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Vivere non è un «mestiere», ma un’arte che s’impara giorno per giorno

di Francesco Lamendola - 12/11/2014

Fonte: Arianna editrice




 

Cesare Pavese parlava, con un misto di amarezza e di rassegnazione, del “mestiere di vivere”, e definiva la vita, a sua volta, come “un vizio assurdo”: logica conseguenza di tali premesse era, per lo scrittore piemontese, un radicale pessimismo esistenziale, una concezione della vita come “sofferenza inutile”, al termine della quale «verrà la morte e avrà i tuoi occhi».

Ma è proprio un “mestiere”, quello di vivere?

A noi sembra che questa definizione contenga una parte di verità, ma solo una parte. È un mestiere, ma è ANCHE un mestiere: questa è la precisazione necessaria, l’elemento di cui Pavese non sembra aver tenuto conto; e una mezza verità è sempre un errore.

Vivere è un mestiere quando lo si riduce all’insieme degli obblighi e dei doveri, quando non vi si vede altro che la fatica quotidiana, la stanchezza che si accumula, gli orizzonti di speranza che si allontanano e si rimpiccioliscono giorno dopo giorno, la tristezza e la noia di un presente che si fa grigio e uggioso e di un domani che continuamente ci illude e ci delude con le sue promesse ingannevoli, con le sue aspettative deluse.

Tutto   questo, senza dubbio, fa parte della vita: negarlo sarebbe sciocco, sarebbe un atteggiamento dettato da pregiudizi idealistici; tuttavia, rimane la domanda: è solamente questo, vivere? E poi: che cosa vuol dire: “vivere”? È un dato puramente biografico, puramente biologico, oppure è anche e soprattutto una decisione, una scelta che quotidianamente si rinnova e, dunque, un esercizio di libertà, per quanto faticoso e, talvolta, perfino drammatico?

Se fosse un mestiere e soltanto un mestiere, allora basterebbe impararlo bene per rendere la vita, con ciò stesso, relativamente soddisfacente: quando si è di fronte a un mestiere, c’è sempre una tecnica, o un insieme di tecniche, per apprenderlo; dopo di che, non si deve fare altro che andare avanti per forza d’abitudine, con il pilota automatico inserito. Ad ogni problema che si presenti, basterà cercare nel cassetto giusto la soluzione opportuna, ricorrendo al prontuario che ciascuno avrò collocato nel punto adatto della propria mappa mentale.

Ma la vita è molto più di un mestiere, è qualcosa di molto più complesso, di più imprevedibile, di più creativo e anche di più impegnativo. I prontuari, gli schemi preconfezionati e le mappe mentali vanno bene finché si deve svolgere semplicemente un mestiere; ma quando si deve realizzare un’opera d’arte, tutto ciò non è più sufficiente: e quella di vivere, appunto, è anche e soprattutto un’arte, un’arte che nessun maestro ci può insegnare, ma che dobbiamo imparare da noi stessi, sbagliando e riprovando, giorno dopo giorno.

Certo è importante, importantissimo, l’esempio che si riceve dagli altri, dai genitori innanzitutto, poi dagli amici e da coloro nei quali si ripone la propria fiducia e che si prendono a modelli di vita; ma niente e nessuno potrà mai sostituire la pratica quotidiana dell’arte di vivere, che si apprende, appunto, vivendo: vivendo a pieno, mettendosi in gioco, spendendosi per qualcosa o per qualcuno e non già cercando la protezione artificiale di qualche prontuario o di qualche formuletta.

Arrivati a questo punto, sorge però un problema: se vivere è un’arte, come la si può apprendere? L’arte non è forse qualcosa di innato, non è forse qualcosa che si possiede dalla nascita, oppure non si possiederà mai? Il fatto è che la parola “arte” solo in un secondo momento ha acquistato il significato di creazione del genio individuale; in origine, essa indicava semplicemente una cosa ben fatta, una cosa uscita dalla mano dell’uomo, in opposizione a ciò che è prodotto dalla natura e che è dato così com’è, in via definitiva; ed è in questo senso che noi parliamo di un’arte del vivere.

Alcuni pensano che “vivere” sia sinonimo di provare forti emozioni, di azzardare, di spingersi oltre, insomma di “vivere pericolosamente”: quanti danni ha fatto una tale specie di niccianesimo male orecchiato e mal digerito; le sue vittime sono legione. Senza voler negare che una vita degna di essere vissuta comprende anche una forte sensibilità e una capacità di rischiare per qualcosa che vale, è tuttavia certo che essa non si riduce a questo; che la sua serietà e la sua profondità hanno poco a che fare con ciò che è vistoso, appariscente, chiassoso, perché sono fatte di raccoglimento, di riflessione, di interiorità: il che è ben diverso dall’introspezione esasperata e inconcludente di tanti anti-eroi novecenteschi, della letteratura e anche della vita stessa.

Si ritiene che l’uomo moderno, generalmente parlando, sia affetto da un eccesso d’introspezione e di autoanalisi: questo è quanto si evince, appunto, da un “excursus” anche rapido attraverso la letteratura dell’ultimo secolo e mezzo, partendo dal dostoevskiano protagonista dei «Ricordi del sottosuolo» e arrivando fino ai vari allucinati e stralunati personaggi di Svevo, Pirandello, Kafka, Joyce, e oltre, fino ai giorni nostri. A ben guardare, tuttavia, ci si rende conto che l’introspezione e l’autoanalisi non sono mai, di per sé, eccessive; lo sono quando vengono impostate secondo una prospettiva sbagliata; quando si esercitano a scapito di altre cose, e soprattutto della vita concreta; e lo sono quando sfuggono di mano a colui che le esercita, diventando un gioco fine a se stesso, un labirinto di specchi in cui il soggetto si perde, dilaniato fra le opposte tentazioni di un narcisismo incontrollato e di un profondo, sotterraneo auto-disprezzo.

La cultura moderna, profondamente permeata di freudismo, dà come cosa scontata, e tende a volercene fare persuasi, che la condizione pressoché normale dell’uomo sia la nevrosi; che siamo tutti, più o meno, malati; e che il malato più grave di tutti è colui che sostenga di non esserlo, di non aver subito traumi infantili, di non avere impulsi sessuali inconfessabili, di non vivere indossando una maschera tanto più dolorosa, quanto più posticcia. Secondo questo modo di vedere, bisogna diffidare della salute e accettare il fatto che non vi è altra condizione, per l’uomo, fuori che quella della malattia: utile conclusione per chi si presenta, poi, come il solo capace di guarirci dalle nostre sofferenze e dai nostri turbamenti, cioè lo psicanalista freudiano, ben s’intende in cambio d’un congruo compenso.

Ma è proprio vero che la nostra condizione normale è la malattia? Se così fosse, allora sì che la fatica del vivere diverrebbe la nota dominante della nostra esistenza; e l’orizzonte di speranza resterebbe affidato nelle fragili mani di improvvisati stregoni e presuntuosi ciarlatani, i quali si presentano come gli unici detentori delle chiavi che ci permettono di evadere da un sì tetro carcere. È più probabile, invece, che la malattia stia diventano la condizione “normale” dell’uomo moderno, nella misura in cui l’uomo moderno si è arreso alla forza distruttiva dei propri demoni interiori, che egli stesso ha incautamente alimentato e fomentato e che ora lo posseggono e lo maltrattano senza pietà, riducendolo alla condizione d’un debole fantoccio, più che mai confuso.

In altre parole, la malattia miete le maggiori vittime là dove mancano i fondamenti autentici della vita, primo dei quali l’amore per la vita stessa, la fiducia nelle sue risorse, la ferma convinzione circa la sua intima bontà; là dove le persone, giorno dopo giorno, hanno rinunciato a praticare la sana arte del vivere, così come la conoscevano i nostri nonni, fatta di stupore, entusiasmo, generosità, e si sono sempre più affidate a dei miseri surrogati di tali emozioni positive, o, peggio, a delle contraffazioni demoniache: magari facendo ricorso agli alcolici, oppure alle droghe, oppure ancora a dei ritmi di vita assurdi e devastanti, a delle abitudini dannose e demoralizzanti, a delle pratiche alienanti e dissennate.

In altre parole: prima di diagnosticare l’irrimediabile malattia dell’uomo moderno, bisognerebbe prendersi il disturbo di impostare la propria vita in un senso non distruttivo, ma costruttivo; non nichilista, ma fiducioso nella vita stessa; non casuale, ma ben determinato, in base a un piano preciso, muovendo dalla convinzione che non siamo qui per caso né per sbaglio, ma perché chiamati a svolgere un compito, e che dunque tanto vale svolgerlo nella maniera migliore possibile, dato che ne va della nostra serenità, del nostro equilibrio, della nostra pace.

Lasciamo, dunque, che si levi il cicaleccio degli iper-critici di professione e dei pessimisti per partito preso: essi ci accuseranno di ingenuo volontarismo e diranno che nessun entusiasmo e nessuna fede potranno cambiare un dato di fatto positivo, ossia l’assurdità e l’insignificanza della vita; aggiungeranno anche che chi non accetta un tale dato di partenza, necessariamente dovrà essere uno sciocco o, peggio, una specie di manipolatore delle coscienze, animato da chissà quali inconfessabili scopi. Quella gente, infatti, non sa vivere se non nella cultura del sospetto e non riesce neppure a immaginare che, nella vita, si possa assumere un atteggiamento puro e disinteressato, semplicemente animati dal desiderio di perseguire il bene. Il bene, per loro, non esiste, è il paravento di chissà quali inganni e manipolazioni: e sia! Lasciamoli alle loro tristi litanie e proseguiamo fiduciosi per la nostra strada. Nessuno può essere liberato dalle proprie catene, se è convinto che l’universo mondo altro non sia che un carcere nel quale ciascuno si aggira senza averne coscienza, andando sempre a sbattere contro le invisibili sbarre.

La vita, dicevamo, è un’arte: l’arte delle cose fatte bene, con coscienza, con amore, con dedizione; l’arte delle cose di cui ci si prende cura, perché si ritiene che abbiano un valore, e si vuol contribuire ad accrescerlo, a renderlo ancora più significativo. Nel mondo moderno, anche a causa della sopravvalutazione dell’aiuto che la tecnica può offrirci nelle questioni che contano, si tende a cercare sempre la via più rapida per fare una determinata cosa: una scorciatoia, un espediente che consenta di bruciare i tempi e di diminuire la fatica. Invece bisogna avere ben chiaro che non esistono scorciatoie, né alcuna maniera di evitare sacrifici e fatiche, se si vuol realizzare la cosa migliore: una vita ben spesa, che sia una preghiera di lode e di ringraziamento per tutte le cose belle e buone che esistono, e che aiuti anche altri, oltre a noi stessi, ad aver fede in essa, a non scoraggiarsi davanti alle difficoltà di cui pure è intessuta.

Dicevamo anche che, fondamentalmente, essa è un’arte che s’impara giorno per giorno, provando e riprovando (a proprie spese, si capisce); ma abbiamo anche evidenziato l’importanza di una buona “partenza”, in particolare di un’infanzia in cui i genitori, e il mondo degli adulti in generale, abbiano saputo tenere la giusta via fra l’eccesso di protezione e lo scarso interessamento nei confronti dei figli, incoraggiandoli sempre a diventare migliori, ma senza esercitare ricatti e senza premere in maniera opprimente sulle loro personalità in via di formazione.

Resta il fatto che tutti, favoriti o no dalla “partenza”, nonché dal possesso – o dalla carenza – di alcuni preziosi strumenti innati, quali salute, intelligenza, forza di volontà, hanno la possibilità, nel corso di ripetute prove ed errori, di impadronirsi della maniera “giusta” di esercitare una tale arte, tenendo presente che, nella vita, non si finisce mai d’imparare e che la vera saggezza consiste nel mantenersi aperti alla possibilità di modificare la propria strategia, fermo restando l’orientamento fondamentale che vogliamo darle in base a dei principî non negoziabili, che veniamo elaborando con umiltà e pazienza ma ai quali, alla fine, dobbiamo essere capaci di rimanere fedeli, costi quello che costi.

Aggiungiamo che gli strumenti di cui di discorrevamo sopra, salute, intelligenza, forza di volontà, sono, sì, quali li abbiamo ricevuti dalla natura e dall’educazione, ma abbiamo anche la possibilità di irrobustirli ed affinarli, oppure di lasciarli impigrire e impallidire, a seconda che li esercitiamo attivamente e con vigile attenzione, oppure che li trascuriamo, abbandonandoci a tutti gli impulsi e a tutti i capricci, tralasciando così di fare quanto sta in noi per dotarci dei mezzi idonei a svolgere l’arte del vivere nel modo migliore. La salute si può coltivare con una vita sana ed una alimentazione adatta; intelligenza, con l’amore per lo studio e per la discussione ben ponderata; la forza di volontà, con l’esercizio paziente e costante, senza lasciarsi scoraggiare dagli insuccessi e dalle sconfitte, tornando sempre al punto in cui ci eravamo fermati e sforzandoci di procedere innanzi. Hai voglia di stare seduto? Alzati. Hai voglia di alzarti? Rimani seduto. La volontà si esercita e si irrobustisce, così come si irrobustiscono i muscoli con l’esercizio fisico, o la memoria con l’imparare dei brani in prosa e delle poesie. Ma la cosa più importante è l’amore: perché solo con l’amore la vita s’illumina, e tutti i sacrifici e tutti i dolori che in essa incontriamo, acquistano un senso e un valore preciso. E poiché la natura umana è fatta per l’amore e non per l’odio, dobbiamo amare, se vogliamo andare nella direzione della vita e non voltarle le spalle, magari inseguendo chissà quali miraggi. A volte le forze ci mancheranno, ci verrà meno il coraggio: ebbene, quello sarà il momento di chiedere aiuto all’Amore, dal quale veniamo ed al quale dobbiamo fare ritorno…