Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / 27 settembre 1942: il mortale duello fra lo «Stier» e lo «Stephen Hopkins» nel Sud Atlantico

27 settembre 1942: il mortale duello fra lo «Stier» e lo «Stephen Hopkins» nel Sud Atlantico

di Francesco Lamendola - 19/11/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

La crociera oceanica e le imprese dell’incrociatore ausiliario tedesco «Stier» (altrimenti noto con il nome di serie di «HSK 6», cioè «Hilfskreuzer 6»), fra il 1941 e il 1942, appartengono alla cosiddetta terza fase della Battaglia dell’Atlantico, combattuta dal gennaio al luglio del 1942, e alla seconda ondata di “raiders”, cioè di navi corsare partite segretamente dalla Germania per condurre la guerra contro il traffico navale alleato sull’Atlantico (e, in misura minore, negli altri due oceani), allo scopo di disorganizzarlo, rallentarlo e, se possibile, inibirlo, almeno lungo le rotte più sensibili e frequentate, quelle indispensabili per il mantenimento in efficienza della macchina militare britannica. Il loro scopo fondamentale era, pertanto, quello di colpire le navi mercantili statunitensi che portavano rifornimenti di armi, combustibili, vettovaglie e materiali strategici verso le Isole Britanniche. A tale traffico erano adibite anche numerose navi inglesi e norvegesi, dopo che la Norvegia era stata occupata dall’esercito tedesco nella primavera del 1940, le quali dovevano assicurare i rifornimenti, oltre che dagli Stati Uniti, anche dal Brasile, dall’Argentina e da altre nazioni neutrali, specialmente grano, carne e minerali d’importanza bellica.

Non sempre la Marina tedesca di superficie, in questa fase della Battaglia dell’Atlantico, disponeva di personale preparato ed equilibrato come nella prima ondata degli incrociatori ausiliari; o meglio, fermi restando l’ottimo livello di preparazione professionale, lo spirito di sacrificio, la disciplina e il morale assai combattivo degli equipaggi, non sempre gli ufficiali posti al comando della seconda ondata possedevano quelle doti di umanità e di senso della misura che avevano evidenziato i loro colleghi nella fase precedente, per non parlare di quelli che avevano compiuto imprese memorabili durante la prima guerra mondiale, pur mostrando la massima correttezza verso i prigionieri della navi catturate e facendosi ammirare e stimare perfino dai comandi nemici.

È vero che i tempi erano cambiati e così il cima psicologico generale, e questo da entrambe le parti in conflitto. Fra le altre cose, le autorità portuali delle nazioni neutrali, che nei primi mesi della guerra avevano osservato una stretta neutralità, adesso prendevano apertamente le parti di quella che appariva come la probabile vincitrice, favorendo in varie maniere le flotte alleate. Per esempio, mentre la tragedia della corazzata tascabile «Graf von Spee», dopo la battaglia del Rio de La Plata, era stata determinata dal rigore dell’Uruguay nel pretendere che essa lasciasse il porto allo scadere del tempo strettamente necessario per le riparazioni più urgenti (e invano la storiografia di parte alleata si è sforzata di presentare tale decisione come “coraggiosa”, perché indicativa della determinazione di un piccolo Stato di opporsi alla “tracotanza” di una grande potenza, mentre è vero il contrario: fu un atto di compiacenza verso il più forte, cioè la Gran Bretagna), ora, dopo Pearl Harbor e l’estensione della guerra agli Stati Uniti, le navi alleate avevano tutto l’agio di approvvigionarsi e di trovare ricovero, per eventuali riparazioni, oltre che nelle loro numerose basi, anche nei porti di nazioni come l’Argentina e l’Uruguay, formalmente neutrali.

Gli incrociatori ausiliari tedeschi, invece, così come le loro navi-appoggio, non potevano contare che sulle proprie risorse, oltre che sui porti della Francia occupata e quelli del lontanissimo Giappone: sia i rifornimenti di combustibile, sia le riparazioni dovevano essere effettuati in mare aperto, se le condizioni lo permettevano, oppure, a loro rischio e pericolo, in qualche baia nascosta delle isole meno frequentate e possibilmente disabitate, come quelle poste in prossimità dei mari antartici. Nessun cantiere era loro accessibile per sostituire pezzi danneggiati o per effettuare riparazioni importanti; nessun porto li avrebbe riforniti di viveri, acqua potabile e verdura fresca, senza contare che essi dovevano conservare il più stretto riserbo per tenere occulta al nemico la loro presenza e la loro posizione. Perfino le comunicazioni via radio dovevano essere eseguite con la massima discrezione, perché avrebbero potuto tradire le navi corsare e decretarne la fine: e questo nel corso di crociere che duravano molti mesi, a volte più di un anno.

Si può quindi comprendere, anche se non sempre giustificare – sono due concetti profondamente diversi, che lo storico equanime sa ben tenere distinti, ciascuno nel proprio ambito – la durezza e, talvolta, la mancanza di umanità dei comandanti tedeschi, i quali badavano ormai pressoché esclusivamente al loro scopo di guerra: distruggere la maggior quantità possibile di tonnellaggio nemico, infliggere il massimo danno alla macchina militare alleata, vendendo cara la pelle: il che significava astenersi da tutte quelle azioni che avrebbero potuto preservare la vita degli equipaggi nemici, se le condizioni generali della lotta sugli oceani fossero state diverse e più equilibrate. In particolare, si trattava di impedire che le navi fermate avessero il tempo di lanciare l’allarme via radio, richiamando le navi da guerra britanniche e americane che pattugliavano le principali rotte oceaniche, in lungo e in largo, dotate dei più sofisticati mezzi tecnologici per far fronte a tali attacchi, sia da parte delle navi di superficie tedesche, sia da parte dei sommergibili.

Ora, per ridurre al minimo tale rischio, non esisteva che un mezzo: colpire e distruggere la stazione radio della nave in questione, in modo che il marconista non avesse materialmente il tempo di lanciare l’allarme; il che, evidentemente, richiedeva che si aprisse il fuoco prima ancora di dare l’intimazione di fermarsi e lasciarsi abbordare. È chiaro che questo implicava il sacrificio di vite innocenti, o, quanto meno, metteva nel conto la possibilità di tale sacrificio. D’altra parte, non tutte le navi mercantili alleate erano prede inermi, equipaggiate solo con personale della marina mercantile. Spesso, specialmente le navi da trasporto che viaggiavano non in convoglio, ma isolatamente, erano armate di uno o due cannoni e di alcune mitragliere, serviti da personale della marina da guerra, sia inglese che statunitense. Qualcosa di simile a quanto avviene oggi a bordo dei piroscafi o delle petroliere che navigano in acque infestate dalla pirateria internazionale e che sono presidiate, pertanto, da reparti delle marine militari delle nazioni di provenienza (e sappiamo bene cosa è accaduto, al largo del porto indiano di Kochi, in occasione di uno di tali viaggi da parte della petroliera italiana «Enrica Lexie», il 15 febbraio 2012).

Visto che gli incrociatori ausiliari tedeschi viaggiavano, per sottrarsi alla caccia delle marine alleate, sotto mentite spoglie, simulando, cioè, la nazionalità di qualche Paese neutrale o amico degli Alleati, essi non godevano di alcuna corazzatura e pertanto, in caso di scontro con i mercantili armati, si sarebbero trovati a combattere in condizioni di fortissima vulnerabilità: quasi a parità di rischio con la loro vittima designata. Ogni colpo di cannone avrebbe potuto centrare direttamente la coperta, la sala macchine o la santabarbara: nessuna parte della nave era protetta da corazze; l’unica protezione era, appunto, affidata all’abilità del comandante, alla sua prontezza e decisione, vale a dire alla sua capacità di catturare e affondare le navi nemiche prima che queste si rendessero conto di quel che stava accadendo e avessero l’opportunità di lanciare l’allarme via etere, oppure, addirittura, di far fuoco con l’armamento di cui disponevano.

Nella particolare tecnica di colpire le navi nemiche prima ancora di intimare loro la resa, si distinse il comandante del corsaro «Michel», Helmuth von Ruckteschell» (protagonista di due notevoli crociere oceaniche che fruttarono la distruzione di un cospicuo tonnellaggio nemico), il quale, a guerra finita, venne processato e condannato a dieci anni di prigione da un tribunale alleato per crimini di guerra, con la testimonianza decisiva di alcuni marinai britannici, già prigionieri a bordo della sua nave: fu uno dei due soli ufficiali tedeschi di marina che subirono questa sorte. Von Ruckteschell, peraltro, oltre che un valoroso veterano della prima guerra mondiale, era un uomo colto e raffinato, appassionato di musica classica: tanto va detto non per alleviare le sue responsabilità, ma per portare un ulteriore elemento di riflessione circa la complessa psicologia di un comandante navale sottoposto al pesante logoramento di una guerra come quella di corsa, lontano per tempi lunghissimi non solo dalla patria, ma da qualunque costa amica, e gravato dalla incessante responsabilità per la sicurezza della nave e degli uomini a lui affidati.

Altri comandanti tedeschi di questa fase della guerra navale erano, invece, sprovvisti della necessaria esperienza: tale fu il caso di Horst Gerlach, di cui ora diremo, che aveva mostrato le sue scarse attitudini durante la crociera in Atlantico, nella quale fece solo quattro prede da 30.000 tonnellate: per affondare una di esse sprecò la bellezza di 150 granate e ne incassò a sua volta un paio, il che dice tutto e non ha bisogno di ulteriori commenti. È chiaro che il comportamento di uomini come Gerlach poté essere scambiato per brutale, mentre era semplicemente dovuto al fatto che si trovavano a svolgere compiti superiori alle loro capacità e alla possibilità di resistenza del loro sistema nervoso.

Dall’altra parte della barricata, per così dire, troviamo dei comandanti britannici o americani, i quali, pur essendo in forza alla marina mercantile, avevano sia le responsabilità, sia, sovente, i requisiti dei loro colleghi della marina da guerra: esperienza, temperamento, decisione; l’avere a bordo dei pezzi di artiglieria e delle mitragliatrici li rendeva consapevoli di potersi difendere e, anzi, desiderosi di battersi fino all’ultimo, in caso di incontro con unità nemiche. Alcuni, come l’americano Paul Buck del «Peter Hopkins», erano non solo dei lupi di mare, ma anche dei comandanti duri e coraggiosi, niente affatto disposti a lasciarsi intimidire dalla vista di un corsaro tedesco: gente decisa ad andare a fondo con la propria nave, piuttosto di arrendersi e concludere ingloriosamente la propria carriera. Qualsiasi cosa si pensi di loro sotto il profilo umano, bisogna ammettere che erano degli uomini intrepidi, quali non si trovavano in tutte le marine mercantili: più o meno l’equivalente marittimo di quei pionieri che avevano popolato il West un secolo prima e che, da pacifici allevatori e agricoltori, erano stati sempre pronti a trasformarsi in combattivi difensori della loro terra e della loro stessa vita contro qualunque nemico e specialmente contro gli attacchi delle tribù indiane ostili all’avanzata dei bianchi.

Fu appunto l’incontro drammatico fra due di questi uomini di mare così diversi fra loro, il tedesco Gerlach e l’americano Buck, che diede origine a uno dei più singolari e impressionanti combattimenti navali della seconda guerra mondiale, nel quale due navi mercantili, trasformate l’una in incrociatore corsaro, l’altra, più o meno, in incrociatore ausiliario, si batterono fino all’ultimo sangue e affondarono entrambe. Se il bilancio dello scontro non fu ancora più pesante in termini di vite umane, ciò si deve alla circostanza che, in quel momento, il corsaro tedesco non era solo, ma si trovava insieme alla nave appoggio «Tannenfels», con la cui assistenza stava procedendo a delle riparazioni in mare, nel mezzo dell’Atlantico meridionale, il 27 settembre 1942; però quest’ultimo decise di non raccogliere i naufraghi americani, dei quali sopravvissero solo 15 su 57. Una fitta nebbia gravava sulla zona, grazie alla quale l’inesperto comandante tedesco sperava di terminare le riparazioni senza fare spiacevoli incontri: ma quando egli vide sbucare dalla foschia lo «Stephen Hopkins», lo prese immediatamente a cannonate, senza neppure intimargli il fermo. Quello, sfruttando la distanza ridotta, invece di tentare una impossibile fuga, decise di affrontare il nemico e di vendere cara la pelle: cosa che riuscì a fare in maniera egregia, pur dovendo fronteggiare anche il «Tannenfels», subito accorso a sua volta.

Ma chi era la nave corsara che si parò davanti al “Liberty” americano, emergendo dalla densa nebbia, in quel fatale giorno di fine settembre del 1942? Si trattava della «Stier», che, dopo quasi 150 giorni di crociera ben poco fortunata lungo la rotta fra il Sud Africa e il Brasile, si apprestava a concludere ingloriosamente la sua carriera di scorridore dei mari Al comando del capitano di fregata Horst Gerlach, la «Stier» - varata nel 1936 come nave da carico «Cairo», ad un solo fumaiolo, 11.000 tonnellate di stazza, armata con 6 pezzi da 150 mm., due lanciasiluri e dotata di due idrovolanti per l’esplorazione aerea - era salpata da Rotterdam il 12 maggio 1941 ed era riuscita a guadagnare l’Atlantico passando per lo Stretto di Dover, nel corso di una battaglia fra le navi che la scortavano e alcune unità britanniche, nel quale era rimasta illesa.

Il drammatico combattimento fra la «Stier» e lo «Stephen Hopkins» è stato così rievocato dallo storico navale Léonce Peillard nella sua celebre opera «La battaglia dell’Atlantico» (titolo originale: «La bataille de l’Atlantique», con prefazioni di Karl Dönitz e Sir Peter Gretton, Paris, Editions Robert Laffont, 1987; traduzione dal francese di Oliviero Morpurgo, Milano, Arnoldo Mondadori Editore, 1992, pp. 271-3):

 

«Tagliando diagonalmente il Sud Atlantico, molte navi mercantili alleate facevano rotte isolate, armate di uno o due pezzi, serviti da cannonieri della Royal Navy o della U. S. Navy. Era il caso del liberty americano “Stephen Hopkins”, comandato da un vecchio marinaio, il “master” Peter Buck. (Il “liberty” era un tipo di nave mercantile progettato dalla United States Maritime Commission e costruito in serie, mediante il sistema della fabbricazione in migliaia di esemplari (nei soli Stati Uniti ne furono costruiti più di 2.300), dall’aprile 1941, per compensare le perdite in navi da carico inflitte dai sommergibili tedeschi. Le “liberties” note in America come “navi EC-2” avevano 7.185 tonnellate di stazza lorda, erano lunghe 135,57 m. e avevano una velocità di 10-11 nodi.) Un cannone da 4 pollici (102 mm.) era oggetto delle migliori cure del sottotenente di vascello K. M. Willett della U.S.N.R. e dei pochi serventi. Essi si tenevano pronti a ribattere al minimo allarme.  A proravia dell’”Hopkins”, due mitragliere da 37 mm. Potevano respingere un eventuale attacco portato da un sommergibile.

Alle 9 del mattino del 27 settembre 1942, il tempo era nebbioso e Buck aveva calcolato di trovarsi circa a 28° S – 14° W, quando l’ufficiale di guardia segnalò: “bastimento per 310°. Effettivamente, una nave sconosciuta si dirigeva verso il liberty. Willett batté posto di combattimento. I proietti furono portati a pie’ del pezzo; il 102 fu caricato. Era tempo. Proietti cominciavano a inquadrare lo “Stepehn Hopkins”.

Lo “Stier” aveva aperto il fuoco con i suoi sei cannoni da 150. Il tiro del violatore di blocco ”Tannenfels” venne tosto ad aggiungersi a quello del raider.

Con sangue freddo, il comandante Buck non cercò menomamente di sottrarsi. Egli sapeva che il sottotenente di vascello Willett avrebbe reso colpo per colpo. Un duello d’artiglieria violento e ininterrotto s’impegnò tra le tre navi… Dopo aver ricevuto 35 proietti, con lo scafo crivellato, con numerose vie d’acqua, lo “Stier” si ritirò…Un proietto tedesco aveva fatto esplodere la riserva di munizioni del cannone di Willett. Buck manovrava, si avvicinava al “Tannenfels” la cui coperta era spazzata dai proietti delle 2 mitragliere da 37 mm. Il secondo dello “Stephen Hopkins”, mentre impartiva degli ordini, aiutava personalmente i serventi di queste. Tuttavia, il liberty, ridotto a un colabrodo, le stive piene d’acqua, pescava sempre di più. Da prora a poppa, la coperta era in fiamme… Lo scontro era durato quasi tre ore. Quando, bandiera al vento, lo “Stephen Hopkins” affondò, lo “Stier” era da tempo scomparso dalla superficie del mare.

Dopo la battaglia, non restava ora che salvare i superstiti.

Gli americani non avevano potuto far filare a mare che un solo canotto di salvataggio, contenente carte e strumenti di navigazione. I naufraghi navigarono 31 giorni prima di toccare le coste del Brasile. Non restavano che 15 superstiti. Il “Tannenfels” s’era incaricato di salvare i superstiti dello “Stier”. Poté raggiungere Bordeaux senza incidenti.

Quello stesso 27 settembre, il “Michel” non era lontano dal luogo dello scontro. Dopo essersi separato dallo “Stier”, von Ruckteschell era riuscito a distruggere il britannico “Arabistan”, il 14 agosto, l’”American Leader” e l’”Empire Dawn”, nella notte tra il 10 e l’11 settembre. Il comandante tedesco aveva attaccato con la sua solita violenza e ogni volta le perdite di vite umane tra gli equipaggi erano state altissime.

Quando il marconista del “Michel” captò le trasmissioni dello “Stephen Hopkins”, subito seguite da quelle dello “Stier” che affondava ed invocava aiuto, von Ruckteschell pensò fosse prudente allontanarsi a tutta velocità. Esso andò a rifugiarsi, a nascondersi nelle zone ghiacciate e deserte dell’Antartico. Alla fine di ottobre, il “Michel” passava nell’Oceano Indiano. Il 1° gennaio 1943 il raider, rientrato nell’Atlantico, si trovava nei pressi di Sant’Elena.

Von Ruckteschell stava già dirigendosi a nord per raggiungere un porto della Francia, quando ricevette istruzioni da Berlino. Poiché gli inglesi avevamo incominciato la loro offensiva nel Golfo di Guascogna, l’alto comando tedesco stimava più prudente  dirigere il “Michel” verso il Giappone.

Durante la sua missione, durata nove mesi e dieci giorni, il “Michel” aveva affondato 14 navi per un totale di 94.362 tonnellate.

Lo “Stier” era scomparso, il “Komet” era stato affondato nella Manica in ottobre, il “Thor” era saltato in aria nel porto di Yokohama in novembre. Unico superstite della seconda ondata di raiders, il “Michel” si era rifugiato in Giappone. I raiders della seconda ondata avevano affondato in tutto 31 navi mercantili alleate, per 217.437 tonnellate, nell’Atlantico, nel Pacifico e nell’Oceano Indiano.»

 

In conclusione, per quanto spettacolari fossero le imprese degli incrociatori corsari tedeschi, per quanto grandi le doti di abilità mostrate dai loro comandanti e quelle di abnegazione degli equipaggi, le industrie americane erano in grado non solo di rimpiazzare prontamente il naviglio affondato, ma di varare sempre nuove unità, sempre più perfezionate e potenti, sempre più dotate di armi e strumentazione tecnica, che spostavano progressivamente gli equilibri delle forze in mare a favore degli Alleati. Così come per gli armamenti terrestri – cannoni, mitragliatrici, munizioni, carri armati, autocarri – e per quelli aerei, i cantieri navali americani sfornavano a ritmo incessante navi che andavano a sostituire quelle perdute o usurate, molte delle quali venivano poi cedute alla Gran Bretagna in base alla famosa legge “affitti e prestiti” (“Lend-Lease Act”): un programma di rifornimento alle macchine militari dell’Inghilterra e, poi, di altri Paesi, come Unione Sovietica e Cina, che era stato varato ben nove mesi prima dell’attacco giapponese a Pearl Harbor e, quindi, prima dell’ingresso ufficiale degli Stati Uniti nella seconda guerra mondiale.

Quel che potevano fare le navi corsare tedesche contro una simile, gigantesca macchina industriale, era praticamente una goccia nel mare; e infatti, poco dopo, l’Ammiragliato tedesco decise di sospendere quel tipo di missioni e di puntare tutto sulla carta dei sottomarini, dotati di una sempre maggiore autonomia operativa e, soprattutto, meglio attrezzati per la guerra al traffico mercantile alleato, sferrando i loro attacchi senza dover emergere in superficie. Ma anche gli Alleati stavano perfezionando le tecniche di difesa antisommergibile, nonché l’efficacia e la precisione del radar, per cui nemmeno i sommergibili avrebbero potuto rovesciare le sorti della lotta in corso, come già si era visto durante la prima guerra mondiale.

La sconfitta dell’Asse, in una guerra di lunga durata, era nella natura stessa delle cose: una potenza continentale, come la Germania, non avrebbe mai potuto avere la meglio su delle potenze marittime come quelle anglo-sassoni, specialmente se già impegnata a fondo contro un’altra potenza continentale, l’Unione Sovietica. Quest’ultima, infatti, poteva contare sul costante flusso di rifornimenti bellici da parte degli Stati Uniti, e ciò fin dall’inizio dell’Operazione Barbarossa, ossia l’invasione da parte delle armate tedesche. L’errore capitale di Hitler fu, appunto, la decisione di invadere l’Unione Sovietica, senza disporre dei mezzi sufficienti a piegarne la resistenza entro il sopraggiungere dell’inverno, perché ciò ebbe come conseguenza il trasformarsi della “guerra lampo” in guerra di usura, nella quale sia il fattore tempo, sia il fattore spazio giocavano contro l’Asse.

Si è spesso affermato che Hitler, dominato da una mentalità prettamente continentale, non riuscì mai a comprendere i veri termini del problema militare relativo alla seconda guerra mondiale: l’impossibilità, cioè, per l’Asse, di vincere un confronto di lunga durata contro uno schieramento nemico che disponeva del dominio dei mari e, tramite questo, della possibilità di rifornirsi indefinitamente di materie prime e materiali bellici. L’osservazione è, in buona sostanza, pertinente: egli avrebbe dovuto o essere in grado di vincere la guerra in pochi mesi, oppure rassegnarsi a non farla: agendo come agì, dimostrò di essere un giocatore d’azzardo piuttosto che uno stratega, mettendo il futuro della sua patria sul tavolo verde di una tragica roulette.

Nello stesso tempo, il prolungarsi della guerra fu uno dei fattori determinanti della sua crescente brutalità e del comportamento sempre più inumano cui gli uomini dovettero adattarsi per sopravvivere, come si vide anche in episodi della guerra navale quali la crociera del comandante Ruckteschell. Si trattava di adeguarsi ai ritmi d’una ciclopica e inesorabile macchina industriale, nella quale non c’era più posto per comportamenti cavallereschi, come quelli del comandante von Müller dell’incrociatore «Emden» all’inizio della prima guerra mondiale. Chi non diventava spietato, oltre che abile, non durava e metteva in pericolo i suoi uomini: e tale fu il caso del comandante Horst Gerlach dell’incrociatore ausiliario «Stier» (anche se egli personalmente sopravvisse e rientrò in patria: si è spento nel 1970). Solo in base a questo contesto inesorabile si può spiegare il comportamento del «Tannenfels», che raccolse solo i naufraghi della nave corsara e abbandonò al loro destino quelli della nave americana: un modo di agire che macchiò l’onore della Marina tedesca, anche se - bisogna dirlo per onestà storica - fu nel complesso non molto frequente e, del resto, in linea con quello di taluni ufficiali alleati.

Che dire, ad esempio, di quel pilota americano che, dal suo «Liberator», dopo essere passato e ripassato sopra un sommergibile tedesco che non aveva compiuto alcun atto ostile contro di lui, perché impegnato nel soccorso ai naufraghi del transatlantico inglese «Laconia», e anzi aveva esibito una bandiera con la Croce Rossa e avvisato in codice che stava soccorrendo anche dei cittadini britannici, lo bombardò, obbligandolo a immergersi e ad abbandonare quei poveretti? O del comandante dello stesso «Laconia», che, dopo il siluramento della sua nave mentre questa affondando, lasciò rinchiusi nelle stive 1.800 soldati italiani presi prigionieri davanti ad El Alamein, con le guardie polacche che li colpivano a colpi di mitra e di baionetta, per ricacciali indietro? E che cosa si dovrebbe dire di quegli stessi aguzzini che, alcune ore più tardi, sporgendosi dalle scialuppe di salvataggio, sulle quali si erano messi al sicuro, tagliavano con l’accetta le mani ai naufraghi italiani, per impedire loro di aggrapparvisi? 

Tutto questo avvenne nelle acque del Sud Atlantico, nei pressi dell’isola di Ascensione, a metà settembre del 1942 (dunque solo pochi giorni prima, e non molto lontano, dal teatro della battaglia fra lo «Stier» e lo «Stephen Hopkins»): ed è una realtà storica ormai piuttosto ben documentata. Però nessun tribunale militare ha mai processato, né condannato per crimini di guerra, i responsabili di quelle azioni: a conferma della scontata verità che i vincitori si ergono volentieri a giudici degli sconfitti, ma non processano mai se stessi…