito da lontano la vostra lotta e che lei sta parlando con compagni e compagne aventi piena fiducia reciproca. Proveniamo da processi distinti, e alcuni di noi hanno condiviso situazioni simili a quelle che lei vive oggi. Abbiamo il cuore aperto all’ascolto.

 

Félix Díaz – È una gioia essere con ciascuno di voi e sono molto felice di stare parlando con amici e compagni che sono su questo cammino e che sono riusciti a riunirci per ricercare soluzioni ai problemi. In Argentina siamo 32 nazioni indigene che abitiamo il paese. Siamo in un momento molto critico per le persecuzioni che viviamo. Stiamo reclamando rispetto.

 

Soffriamo per varie carenze, di acqua, di salute, di tutti i servizi e diritti fondamentali, specialmente la mancanza di garanzie giuridiche per i nostri territori. Tutte queste necessità e diritti dovevano già essere stati risolti. I governi si credono padroni dei nostri territori, delle nostre vite. Magari potessimo lottare e lavorare uniti!

 

Il processo che stiamo portando avanti è molto duro e disuguale. Ora ci siamo riorganizzati e questo lo dico sempre alle persone interessate a questo processo. Da parte mia devo cominciare col confessare e condividere che, nel mio caso, questa lotta ha significato e  ha richiesto di riscoprire me stesso, chi sono, da dove vengo, chi sono i miei antenati e dove voglio dirigermi.

 

La nostra storia non è nei libri bensì nella memoria dei nostri anziani. Cominciai a lavorare con essi e scoprii cose che non conoscevo. Quando giunsero gli evangelizzatori, uno dei primi fu un britannico, che riuscì a toglierci le piume e le frecce affinché vivessimo come cristiani e non come selvaggi.  Questo processo silenziò la nostra voce. Fummo vittime di questo sistema.

 

Nel 2000 ho iniziato a lavorare il tema dell’identità. Fu il mio incontro con il razzismo e la discriminazione. Prima non lo avvertivo perché volevo essere parte di una società. Ma scoprii di non trovarmi in questo spazio. Mi misi a lavorare cercando questa traccia, questa orma che è nella memoria dei nostri anziani (majores può significare sia anziani che antenati, ndt). E questa non si trova in palazzi, in templi, in città. È nei territori. Incominciai a rendermi conto della nostra medicina, dei territori, del modo di cibarsi, della spiritualità. È nel territorio che si trova la nostra esistenza,la nostra radice.

 

Incominciai a studiare i diritti costituzionali. Conobbi questa menzogna quando scesi sulla strada per esigere che non si continuasse a restringere il nostro territorio, che lo si ampliasse per poter continuare a difendere la nostra cultura. Per applicare quello che chiamano “diritto interculturale bilingue”. Questo diritto era stato creato affinché potessimo organizzare il nostro modo di vivere, di pensare, di lavorare.

 

Per ottenere queste garanzie non c’è sostegno alcuno. Siamo di fronte a un inganno enorme. Cominciai a lavorare su questo. Studiai i libri. Non ho una formazione  accademica. Ho solo un terzo anno delle elementari. Gli antenati e i nostri valori. Scoprii che ciò che siamo è cosa diversa dalla politica economica e commerciale. Così scoprii che la nostra vita non ha relazione con questa economia che stabilisce che la vita costa tanto, la terra costa tanto, etc.

 

Le cose esistono affinché noi uomini possiamo coesistere con la diversità degli esseri che coabitano sui territori. Quando ci riteniamo padroni del territorio, siamo fuori da questo diritto ancestrale che ha consentito ai nostri padri e nonni di convivere senza problemi coi pesci, gli uccelli, i serpenti. Abbiamo potuto convivere.

 

Poi arrivarono gli ‘intellettuali’ e distrussero tutto ciò che consente l’armonia con la madre terra. Portarono con loro la mentalità della commercializzazione della vita della madre terra. A tutto dettero un prezzo. Oggi vogliamo dire basta. Ma come fai quando non hai di che mangiare, non hai acqua? Quando ti umiliano negli ospedali e nei luoghi pubblici?

 

Per questo vogliamo vivere degnamente e recuperare i nostri valori. Rinascere come cacciatori, pescatori, sciamani. In sintesi, lottiamo per la nostra autonomia. Però, come fare senza i territori? Gli stati vogliono toglierci i territori, perché hanno paura che recuperandoli cessiamo di essere mendici. Quello che vogliamo è essere autonomi, che la nostra autonomia e la nostra storia vengano rispettate. La nostra non è una storia scritta. È nella nostra memoria, nel nostro territorio, perché lì è il sangue, nei nostri territori. Lì sono i nostri spiriti che hanno diritto, come noi, a vivere.

 

Abbiamo il diritto di vivere. Non per una conquista economica o per un posto ufficiale. Vogliamo prolungare la vita. Essere su questo cammino così complicato è come camminare su un campo minato. Non sappiamo se riusciremo. L’obbiettivo è la libertà. Abbiamo indicato il cammino, affinché chi viene dopo di noi trovi le nostre orme.

 

La funzione del comando deve essere a servizio del popolo, non di un leader padrone. Quaggiù quello che accadde fra gli indigeni fu questo, il fenomeno del leader padroni. Per questo abbiamo impostato la nostra organizzazione in modo da avere cinque rappresentanti di ciascun popolo, sia uomini e donne anziani che giovani. Io sono il Querashe. La figura di portavoce. L’autorità somma è l’assemblea generale che definisce gli obbiettivi della politica. I Consigli decidono la politica interna. Io non posso prendere decisioni. Devo fare riferimento al Consiglio e il Consiglio e l’Assemblea decidono. Il governo nazionale come  quelli provinciali hanno un forte rifiuto di questo meccanismo.

 

Abbiamo sentito che l’ONU ha promosso un riconoscimento dei diritti universali (probabilmente il riferimento è specifico ai ‘diritti comunitari’ dei popoli indigeni, ndt). Non vogliamo restare spettatori, vogliamo essere parte attiva e vogliamo che i diritti dei popoli indigeni vengano rispettati. Non può essere un discorso. Deve essere una pratica. La realizzazione è complessa. La sfida è lanciata, e la proposta è pronta. Dobbiamo lavorare su diversi fronti.

 

L’impegno è quello del dialogo perché gli anziani hanno insegnato che dobbiamo lavorare con rispetto e armonia reciproca. Se colpiscono qualcuno, dobbiamo resistere al colpo. Se rispondiamo finiamo in una guerra e così non rispettiamo la vita. Dobbiamo assumere la multiculturalità dell’essere umano. Siamo diversi. Non siamo gli unici. Non siamo padroni della terra, siamo parte di essa e la terra fa parte della nostra umanità […]

 

Faccio sempre il paragone con la donna che porta la vita  nel mondo. È la maestra, l’infermiera. Mai viene pagata. Lo fa per amore. Così è per la Madre Terra. Dobbiamo valorizzare questo sentire di questa donna. Se la disprezziamo, disprezziamo la vita stessa e il suo valore. Dobbiamo ristabilire i ritmi del nostro cammino con quelli della Madre Terra secondo la nostra memoria impressa nella sapienza degli anziani. Ad esempio, dobbiamo lavorare durante il giorno e non durante la notte […] Rispettare i tempi e i ritmi per favorire la vita. Dobbiamo avere un equilibrio. Non può esserci una superiorità scientifica o tecnologica che vuole sostituire l’essere umano.

 

Ci hanno resi poveri e ci hanno uccisi per un interesse economico di accumulazione egoista. Non vogliamo che continui così. Che vengano pure analizzati e corretti i nostri errori, ma dobbiamo esigere che la differenza delle idee venga tollerata. I governi pensano solo alle elezioni e al potere. Dietro a questo c’è sempre l’accumulazione della ricchezza, l’economico. Non è una politica saggia, è una politica egoista.

 

Domanda: sappiamo della lotta del suo popolo e di quella di altri popoli. A Formosa, nel Chaco, la lotta dei Qom, dei Wichi. […] Don Félix, può informarci in concreto su questo processo di lotta e anche delle sue fasi? […] 

 

Félix Díaz – Era il 2002. Gli anziani dissero: la Terra non ha un valore economico perché è la vita. Anche la vita è sacra. Ci rendemmo conto dell’importanza di difendere questo pezzetto di territorio che lo stato ha riconosciuto come riserva indigena. Cominciammo a impegnarci. Ci scontrammo con l’interesse economico del Governo Provinciale. Il Governatore vuole che il territorio si trasformi in sfruttamento turistico e economico.

Intraprendemmo una marcia per esigere i nostri diritti, per mostrare la nostra decisione. Ci isolarono,, senz’acqua né alimenti né salute lungo la strada, finché il governo si stancò. 400 poliziotti ci affrontarono senza alcun ordine del giudice. Volevano scacciarci dalla strada perché eravamo ‘spazzatura’, ‘ubriaconi’, ‘drogati’, ‘miserabili’. Non reagimmo. Chiedemmo di sapere  da dove veniva l’ordine di sgombero. Il commissario, Generale Muñiz, dette ordine di cacciare gli indios di merda dalla strada, senza decreto giudiziario. I poliziotti gridavano Uccidete Félix, senza arrestarlo! La voce si sparse fra i fratelli che mi protessero e io fuggii sulla montagna e, grazie all’aiuto degli anziani, rimasi nascosto una notte.

 

Il fratello  Roberto López mi esortò a fuggire: Per favore vai via da qua. Se ora ti uccidono ci scoraggiamo e perdiamo l’obbiettivo. Devi salvarti per continuare la lotta. Lascia noi a difendere il nostro lavoro. Ferirono con pallottole 32 fratelli. Attaccarono le donne coi cavalli, fratturando loro gambe e braccia. Arrestarono 34 anziani, colpendoli. Erano abituati a essere colpiti, la loro vita era stata sempre così. I giovani riuscirono a fuggire. Gli anziani e le anziane subirono l’attacco brutale. Il mio compagno Roberto López venne assassinato.

 

Perdemmo sangue. Perdemmo delle vite. Ci bruciarono 17 case, fra queste la mia. Perdemmo tutto il poco che avevamo, anche i documenti di identità. Tutto incendiato, senza ordine giudiziario. Ad oggi nessuno di quei criminali è stato punito. Ma i 34 indigeni, vittime della repressione e dell’abuso, sono sotto processo. Io sono stato segnalato come terrorista potenziale, accusato della morte di un poliziotto. Ma nulla si fa per punire la morte del fratello Roberto López. Mi accusano di guidare la ribellione di questo popolo che non vuole essere espulso e maltrattato nella sua stessa terra. Il governo di Formosa mi ha  privato dei documenti di proprietà e io devo pagare come se avessi invaso un territorio altrui.

 

Ma siamo coscienti che questo è territorio Qom e nessuno ce lo potrà togliere. Ci hanno già tolto la Laguna Blanca. Ci hanno tolto anche la montagna. Non vogliamo che continuino a privarci delle risorse; in nome dello sviluppo vogliono giustificare il furto ai popoli indigeni, e questo non lo consentiremo.

 

Manuel: Grazie Don Félix, ascoltandolo ho pianto di dolore e di rabbia. Quello che ho ascoltato è accaduto anche a molti di noi. Apriamo lo spazio della conversazione.

 

Seguono varie domande e risposte che per necessità di spazio omettiamo anche se con dispiacere. Ci limitiamo a alcuni spezzoni delle risposte di Don Félix.

 

Félix Díaz – Nel territorio Wichi c’è petrolio ma le comunità non hanno né acqua né case. Portano via la nostra ricchezza e noi continuiamo a mendicare. Non credono che siamo soggetti di diritto. Credono che siamo oggetti di proprietà dello stato. […]

 

In risposta alla domanda se in Argentina c’è stata cooptazione di leaders e divisione nelle comunità, Don Fèlix risponde: È accaduto per la maggioranze dei nostri popoli, perché la cooptazione fa parte di una strategia. Prima i leader venivano eletti dalle nostre comunità. Molti di loro sono morti nelle lotte contro lo Stato. Oggi non è più così. Il leader oggi deve corrispondere a altre norme: deve essere avvocato, deputato, intendente, consigliere comunale e essere attento a quello che la politica dei partiti dice e non a ciò che dice il suo popolo. Questo è il problema.

 

Ma non ci sono due spazi. Dobbiamo scegliere e essere chiari: difensori del governo o difensori delle comunità. Siamo difensori dei nostri popoli. Siamo poveri, ma non ci vediamo come poveri. Siamo ricchi, perché comprendiamo e conosciamo quello che è il valore umano. La maggioranza dei leader deve confrontarsi con se stesso. Sapere cosa accadrà alle future generazioni. Se potranno vivere pacificamente o saranno espulse. Se stanno operando affinché le prossime generazioni vengano rispettate. Questo non significa che non ci adattiamo a ciò che è necessario o che ci chiudiamo nel passato. Io credo, ad esempio, che la maggioranza dei nostri fratelli che possono incorporare nella lotta la tecnologia, devono farlo. Io vivo sulla montagna. Non possiedo energia (elettrica), né acqua potabile, né internet. Non mi lamento. Uso ciò che ho e che mi è sufficiente e mi orienta nell’andare avanti. Invito ad analizzare, ciascuno di voi, la propria situazione. Ciascuno di noi confidi in se stesso e negli altri per fare grandi cose a favore della vita. Dobbiamo essere trasparenti e decisi a cambiare questa vita e credo che questo è ciò che oggi sta avvenendo. Di fronte alla schiavitù degli orari e del lavoro dobbiamo saperci equilibrare e prendere il tempo a favore della nostra vita e dei nostri popoli per restare in cammino. Cercare il modo di non sottometterci alla schiavitù, che ci nega la possibilità di riflettere e riconoscere il senso del vivere.

 

Domanda: Come fate  in Argentina per collegarvi (“tesservi”) fra popoli e fra i processi delle lotte che state conducendo?

 

Félix Díaz – Comunichiamo usando la lingua materna. La Costituzione riconosce il nostro diritto e la nostra identità. Cominciamo da lì. Abbiamo iniziato un lavoro intenso per formare i fratelli. Vivo nel mio territorio. Lo percorro e visito la gente lavorando e condividendo. Così condividiamo, parlando del poco che abbiamo e del molto che ci manca. Produce risultati. Le persone si rendono conto del fatto che il potere sta in noi, non nei politici che abbiamo eletto. In questo lavoro sperimentiamo cosa significa la decisione politica. [...] In questi giorni stiamo collegandoci per discutere sulle nostre richieste al governo. Credo che questa ricerca di alleanze fra i popoli sia più efficace di quella coi politici. È il momento di togliersi le bende dagli occhi e il morso dalla bocca e agire in accordo fra noi. Siamo capaci di fare cose che non abbiamo mai fatto. Io non sono solo e voi potete contare su di me.

 

Domanda sulla organizzazione dei popoli indigeni in Argentina

 

Félix Díaz – L’Organizzazione Plurinazionale dei Popoli Indigeni ha organizzato un Vertice dove mi hanno eletto portavoce di 20 nazioni indigene dell’Argentina. È un compito molto impegnativo. Sto lavorando per tutti i popoli, oltre ai problemi che ci sono nella mia comunità. Stiamo trattando di ottenere che il governo nazionale ci riconosca una reale autonomia.

 

Questa è la richiesta che viene dai vari popoli ed è molto difficile, ma ci sentiamo molto motivati per arrivarvi. Chiediamo che sia rispettato ciò che la Costituzione ci riconosce, il diritto alla nostra identità culturale. Abbiamo il diritto ad essere autonomi, diritto al territorio e alle sue risorse, amministrati dai popoli che vi abitano. I territori sono in mano a Associazioni Civili condizionate dallo Stato e dalla politica elettorale. La Legge 23302, dice che in caso di sterminio (!!!! Ndt !!!!) o di estinzione di un popolo, i suoi beni passano allo Stato !!! Credevamo che la Associazione Civile fosse un meccanismo che ci proteggeva ma con questo tipo di legislazione non è così. Cercano di sterminarci o di farci estinguere per espropriarci. Non c’è legge che garantisca il diritto territoriale collettivo. Non c’è legge che riconosca qualcosa al di fuori del diritto di proprietà individuale.

 

Dobbiamo ottenere un accordo attraverso il dialogo. Non ci misureremo con le armi. La nostra gente muore di fame e di sete. Dobbiamo riuscire col dialogo. Che le realtà partitiche ci ascoltino. Siamo prossimi a una sollevazione nazionale.

 

Domanda : Qual’è la relazione con altri processi di mobilitazione e lotta? Ve ne sono molti a livello nazionale o locale: contro le attività minerarie, l’agrobusiness, gli OGM (Monsanto) etc? Perché non avete un’articolazione con queste?

 

Félix Díaz – Stiamo appoggiando le varie lotte sociali, contadine e urbane. Ma quando ci mobilitiamo noi, gli altri non sono presenti. Questo è il problema. Vogliamo concertarci. Prima o poi accadrà. Noi siamo ricettivi. Magari lo fossero anche le organizzazioni di difesa ambientale!

 

Seguono vari commenti e scambi di osservazioni. In particolare una delle domande è stata su come in questa situazione di fame, povertà e avvilimento si sia potuta riaccendere la resistenza e il desiderio di riscossa.

 

Félix DíazIn verità, per uscire da questo problema la sfida è come ritornare a essere noi stessi. I cacciatori sono tornati a cacciare, i pescatori a pescare, le donne a raccogliere. Il governo diceva, lasciate fare gli indios, che vanno a estinguersi da soli. Decidemmo una strategia di lotta. Nessuno lo sa. La strategia è la lingua materna. Il Qom. Nessuno capiva quello che dicevamo. Nessuno comprendeva cosa significasse essere indigeni.  Recuperare la propria identità e usare quello che ciascuno sa. Non copiare un’ideologia, una dottrina. Usare il modo indigeno per lottare come popolo indigeno. I fratelli portavano acqua dalla montagna, da dove crescono i cardi. Vi aggiungevano acque piovane limpide e cristalline. Il cibo veniva preso sulla montagna, nei campi, nelle lagune. Uno sguardo dentro al mondo indigeno. Ci siamo liberati dal chiedere. Potemmo resistere un anno. Sulla strada e nella Avenida 9 de julio in Buenos Aires (non è chiaro a quali fatti si riferisca, forse alla grande marcia indigena a Buenos Aires del maggio 2010 - ndt). Usare la strategia indigenza perché viviamo e apparteniamo a questo mondo.

 

Saluto e commento finale di Manuel. Risposta di Félix Diaz.

 

Félix Díaz – Grazie per questo scambio. Ringrazio per ciò che state facendo e auguro che possiate continuare a cercare un cammino alternativo per la vita. Abbiamo il compito di prolungare la vita. Questo è ciò che ci accomuna. È possibile poiché ciascuno fa ciò che può nel proprio territorio. Stiamo ritrovando noi stessi. Dobbiamo continuare a farlo. Siamo stati manipolati. Stiamo costruendo una storia per ridare valore alla vita. La Madre Terra vuole che i suoi figli vivano bene. Dobbiamo ascoltare questo desiderio della nostra madre. Che abbiate molta forza e che continuiate ciascuno a apportare il proprio granello di sabbia.

 

 


 

Arrivo a Buenos Aires della grande marcia degli indigeni il 20 maggio del 2010, vigilia del 200mo anniversario dell’indipendenza del paese

 

RIFLESSIONI POST-LETTURA

 

Le parole di Don Félix sembrano appartenere a un altro mondo e ad altri tempi. Diritto al territorio proprietà comune di una comunità (non alla terra intesa come campo da lavorare ma al territorio con i suoi boschi, le sue acque, i suoi animali…), diritto all’autonomia. Per vivere in dignità. Dignità, dignità, dignità! gridavano gli indigeni in Plaza de Mayo. Non vi troviamo forse qualcosa che abbiamo perduto?

Una breve nota storica. La completa sottomissione del centro-sud dell’Argentina avvenne a fine XIX secolo in concomitanza con una grande ondata di immigrati patrocinata dal governo nazionale (decade del 1870). Fra di essi in buon numero gli italiani. Occorreva popolare e far fruttare i ricchi territori ‘liberati’ dai popoli indigeni con un orribile genocidio sul quale le varie storie ufficiali dell’Argentina tacciono o sorvolano. Ecco le poche righe reperibili su Wikipedia:

La Conquista del deserto (in spagnolo: Conquista del desierto) fu una campagna militare portata avanti dal governo argentino, e guidata principalmente dal generale Julio Argentino Roca negli anni 1870, per strappare la Patagonia al controllo delle popolazioni indigene. Recenti studi ritraggono la campagna come un vero e proprio genocidio perpetrato dall’Argentina contro le popolazioni indigeneì, mentre altre fonti vedono nella campagna la volontà di soggiogare quei gruppi che si rifiutavano di sottomettersi alla dominazione dei bianchi. La questione, solitamente riassunta nella frase “Civilizzazione o genocidio?”[3] è ancora oggi oggetto di dibattito.

Da ieri a oggi

 

Sconcertante l’ultima frase: “Civilizzazione o genocidio?”. C’i sono ancora dubbi in proposito… Civilizzazione, qui come nei numerosi casi analoghi, è la risposta che di fatto è passata nella nostra cultura artefatta. L’argomento sarebbe vasto e qui lo accenno soltanto, non senza dimenticare di ricordare il vasto territorio patagonico oggi in mano alla famiglia Benetton (circa un decimo dell’intera Patagonia, ho letto) e alle vicende, più oscure che chiare, del suo acquisto e della sua ‘liberazione’ da fastidiosi residui di mapuche. Ma non solo mapuche, ci ricorda Don Félix.

 

Venti anni or sono la vulgata parlava ormai di scomparsa di discendenti di popoli originari in Argentina, salvo alcuni residui, confinati in “riserve” miserevoli, come mi narrò con orrore (1997) una famiglia di turisti argentini nel lungo viaggio del trenino che arrancando sulle Ande saliva a El Cusco, in Perù. Ma anche loro parlavano di realtà quasi scomparsa. E così ho creduto a lungo.

 

Il “rinascimento indigeno” in America latina avvenuto nelle ultime decadi è una realtà incoraggiante, ma il suo cammino è quasi ovunque irto di difficoltà e di feroci resistenze. È un dato di fatto che anche la sinistra latinoamericana non ha ancora saldato il debito con i popoli indigeni, salvo alcune poche luminose eccezioni fra le quali quella del peruviano Mariategui che, esiliato in Italia negli anni trenta, per la cronaca, sposò una mia conterranea.

 

 Ovunque i “governi progressisti” sono in rotta con i popoli originari, in Brasile (con quello che di essi resta!) come in Ecuador, per non parlare di Colombia e Perù ove i governi progressisti non sono neppure sulla carta. E non va meglio in Ecuador, Bolivia e Venezuela malgrado le loro meravigliose costituzioni plurinazionaliste. Perché fra le parole e i fatti, come ci ricorda Don Félix, c’è un oceano e non un semplice mare. La Bolivia!, esclamerà qualcuno. Già, la Bolivia dove il buon ‘indigeno’ Morales ha fratturato il movimento indigeno, relegando la notizia in ultima pagina, in genere non letta, grazie alle sue abili prese di posizione quando gira il mondo. E di Morales parla anche, Don Félix, nella parte omessa che riprenderò in altro contesto.

 

Ma non solo i governi ignorano le richieste dei popoli indigeni. Noi, dice Don Félix, partecipiamo alle altrui proteste, ma siamo lasciati soli nelle nostre. Gli indigeni di tutti i paesi latinoamericani pagarono tributi altissimi di sangue nelle lotte di indipendenza, ottenuta la quale furono di nuovo emarginati.

 

Che dire poi dell’attenzione, più che giusta, agli orrori della dittatura militare e alle decine di migliaia di “desaparecidos”, e, in parallelo,  del silenzio sul perdurante genocidio degli indigeni.? I popoli indigeni, ancora oggi, non hanno un posto nella cultura ‘progressista’. O ce l’hanno a intermittenza. Quando serve.

 

La lettura dell’intervento di Don Félix è straordinariamente ricca di spunti e di riflessioni, a dimostrazione che non sono i dottorati a rendere la gente intelligente e capace di leggere la realtà. Parlavo sopra di ‘rinascimento indigeno’. Quale è il suo motore? Non voglio emettere giudizi categorici, ma dalla poca conoscenza diretta, acquisita in questi anni nel mondo indigeno di Abya Yala, lo indicherei nella parola dignità, la richiesta che passa di bocca in bocca delle popolazioni indigene in ribellione, dal Chiapas alla Patagonia. Dignità e quindi autogoverno. Basta elemosinare i diritti.

 

Azzardo: l’esatto contrario di quello che accade nel nostro occidente, dove la dignità è stata soppiantata dal bisogno di ‘apparire’, a costo di qualunque umiliazione interiore?

 

Dalle parole di Don Félix emergono i tratti essenziali di una cosmovisione che trova nella vita ancora un senso e un dovere: quello di proteggerla e di espanderla in un rapporto armonioso con la natura e di dialogo fra le comunità umane. Senza “guerre umanitarie”.

 

Aldo Zanchetta

 

  Un personale omaggio a Adolfo Pérez Esquivel, classe 1931, premio Nobel per la Pace nel 1980, strenuo sostenitore della causa indigena in Argentina e in tutta Abya Yala

 


 

   

Saluto e commento finale di Manuel. Risposta di Félix Diaz.

 

 

 

SEGUE UNA SERIE DI FOTO RELATIVE ALLA MARCIA

 


 

LA MARCIA DEL 2010 PORTO’ A BUENOS AIRES OLTRE 8.000 INDIGENI PROVENIENTI DA MOLTE LOCALITA’ DEL PAESE DOBE VIVONO I DISCENDENTI DI OLTRE 20 ETNIE ORIGINARIE. ALCUNI MARCIARONO PER 2.000 KM.

 

Tras recorrer hasta 2.000 kilómetros, miles de aborígenes argentinos llegaron a la capital el jueves.

Tras recorrer hasta 2.000 kilómetros, miles de aborígenes argentinos llegaron a la capital el jueves.

Tras recorrer hasta 2.000 kilómetros, miles de aborígenes argentinos llegaron a la capital el jueves.


 

LA MARCIA ARRIVO’ A BUENOS AIRES IL 20 MAGGIO 2010, ALLA VIGILIA DELLA CELEBRAZIONE DEL 200mo ANNO DALL’INDIPENDENZA

 

 


 


 

*indigeno Qom, querasche del suo popolo e portavoce del

Coordinamento dei Popoli Indigeni dell’Argentina.

 

Traduzione, riduzione e postfazione a cura di Aldo Zanchetta. Il testo integrale è reperibile su www.pueblosencamino.org[1]


 

 



[1] Col fine di contenere la lunghezza, sono state condensate, seppur interessanti, le domande e i commenti dei vari partecipanti alla conversazione, fra i quali citiamo Emanuel Rozental, Vilma Almendra, Oscar Olivera, Hector Mondragon etc. Dell’intervento di Don Félix sono stati eliminati alcuni pezzi ma quelli riportati sono una traduzione letterale delle sua parole.