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Giovanni Gentile: dall marxismo all'umanesimo del lavoro

di Luca Leonello Rimbotti - 12/11/2014

Fonte: centroitalicum

 

Nel momento in cui ogni azione politica viene di fatto impedita dall’oggettiva mancanza di ogni pur minima condizione favorevole, ciò che si può fare è riposizionare le idee, ricollocare i concetti, insomma operare uno sforzo di santissimo “revisionismo ideologico” interno, in grado magari di potenziare gli immaginari del domani e renderli più acuminati. In quest’ambito, ripensare oggi Giovanni Gentile può servire a dotare il pensiero antagonista di un valido strumento, per nulla superato come potrebbe apparire a prima vista, ma al contrario quanto mai vivo bacino di idee radicalmente opposte a quelle mondialiste egemoni nella società in cui viviamo.

Se pensiamo che fu il filosofo siciliano a studiare tra i primi in Italia il marxismo (si ricordi che Lenin ne conobbe gli studi e ne parlò), a sottoporlo ad analisi e a servirsene per meglio comprendere le aporie della modernità, e se pensiamo anche che il marxismo – a differenza dei marxisti, defunti da un pezzo – ancora nasconde qua e là alcune buone indicazioni generali sulla crisi del modello borghese-capitalistico, noi vediamo quanto utile potrebbe essere un confronto con queste idee. Nulla deve essere tralasciato per comprendere la gravità della crisi scatenata dal modello capitalistico e cosmopolita oggi egemone. Si tratta di un confronto quasi sempre a contrario, ovviamente, in quanto Marx è frutto egli stesso del sistema economicista borghese, partendo dall’idealismo hegeliano ma creando un dogma materialistico di totale immanenza, ma che ugualmente trattiene indicazioni di massima meritevoli di essere rilanciate. La concezione della realtà come prassi, innanzi tutto. Essa proveniva del resto dal campo dell’idealismo, e fu presente in Fichte che non poca influenza, su questo punto, ebbe su Marx. Non per caso Gentile chiamò il metodo marxiano un “materialismo metafisico”, fondato su una intuizione del mondo che, se pure alla fine dogmatica e limitata, consentiva di parlarne come di una grande concezione del mondo: una completa “filosofia della storia”, nella quale poter leggere le virtù di un pieno storicismo.

E’ in questo modo che Gentile – nei suoi scritti giovanili di fine-Ottocento su Marx – scrisse che “la materia del materialismo storico, lungi dall’essere esterna ed opposta all’Idea di Hegel, vi è dentro compresa, anzi è una cosa medesima con essa”. In un certo senso, il materialismo storico di Marx nasconde al suo interno ancora intatto l’idealismo di Hegel, e se pure il primo rovescia il postulato fondamentale del secondo, di fatto ne ricrea il protagonismo attraverso la convinzione che il soggetto pensante è l’elaboratore della realtà e che le contraddizioni sociali ed economiche possono e devono essere padroneggiate a partire da un’idea non individualistica dell’uomo. L’uomo è essere sociale: questo nesso, fondamentale in Marx, permane in Gentile. E dunque anche la realtà, affidata alla comprensione umana, non è semplice cosa data, ma pensata, voluta, attuata. Realismo e idealismo, dunque, in Gentile non costituiscono più antitesi, ma sintesi. Il mondo è costruito su entrambe le disposizioni. Questo dette vita ad alcune prese di posizione che poi avranno il loro preciso riverbero nella filosofia matura di Gentile. Vogliamo citare un caso di riflessione “marxiana” di Gentile? Eccolo: “La società, che è un tutto organico, è insieme causa ed effetto delle sue condizioni; e bisogna ricercare nel senso stesso della società la ragione d’ogni suo mutamento” (La filosofia di Marx, 1899).

La filosofia della prassi, che racchiude in nuce l’attualismo gentiliano, è a questo punto un movimento rivoluzionario dello spirito che segnerà la storia del Novecento, qualcosa che trascina le idee sul terreno della loro realizzazione, liberandole dalla prigione dorata dell’utopismo improduttivo.

Dopo attraversata la stagione “marxiana”, condotta specialmente di conserva con l’insegnamento di Spaventa, che fu uno dei pochi, in Italia, a confrontarsi con ciò che all’epoca era il fondamento del pensiero rivoluzionario, Gentile imboccò una strada che fu tutta sua e che, dalla tradizione spiritualistica dei filosofi risorgimentali (Gioberti su tutti), lo condusse a ciò che potremmo chiamare tranquillamente l’unico grande pensiero filosofico-politico prodotto in Italia nel secolo XX. Qualcosa che, per conformazione e intensità, fu molto maggiore anche di quanto scritto da Croce, spesso arrestatosi sulla soglia di uno storicismo morale di spessore, ma tutto sommato circoscritto. Gentile, al suo confronto, fece invece vera ideologia, cioè profonda e totale concezione del mondo, fornendo armi culturali in un momento-chiave di storia non solo italiana.

La conformazione dell’attualismo come filosofia dell’individuo assoluto e della prassi conduce il discorso verso quella che è la grande sintesi dialettica: l’individuo empirico, quello realmente esistente, vive ed esiste in quanto atto in atto, come diceva Gentile, cioè come soggetto che pensa e costruisce simultaneamente, riflette e agisce, unificando pensiero e azione in un’unica dimensione, in cui ideale e reale coincidono, alla maniera con cui, in Hegel, la medesima cosa accade fra reale e razionale. Questa svolta, intesa a superare dialetticamente i limiti di materialismo e idealismo sempre concepiti in opposizione tra loro, significa che l’individuo è un’unità assoluta, che serba al suo interno la coscienza e la consapevolezza dell’universale quanto del relativo. Siamo ad un passo dalla concezione dell’uomo totale. Una volta messo in relazione piena con la realtà entro cui si muove, vale a dire la società, questo soggetto produrrà lo schema di una potenza interiore definitiva, e quindi rivoluzionaria in senso eminente: “Ogni limite è superabile per quest’intima energia che è la stessa essenza del pensiero pensante” (Introduzione alla filosofia, 1933). Assunti di tal genere non saranno privi di ricadute sulla pedagogia gentiliana – momento essenziale dell’attualismo – se solo si pensi al concetto fra discente e discepolo come organismo unitario, un tutt’uno di scambievole simbiosi, così diverso dalla stessa concezione tradizionale, di un sapere cioè che si tramandi dall’alto in basso, dal “maestro” all’“iniziato” in modo quasi meccanico, oracolare, facendo del primo un elemento attivo, ma del secondo un’inerzia passiva.

Fu Ugo Spirito – il più importante allievo di Gentile - a segnalare che questi presupposti portavano assai lontano. L’Io come soggetto trascendentale avvìa la considerazione verso la certezza che lo spirito come atto puro faccia coincidere l’atto dell’Io con il tutto, creando l’artefice filosofico della nuova ontologia rivoluzionaria: l’Uomo-Dio. Colui che, soppiantando l’individuo come cellula solitaria, gli conferisce una qualità e un destino particolari, tali da renderlo indistinguibile dall’insieme della realtà, infine producendo ciò che Aldo Lo Schiavo ha definito come “mistica sommersione dei molti nell’Uno-tutto” (La filosofia politica di Giovanni Gentile, 1971).

All’interno di questa totalità si hanno alcuni snodi essenziali: l’indistinzione fra teoria e pratica, l’eticità dell’atto che si compie, la libertà dello spirito, la storicità assoluta della volontà. Su questa base, Gentile dà forma al concetto di autorità come elemento sintetico di male e bene, giustizia ed errore, poiché nello spirito - autorità assoluta che regola tanto l’individuo quanto la comunità – convivono tutti gli aspetti del reale, tanto che persino la legge e la giustizia, che limitano di fatto la libertà umana, sono però esse stesse dipendenti dalla volontà, nel momento in cui questa coscientemente limita se stessa.

Questa è la piattaforma su cui Gentile costruisce lo Stato etico. Somma e riassunto di tutti gli aspetti del reale: l’economia, la politica, la legge, la libertà, non sono che fasi parziali e finite di ciò che tutte le ricomprende, cioè lo Spirito. Lo Stato etico, in questo modo, è l’aspetto politico-istituzionale dell’attualismo, che vede nel valore etico la sostanza dell’essere uomo. In quanto assoluto che ricomprende i relativi, l’eticità dello Stato è la garanzia che la realtà non è abbandonata alla necessità individuale, ma sottoposta all’autorità di una legge comunitaria. Lo Stato gentiliano è stato spesso sottoposto a critica aspra, anche perché molti vi videro una semplice accentuazione della concezione liberale. E’ pur vero che Gentile si rifece ai miti risorgimentali. Ma la sua idea di Stato ne costituisce una radicalizzazione di tali proporzioni, che ne fa uscire la sostanza dal recinto liberale, presentandosi – caso mai – come qualcosa di socialista, comunque di socializzato.

Il Tutto che lo Stato racchiude è infatti la nazione, è il popolo. Lo Stato non è l’impalcatura burocratica, e neppure il potere istituzionale, il mostro freddo di cui parlava Nietzsche. Lo Stato di Gentile è piuttosto la struttura di protezione che raccoglie e stringe in unità il molteplice, ed è anche, su un piano pratico, la macchina che organizza la vita associata. Ed essa, soprattutto, veicola la sacralità, la religiosità dello stare insieme come nazione, ciò che accomuna nel comune destino. Lo Stato di Gentile è dunque un elemento propriamente religioso. La forza dello Stato, infine, che è l’altra e più vera faccia dello Stato forte, consiste non già nell’autorità assoluta del potere nei confronti dei cittadini, bensì nell’accettazione volontaria dell’autorità riconosciuta, che costoro liberamente sottoscrivono. Lo Stato etico è lo Stato del consenso, dell’identificazione volontaria e consenziente di tutti nel tutto comunitario. La realtà che, come dice Gentile, è in interiore homine, vuol dire che rappresenta l’unificazione del pensiero e dell’azione degli uomini entro uno sforzo comune, ciò che costituisce la sostanza di ogni società sana. Poiché “tutti gli uomini sono, rispetto al loro essere spirituale, un uomo solo” (I fondamenti della filosofia del diritto, 1916).

Questa concezione solidarista, anzi proprio mistica della comunanza, che si regge sotto l’imperio della condivisione volontaria del dovere e del destino comuni, fu come noto alla base della concezione gentiliana dello Stato fascista come Stato etico. Ciò che, nella Dottrina del fascismo (scritta in collaborazione con Mussolini), Gentile circonfuse di un alone sacrale e religioso, asserendo che il mito nazionale è parte viva del convivere, e che insomma nulla di sociale è fattibile che non sia al tempo stesso spirito in azione, o altrimenti storia del pensiero in atto.

A questo punto, Stato e Nazione diventano indistinguibili e, pertanto, vengono anche a cadere – a parere di chi scrive – anche quelle considerazioni critiche che per tanto tempo hanno individuato in Gentile nulla più di un liberale, per la sua preminenza dello Stato sulla società. In realtà, al momento in cui Gentile elabora lo Stato etico e l’Umanesimo del lavoro, di liberalismo (quale ad es. si poteva rintracciare nella riforma della scuola o in certi atteggiamenti “liberali”, come il coinvolgimento di non-fascisti nel progetto dell’Enciclopedia Italiana) non è più il caso parlare. La stessa concezione della nazione come corpo mistico, e del totalitarismo del potere come mito religioso di popolo, collocano Gentile fuori e contro il liberalismo, facendone un elemento di punta del pensiero rivoluzionario del secolo XX. Infatti, la volontà di abbattere gli atavici vizi del popolo italiano (impoliticità, apatia, ostilità allo Stato, disinteresse per la politica, individualismo egoista, mancanza di sentimento comunitario) è in pratica il motore di tutto il lungo impegno politico gentiliano. Che tra l’altro ebbe dell’intellettuale un’idea attiva, militante, interventista. E questo culminò nel concetto della politica come fede, del sentimento mistico che deve animare la nazione in tutte le sue componenti.

Tutto questo ci parla non certo di liberalismo, ma di vero e proprio socialismo. Ugo Spirito, che nel 1941 stese il suo progetto per un fascismo rivoluzionario come comunismo gerarchico, chiamò il pensiero di Gentile propriamente “comunista”, certo non nel senso marxista o bolscevico, ma nel senso del valore di alta etica comunitarista che ne sostanziava i presupposti. Del resto, a sua volta Gentile definì i comunisti “corporativisti impazienti”, volendo significare che il fine rivoluzionario – l’erezione di un solidarismo di popolo totalizzante – poteva essere simile, differenziandosi solo nei metodi: brutale tabula rasa nel comunismo, a fronte di un metodico rivoluzionamento perseguito dal fascismo, che attraverso la macchina sociale e istituzionale del corporativismo, pervenne, e ancor più intendeva pervenire in futuro, a un modello di Stato-Nazione del tutto opposto a quello liberale. In questo quadro, l’Umanesimo del lavoro sancì il predominio sociale della figura del lavoratore. Non più il cittadino borghese, asseriva con forza Gentile, ma il lavoratore è il nuovo soggetto protagonista della vita politica: “L’uomo reale, che conta, è l’uomo che lavora, e secondo il suo lavoro vale quello che vale” (Genesi e struttura della società, 1943).

Oggi si parla del pensiero di Gentile come di qualcosa che presenta una “inattualità radicale”, in grado di veicolare una nuova volontà di rivoluzione nei confronti del potere mondializzato e snazionalizzato. Si scrivono libri e saggi di nuovo rilancio di una filosofia che è ancora tutta da riscoprire, contenente giacimenti di prezioso antagonismo nei confronti del dominio finanziario globale (si vedano ad es. Riprendersi Giovanni Gentile di Valerio Benedetti, ed. La testa di Ferro, oppure l’introduzione di Marcello Veneziani alla recente antologia gentiliana Pensare l’Italia, ed. Le Lettere). Tutto ciò, almeno, ci rassicura un po’ intorno alla possibilità, ancora operante, di schierare un consistente fuoco di sbarramento ideologico a protezione delle potenzialità politiche ancora valide e vive nell’arsenale culturale europeo.