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Conrad von Hötzendorf voleva salvare l’impero degli Asburgo, ma ne affrettò la catastrofe

di Francesco Lamendola - 19/11/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


File:Franz Conrad von Hötzendorf (Hermann Torggler, 1915).jpg

 

Al di là del mito dell’Austria Felix nei suoi ultimi anni di vita, la maggior parte della critica storica seria si è andata ormai orientando verso un giudizio più pacato e sereno nei confronti del ruolo complessivo da essa esercitato negli equilibri dell’Europa centrale; ed è significativo che perfino gli storici italiani, passata la piena anti-austriaca di matrice risorgimentale (si pensi al mazziniano “Austria delenda”), si siano attestati su analoghe posizioni. I politici ci erano arrivati prima, se è vero che già durante la prima guerra mondiale i nostri statisti più avveduti, da Orlando allo stesso Sonnino, si erano resi conto dell’utilità di avere al confine settentrionale un’Austria, sia pure ridimensionata, a fare da cuscinetto verso la potente Germania; e, più ancora, di danzare con una vecchia signora (l’espressione è di un nostro uomo politico) ormai indebolita, invece di una robusta e imprevedibile contadina, come la Jugoslavia, che problemi ne avrebbe sicuramente dati.

L’Impero austriaco – dal 1867, austro-ungarico - con due corone, due capitali e due parlamenti distinti e tre soli ministeri in comune: Difesa, Esteri e Finanze, teneva insieme, bene o male, dieci diverse nazionalità – tedesca, magiara, ceca, slovacca, polacca, rutena, romena, slovena, serbo-croata, italiana – che, nel corso dei secoli, avevano finito per trovare un accettabile “modus vivendi”, il che assicurava un minimo di stabilità in un’area etnicamente mista e assai problematica (i Magiari della Transilvania, per esempio, erano separati geograficamente dai loro confratelli dell’Ungheria) e le cui economie erano strettamente interdipendenti. Il collante di quel vasto mosaico di popoli erano la monarchia asburgica, la Chiesa cattolica (almeno nella Cisleithania, cioè nella parte austriaca della Duplice Monarchia), la burocrazia – lenta e pesante, ma onesta e nel complesso efficiente – e l’esercito. Il prestigio di quest’ultimo riposava sulle glorie passate e, dopo le sfortunate campagne del 1859 e del 1866, sul fatto che non era stato più messo alla prova; e Francesco Giuseppe per primo, che regnava fin dal 1848, ben sapeva come una politica di pace fosse pressoché obbligata per una costruzione così complessa e così fragile. A Francesco Ferdinando, l’irruento erede al trono, che scalpitava per venire alla prova delle armi con i pericolosi vicini e specialmente con la Serbia, focolaio di tensioni interne ed esterne (a causa della Russia che la spalleggiava), il vecchio sovrano aveva detto testualmente, in occasione della crisi bosniaca del 1908: «Tu non hai visto la guerra; ma se l’avessi vissuta, come l’ho vissuta io, sapresti che qualsiasi cosa va fatta per evitarla, e che un capo di stato, prima di precipitare il suo Paese in una tale calamità, dovrebbe pensarci sopra almeno tre volte».

La politica di pace era pressoché obbligata per uno stato plurinazionale, che si reggeva ancora sul principio dinastico e nelle cui istituzioni non vi era mai stata una vera riforma in senso liberale, in un’epoca, come lo fu la seconda metà del XIX secolo e il principio del XX, di nazionalismi esasperati e di avanzata graduale, ma irresistibile, della democrazia liberale. Da quando, con la guerra di Crimea, si era irrimediabilmente rotto il sistema della Santa Alleanza, l’Austria era venuta a poggiare, per così dire, sul vuoto: con la Russia divenuta una nemica implacabile e con la Prussia (dal 1871, il Reich tedesco) che, dopo averla estromessa dalla Germania, la incoraggiava ad espandersi verso i Balcani, verso il morente Impero ottomano, venendo però ad un insanabile contrasto, appunto, con la Russia, che puntava anch’essa verso Costantinopoli. Con il Montenegro, la Serbia e la Russia nemiche, e con l’Italia formalmente alleata, ma in realtà potenzialmente nemica anch’essa, mentre Inghilterra e Francia non credevano più alla sua funzione equilibratrice nell’Europa centrale, l’Austria poteva ormai contare su un solo alleato, troppo potente e troppo ingombrante: la Germania, nei cui confronti rischiava di essere trascinata a rimorchio. Qualsiasi guerra con i vicini avrebbe ridestato al suo interno i latenti nazionalismi delle etnie minoritarie: dei Serbo-Croati, dei Ruteni, dei Cechi, dei Romeni, degli Italiani; tute le nazioni confinanti si presentavano come il polo di attrazione per tali minoranze irrequiete.

Oggi sappiamo, e possiamo valutare in modo realistico, quanto fossero deboli, in complesso, le forze politiche e sociali che volevano realmente il distacco dalla Duplice Monarchia. Perfino uomini come Masaryk, il futuro presidente della Cecoslovacchia, che durante la prima guerra mondiale si sarebbe trasformato nei più deciso fautore dell’”Austria delenda”, fino al 1914 non pensavano affatto a una secessione delle nazionalità per formare Stati autonomi, ma, al massimo, a una trasformazione in senso federalista dell’Impero danubiano. Progetti che non erano poi così distanti dal cosiddetto “trialismo” dell’arciduca Francesco Ferdinando, il quale voleva fare dell’elemento slavo quel che era stato fatto, mediante il “compromesso” del 1867, con quello magiaro: riconoscergli parità di diritti ed elevarlo al rango di difensore dell’Impero. Un progetto che, ovviamente, la Serbia aborriva, perché le avrebbe tolto il combustibile con cui infiammare il nazionalismo jugo-slavo nelle province meridionali della Monarchia: e non è certo un caso che l’attentato in cui Francesco Ferdinando perse la vita a Sarajevo, il 28 giugno 1914, fosse organizzato appunto da nazionalisti serbo-bosniaci, con la complicità dei servizi segreti di Belgrado. Non bisogna, però, ripetiamo, esagerare l’importanza delle tendenze separatiste prima del 1914, se è vero, come è vero, che anche durante la guerra mondiale, praticamente sino alla fine, ciascuna etnia rimase leale verso lo Stato asburgico e i soldati croati, per esempio, si batterono con straordinario vigore contro i loro fratelli di razza dell’altra sponda della Drina, i Serbi. I Polacchi, poi, avevano le loro ragioni per essere molto più tiepidi dei loro confratelli della Germania e della Russia verso l’idea della riunificazione nazionale: sotto l’Austria godevano del predominio in Galizia, rispetto all’elemento ucraino. Anche gli Ebrei, sparsi in tutto l’Impero, pur non formando una etnia distinta, sostenevano la causa austriaca: i “pogrom” scatenati in Galizia e Bucovina dalle truppe russe avanzanti, fra il 1914 e il 1916, fecero capire loro da che parte conveniva schierarsi. Gli Slovacchi non avevano mai pensato a formare uno Stato indipendente con i Cechi; gli Sloveni, i più fedeli di tutti i popoli slavi, non sentivano alcuna affinità con i Croati, che pure erano cattolici come loro, e meno ancora verso i Serbi ortodossi. E molti Triestini e Goriziani, checché se ne disse poi, non fremevano d’impazienza in attesa della riunificazione al Regno d’Italia, che avrebbe comportato, specie per i primi, grossi inconvenienti di natura economica.

Dunque: fare la guerra ai vicini avrebbe innescato reazioni imprevedibili in senso centrifugo; d’altra parte, proprio negli Stati vicini – Italia, Serbia, Montenegro, Romania e Russia – vi erano forze che tentavano di attizzare l’incendio delle nazionalità, e che, quindi, in linea teorica, bisognava affrontare per assicurarsi la pace interna. Questa era la contraddizione dell’Austria fra il 1867 e il 1914: non poteva fare la guerra,  perché aveva un solo alleato sicuro, ma un po’ troppo arrogante, sulla faccia della Terra; però, adeguandosi a una politica di pace ad ogni costo, avrebbe subito un processo di lenta, graduale, irresistibile erosione interna. Tale era la situazione allorché, il 18 novembre 1906, Francesco Ferdinando riuscì ad imporre a Francesco Giuseppe la nomina di una sua creatura nell’importante funzione di capo di Stato Maggiore generale dell’esercito imperiale e regio (cioè austriaco e ungherese): Franz Conrad von Hötzendorf.

Dare un giudizio storico sul ruolo svolto da questi nella vicenda degli ultimi anni del secolare Impero, è cosa non facile. Egli amava l’Austria ed era uno spirito dinamico, moderno: non voleva assistere alla lenta consunzione della sua patria, ma prevenire la minaccia attaccando. Questa dottrina militare si basava su un’idea nuova, decisamente machiavellica e allora pressoché sconosciuta in Europa: quella della guerra preventiva. Secondo lui, bisognava che l’Austria attaccasse per prima, nelle circostanze ad essa più favorevoli, per spazzare via quei nemici esterni che, altrimenti, prima o dopo avrebbero attaccato a loro volta, quando il momento fosse stato favorevole a loro e sfavorevole all’Austria. Le sue bestie nere erano la Serbia, la Russia e soprattutto l’Italia, la quale, pur essendo membro, dal 1882, della Triplice Alleanza, secondo lui covava propositi aggressivi e andava eliminata prima che potesse attuarli. Durante il terremoto di Messina del 1908 e durante la guerra di Libia del 1911, Conrad non esitò a sostenere apertamente, davanti a Francesco Giuseppe e contro il ministro degli Esteri, Aerenthal, la necessità di una tale guerra preventiva: cosa che fece inorridite il vecchio sovrano gentiluomo ed esasperare il suo ministro, e che gli valse l’allontanamento, il 20 novembre 1911. Ma Francesco Ferdinando, per ripicca, volle, subito dopo, anche la testa di Aerenthal; e lo stesso Francesco Giuseppe, appena un anno dopo, richiamò Conrad nel suo precedente incarico, a causa dell’aggravarsi della crisi internazionale.

Fu, dal punto di vista del sovrano, sostenitore della politica di pace, un grave errore: appena rientrato nel suo ufficio, Conrad ricominciò a caldeggiare la guerra preventiva contro la Serbia (in totale, lo fece per ben cinque volte prima dell’attentato di Sarajevo): se era davvero convinto che l’Impero non avrebbe potuto permettersi una guerra generale - e, dati i sistemi di alleanze esistenti in Europa, qualunque guerra locale sarebbe diventata immediatamente una guerra generale -, Francesco Giuseppe non avrebbe dovuto affidare la direzione dell’esercito a un bellicista convinto ed estremista. Bisogna dire che Conrad, come riorganizzatore dell’esercito, aveva saputo fare cose notevoli: aveva trasformato la vecchia e arrugginita macchina militare austriaca in uno strumento bellico di prim’ordine, che infatti resse alla prova della guerra mondiale, sostanzialmente compatto, dal 1914 fino alla fine di ottobre del 1918 (solo ai primi di novembre esso cedette di schianto, ma più per effetto della dissoluzione statale all’interno, che per la pressione militare degli Alleati: il segreto della battaglia di Vittorio Veneto è tutto qui). Rimanevano, però, alcune gravi deficienze, sia di natura tecnica, sia, inevitabili, di natura psicologica: tranne quelli austriaci e magiari, i reggimenti delle varie nazionalità facevano fatica a immedesimarsi in un unico scopo e a sentire il loro destino come tutt’uno con quello della sopravvivenza della Duplice Monarchia.

Racconta il generale tedesco Ludendorff che, ispezionando il fronte dei Carpazi, nei primi mesi del 1915, assistette a una scena che lo lasciò profondamente pensieroso: una sentinella si rivolse a lui e agli ufficiali austriaci che lo accompagnavano in una lingua che nessuno di essi fu in grado di capire. «Solo allora – avrebbe scritto nelle sue memorie – potei comprendere quali enormi difficoltà incontravano gli ufficiali austriaci (così spesso disprezzati dai loro colleghi germanici, aggiungiamo noi) nel guidare un esercito tanto composito». Eppure quell’esercito resse a tutte le tensioni e alle sconfitte più dure, come quella di Leopoli nel 1914 e quella di Łuck nel 1916, restando compatto: le diserzioni vi furono, specie sul fronte russo, ma non tali da mettere irreparabilmente fuori uso la macchina bellica austriaca. Inquadrati in questa prospettiva, anche il processo e l’esecuzione di uomini come Cesare Battisti, che a noi parve – e fu - manifestazione di barbarie, acquista un diverso significato. La vecchia Austria era impegnata in una lotta per la vita e per la morte: e, se avesse riconosciuto la legittimità di diserzioni e tradimenti come quello di Battisti – ché tali erano, dal punti di vista giuridico formale - sarebbe corsa volontariamente incontro al suicidio.

Conrad, comunque, se ebbe dei meriti non piccoli come riorganizzatore dell’esercito, ebbe anche delle responsabilità gravissime nello scatenamento della guerra del 1914 e quindi, indirettamente, nella dissoluzione della Duplice Monarchia. Egli non si limitò a forgiare uno strumento di guerra più moderno ed efficiente di come l’aveva trovato; perseguì anche, attivamente e febbrilmente, una politica di guerra: travalicò l’ambito delle sue competenze e invase quello della politica estera. Qui si rivelò la fragilità delle strutture politiche dell’Austria-Ungheria e la debolezza del parlamento e dell’opinione pubblica: come in Germania, la politica estera era decisa da un pugno di uomini (ma era poi tanto diversa la situazione, allora, in Italia?), fra i quali quelli in uniforme divennero sempre più aggressivi e sempre più ascoltati presso i rispettivi sovrani – Francesco Giuseppe in Austria, Guglielmo II di Hoehenzollern in Germania - senza che vi fossero dei validi contrappesi da parte delle istituzioni civili. Berchtold, il ministri degli Esteri austriaco, e Bethmann-Hollweg, il cancelliere tedesco, nel luglio del 1914 non seppero far di meglio che lasciarsi trainare al rimorchio dei militari: i quali, avendo già pronti nel cassetto i piani per una guerra generale – il piano B (Balcani) e il piano R (Russia) a Vienna, il Piano Schlieffen a Berlino - scalpitavano per avere mano libera il più preso possibile, sì da bruciare i nemici sul tempo. Così ebbe inizio la prima guerra mondiale: per la mancanza di adeguati contrappesi da parte del potere civile rispetto a quello militare.

La figura e l’opera svolta da Conrad von Hötzendorf sono state così rievocate dal celebre storico Franz Herre nella sua biografia «Francesco Giuseppe» (titolo originale: «Kaiser Franz Joseph von Österreich. Sein Leben, seine Zeit», Köln, Verlag Kiepenheuer & Witsch, 1978; traduzione dal tedesco a cura di Maria Teresa Giannelli, Milano, Rizzoli, 1979, pp. 454-56, 466-68):

 

«[Conrad], ex insegnante di tattica alla scuola di guerra, nel 1906 era stato nominato, per sollecitazione di Francesco Ferdinando, capo dell’imperiale e regio Stato Maggiore generale, dopo che il suo predecessore, il generale barone Friedrich von Beck, che aveva sessant’anni si servizio sulle spalle, era caduto da cavallo durante le manovre. […] Il nuovo capo di Stato maggiore generale era un innovatore,  ciò di cui il fin troppo venerabile imperiale e regio esercito aveva fin troppo bisogno. L’energico cinquantaquattrenne si lanciò nella riorganizzazione delle forze armate. Cercò di realizzare quanto aveva esposto nei suoi libri “Zur Studium der Taktik” (“Sullo studio della tattica”) e “Die Gefechtsausbildung der Infanterie” (“L’addestramento al combattimento della fanteria”): ma la pratica non riusciva a tenere il passo con la teoria. Più importante delle esercitazioni, egli insegnava, era l’istruzione al combattimento. E anche in quest’ambito l’attacco doveva avere la precedenza sulla difesa. Non era un concetto insensato, ma abbastanza estraneo alla realtà in un Impero che si basava sulla difensiva, con un imperatore che si aggrappava alle forme e ai formalismi  e che anche e soprattutto in campo militare, nel suo dominio più personale, guardava al dettaglio e non alle grandi linee, pensava alla tradizione e non al progresso. Dal canto suo, Conrad von Hötzendorf non aveva il minimo sentore di quanto poteva aspettarsi da quella monarchia e da quel monarca; non percepiva che cosa fosse possibile o impossibile nel quadro degli attuali rapporti tra le potenze europee. Egli si riteneva un capo di Stato Maggiore politicamente molto preparati, mentre per la politica possedeva scarso pragmatismo e non era nemmeno un Moltke, o almeno un “grande taciturno”, mentre era un uomo che non faceva mistero non soltanto dei suoi pensieri, ma anche della sua tattica e della sua strategia. Così cominciò presto a parlare della necessità di una guerra preventiva: contro l’Italia, della quale si voleva vendicare, e contro la Serbia, che voleva annettere, onde avere mano libera per una inevitabile guerra contro la Russia. Propositi del genere dovevano prima o poi metterlo in conflitto con i responsabili della politica estera, che valutavano più realisticamente le forze dell’Austria e la situazione europea. E con il suo imperatore , il quale voleva mantenere la pace pressoché ad ogni posto. Già nel 1907 [sic], all’indomani della nomina, il capo di Stato Maggiore generale, che evidentemente come generale di brigata a Trieste e come generale di divisione a Innsbruck si era esercitato a lungo su piani offensivi contro i vicini, voleva marciare contro l’Italia. Era troppo anche per il ministro degli Esteri Aerenthal, che pure amava l’azione. L’imperatore cominciò ad irritarsi: “Nessuno potrà mai dire di me che io abbia accondisceso a un simile tradimento”.Francesco Giuseppe si mantenne fedele alla Triplice Alleanza, anche se non credeva che gli italiani avrebbero rispettato gli accordi.  Conrad von Hötzendorf avrebbe preferito rompere lui stesso il patto subito,piuttosto che farsi sorprendere in seguito da una violazione italiana dell’intesa. Anche durante la crisi per l’annessione [della Bosnia-Erzegovina]  tornò in ballo la teoria della guerra preventiva: era questo il momento di annientare la Serbia, che non avrebbe mai dato requie, e se l’Italia fosse intervenuta, il che sarebbe stato auspicabile,  sarebbe stata distrutta anch’essa. Adesso cominciava ad averne abbastanza  non solo Francesco Giuseppe, ma anche Francesco Ferdinando: Sarebbe certo meraviglioso e molto allettante mettere alle strette i serbi e i montenegrini, ma a che servono queste piccole vittorie se ci creano confusione in Europa, costringendoci forse a combattere su due o tre fronti, cosa che non potremmo sopportare […] Fintanto che Hötzendorf si muoveva nell’ambito della riforma militare e del rafforzamento dell’esercito con uno slancio degno di lode e con successo innegabili, l’imperatore era contento, cosa che dimostrò nominandolo barone. Ma non appena la situazione di politica estera si faceva più tesa,  egli cominciava di nuovo con le sue teorie sulla guerra preventiva, che il sovrano già una volta non aveva tollerato. Come sempre, avrebbe voluto attaccare per prima l’Italia, soprattutto da quando questo paese si era avvicinato alla Russia e reclamava a voce sempre più forte delle terre irredente mentre parlava sempre più sommessamente dei suoi doveri rispetto alla Triplice Alleanza. A Conrad sembrò che l’occasione propizia venisse quando si l’Italia si accinse a conquistare Tripoli, che era dei turchi, distogliendo la sua attenzione dall’Austria-Ungheria e disperdendo altrove le sue modeste forze: per l’imperiale e regio esercito avrebbe potuto essere una specie di passeggiata militare! Il capo d Stato Maggiore generale voleva che la condotta del ministro degli Esteri fosse conforme. Alois Lexa von Aerenthal – ora conte- stava proprio cercando di tenere a freno la propria irruenza, che aveva portato alla crisi per l’annessione, e intendeva frenare anche lo slancio di Conrad von Hötzendorf.  Inoltre, non gradiva interferenze nella sua sfera d’azione.  Si lagnò con l’imperatore sicuro che questi – meticoloso nelle questioni dio competenza e desideroso che il ministro degli Esteri badasse soprattutto al mantenimento della pace avrebbe compreso le sue lagnanze. Come era sempre stata sua abitudine, Francesco Giuseppe cercò innanzitutto di conciliare le due parti. Incaricò il capo della sua cancelleria militare, generale barone Artur von Bofras, di invitare il capo di Stato Maggiore generale a presentare le sue scuse al ministro degli Esteri. Conrad, che come sempre era convinto di avere ragione, respinse indignato una simile proposta. E partì al contrattacco: fece presente all’imperatore l’esigenza di una guerra preventiva contro l’Italia, impegnata a Tripoli, e chiese addirittura che nell’azione  fossero compresi anche la Serbia e il Montenegro. La pazienza del sovrano, troppo a lungo esercitata, si esaurì: “Questi continui attacchi, in particolare gli appunti riguardanti l’Italia e i Balcani, ce non fanno che ripetersi, sono rivolti contro di me; la politica la faccio io, questa è la mia politica”. Nell’udienza dell’11 novembre 1911 l’imperatore fu ancora più esplicito con il suo capo di Stato Maggiore generale: “La mia politica è una politica di pace. Alla mia politica devono uniformarsi tutti.  È in questo spirito che il ministro degli Esteri conduce la mia politica. È possibile, addirittura probabile che essa porti a una guerra. Ma  questa politica sarà seguita fino a che l’Italia non ci attaccherà”. Poi, troncando ogni obiezione di Conrad e con tono di accusa, sia pure indiretta: “E si tenga presente che da noi finora non c’è mai stato un partito bellicista”. Aveva parlato chiaro, al capo di Stato Maggiore generale e all’erede al trono che gli stava alle spalle. Alle parole seguirono i fatti. Il 20 novembre 1911 l’imperatore comunicò al barone Conrad von Hötzendorf: “Dopo matura riflessione, mi spiace di essere costretto a sollevarla dal suo attuale incarico per nominarla Ispettore d’Armata.  I motivi le sono noti e quindi non è il caso di parlarne”.»

 

In conclusione, si può ragionevolmente affermare che Conrad von Hötzendorf, nella carica di capo di Stato Maggiore generale dell’esercito austriaco negli anni che precedettero e accompagnarono la prima guerra mondiale, svolse un ruolo funesto, pur non volendo, nei destini della sua patria. Fece di tutto per spingerla verso una guerra che, perfino qualora fosse stata vittoriosa – e ben lo sapevano soprattutto i Magiari, che vedevano le cose con più lucidità – avrebbe rappresentato la fine della Duplice Monarchia, così come essa si era costituita nel 1867. L’elemento slavo, all’interno dello Stato, avrebbe comunque reclamato di uscire dallo stato di minorità in cui si trovava, e il trialismo di Francesco Ferdinando difficilmente sarebbe stato sufficiente a soddisfarne le pretese, mentre, d’altra parte, avrebbe reso difficilissimi i rapporti con l’Ungheria (che non voleva saperne di rinunciare alla Croazia e allo sbocco al mare Adriatico). Pertanto fu errore caldeggiare la guerra, quando il risultato di essa non poteva essere in alcun modo quello di rafforzare lo Stato, ma, in qualunque caso, di indebolirlo. Inoltre bisogna saper misurare le proprie forze, vale a dire essere realistici: e Conrad non lo fu. La maniera in cui condusse la guerra lo dimostra: i suoi piani offensivi erano grandiosi, di sapore quasi napoleonico, ma, alla prova dei fatto, egli portò il suo esercito a una serie di umilianti sconfitte, non solo contro la Russia e contro l’odiata Italia (la famosa “Strafexepedition” del 1916 è opera sua), ma perfino contro la piccola Serbia, da cui venne battuto per ben tre volte nello spazio di pochi mesi e della quale ebbe ragione, più tardi, solo grazie all’aiuto tedesco e bulgaro. Aver tanto predicato la guerra e poi essere andato incontro a tali risultati: questa è la grave responsabilità di Conrad; che d’altra parte, fu colpa non solo sua, ma del sistema politico-militare austriaco nel suo complesso: un sistema non riformabile, per molte ragioni.