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Il fascino arcano e l'incantevole mistero dei grandi alberi centenari e millenari

di Francesco Lamendola - 26/11/2014

Fonte: Arianna editrice


 


 

Gli alberi possono essere incredibilmente longevi, arrivando a toccare l’età di molte centinaia e, in alcuni casi, perfino di svariate migliaia di anni, accrescendosi stagione dopo stagione, un anello alla volta, fino a raggiungere dimensioni veramente colossali.

In pratica, non c’è limite naturale o fisiologico alla durata della vita di un grande albero, una volta che esso si sia insediato in un terreno adatto e vi abbia trovato tutte le condizioni ottimali per la sua sopravvivenza: acqua e sali minerali presenti nel terreno, temperatura, venti, umidità dell’aria e, soprattutto, la giusta quantità di luce. Esso è in grado di reagire agli assalti degli organismi parassiti, di sviluppare un sistema radicale così ampio e profondo da ancorarsi inestricabilmente al suolo, e un sistema aereo sufficiente a garantirgli la conquista della luce senza rivali e senza ostacoli, nonché un manto fogliare tale da permettere lo svolgimento della funzione clorofilliana in tutta la sua efficienza, nonché il perfetto ricambio fra l’ossigeno presente nell’atmosfera e l’anidride carbonica che le foglie, a loro volta, emettono nel processo di respirazione (ossia nel processo inverso a quello della fotosintesi, in cui l’albero cede ossigeno e assume anidride carbonica).

Se non intervengono fattori esterni, come frane del terreno, inondazioni di fiumi o incendi nella foresta, si può dire che non vi sono limiti definiti all’accrescimento di una pianta e, quindi, alla vita di un albero: a differenza dell’animale, del quale si può stimare, per ciascuna specie, la durata della vita media, per gli alberi, e specialmente per quelli delle specie più grandi, è impossibile fare una previsione circa la durata della loro vita; si direbbe che la natura li abbia creati per la vita e non per la morte, senza porre un chiaro confine alle loro possibilità di sopravvivenza. Tutto questo è in contrasto con la nostra abituale percezione del mondo vegetale, che, a confronto di quello animale, ci sembra per molti aspetti più limitato e meno interessante; mentre, nello stesso tempo, ci spalanca sconfinate prospettive di riflessione filosofica.

Noi, infatti, siamo abituati a misurare ogni cosa, e quindi anche la durata del tempo, sul nostro metro di esseri umani: un tempo ci sembra “lungo” se si misura in anni, “lunghissimo” se si misura in secoli; l’idea di una creatura vivente che era già antica quando Colombo sbarcava in America, o quando le legioni romane varcavano il Reno, o quando Fidia decorava il Partenone; addirittura, di un essere vivente che era già antico quando i faraoni facevano innalzare le Piramidi, ci sembra fantastica e degna di un romanzo di pura immaginazione. Invece sono esistiti, ed esistono ancora, degli alberi millenari, che slanciano orgogliosamente i loro palchi verso il cielo e che offrono la loro dimora a centinaia di uccelli e di altri animali – mammiferi, rettili, insetti - quando l’«Iliade» non era stata neppure concepita e perfino quando le civiltà umane non esistevano affatto, o almeno non esistevano quelle che noi conosciamo o crediamo di conoscere: cioè quelle dei Sumeri, degli Egizi, degli abitanti di Mohenjo Daro.

Tali riflessioni mettono un po’ in crisi, bisogna ammetterlo, la nostra abituale prospettiva antropocentrica e un po’ della nostra istintiva presunzione: ci si rende conto che l’uomo non è la misura di tutte le cose, anche se, col pensiero, egli può afferrare e indagare molti aspetti della realtà, e inoltre possiede gli strumenti, che l’intelligenza gli ha fornito, per dominare l’ambiente e la stessa facoltà riproduttiva dei viventi – cose che non sempre, in verità, denotano in lui saggezza e senso della misura; ma quanto alla durata della sua vita e al suo posto effettivo nella natura, ridimensionano un bel po’ le sue pretese e gli suggeriscono un poco di umiltà, una dote della quale non sempre si mostra sufficientemente fornito.

I grandi alberi secolari e millenari non sono soltanto dei monumenti della natura incredibilmente affascinanti; non solo rappresentano una somma di valori estetici, storici, culturali, legati, come sono, alle vicende dell’ambiente e dell’uomo stesso, alle sue credenze, alle sue religioni (quanti di essi sorgono sul sito di antichissimi templi e santuari, e quanti ospitano, fra l’intreccio grandioso dei loro rami, immagini, sculture, simboli devozionali, amati e venerati da tempi immemorabili!); sono anche una testimonianza preziosa di come dovevano presentarsi gli antichi paesaggi, di come doveva essere il clima, di quale equilibrio si fosse stabilito fra la natura e i nostri progenitori durante una lunga fase della loro umana vicenda.

A proposito degli alberi storici, scriveva il professor Lino Vaccari (nato a Crespano del Grappa nel 1873 e morto a Roma nel 1951), un insigne botanico italiano ingiustamente dimenticato e poco conosciuto perfino nella sua terra natale trevigiana, nel volume «Come vivono le piante. Compendio di biologia e morfologia vegetale», Torino, Lattes & C. Editori, 1928, pp. 152-8):

 

«Nel Museo di Storia Naturale dell’Istituto Tecnico di Firenze, esiste una gran tavola circolare di oltre due metri di diametro, fatta con una fetta trasversale di un tronco di “Pinus Laricio” proveniente dai boschi della Calabria. Conta 180 anelli. Dunque l’albero ha vissuto 180 anni. È molto, ma in confronto dei tronchi che si conservano al Museo Agrario di Roma e di quelli che esistono sulla porta d’ingresso del Museo di Storia Naturale di Parigi, è ben poca cosa. Gli anelli concentrici si contano, ivi, a centinaia e perfino a migliaia, per cui si può affermare che gli alberi, cui avevamo appartenuto, furono testimoni di tutta la storia di un popolo. Cartellini piantati su quei tronchi a mo’ di banderuole in qualche anello, ricordano che, quando l’albero aveva la grossezza corrispondente, si svolgevano le Crociate, viveva Carlo Magno, i barbari invadevano l’Italia, sfolgorava la potenza dell’Impero Romano, era viva la gloria di Cesare… e ci sarebbe spazio per altre bandiere, ricordanti fatti ancor più antichi. L’anima nostra, dinanzi a quei resti, si sente presa da sincera ammirazione, e spontanea ci esce dal labbro una recriminazione contro il taglio compiuto. Si vorrebbe che il gigante maestoso fosse ancor vivo e vegeto, per poterlo ammirare; si vorrebbe poter punire il vandalo che, per poche decine o centinaia di lire, distrusse tale monumento della Natura.

Perché monumento può ben essere definito, ad esempio, il celebre “Castagno dei Cento Cavalli” sull’Etna, il quale vanta forse due mila anni di vita. Il suo nome deriva, a quanto narra la tradizione, dal fatto che la Regina Giovanna d’Aragona, recandosi dalla Spagna a Napoli, si sarebbe fermata in Sicilia e sarebbe andata a visitare l’Etna, accompagnata dalla nobiltà di Catania (non meno di cento persone, tutte ea cavallo), e che, sorpresa dal temporale, avrebbe trovato riparo, con tutto il seguito, sotto alla maestosa chioma del Castagno in parola. Questo albero immenso, il cui ceppo misura ben 53 m. di circonferenza è ridotto ora a due soli getti laterali, essendo stato il tronco principale distrutto da circa quattro secoli. Il viaggiatore Houel scrive che, all’epoca in cui egli lo vide (nel 1774), alcune persone del paese avevano costruito fra quei rami una casa, nella quale c’era un forno per disseccarvi castagne ed altri frutti. E soggiunse che, sovente, quando mancava la legna quella gente dava di piglio all’ascia e la tagliava dall’albero steso, cosicché esso era in un grave stato di distruzione. Il triste vandalismo non è cessato. Tre anni or sono, ad esempio [cioè nel 1931], in seguito ad una grave disputa scoppiata fra i comuni di Sant’Alfio e di Giarre, per il fatto che il primo, fino ad allora frazione del secondo, aveva voluto staccarsene per formare comune da sé, alcuni giovani di Giarre, e non del tutto analfabeti!, salirono con una rapida automobile ed una latta di benzina sul poggio ove sorge il grande vegliardo, il più vecchio albero d’Europa, e… (a grandi offese grandi punizioni!) vi appiccarono il fuoco. Iddio ha voluto che rimanesse bruciato solo uno dei grossi getti laterali. Quello di mezzo. Sicché il vetusto albero, che ha visto svolgersi, sotto i piedi, tutta la storia della Sicilia; che ha assistito al cozzo formidabile della civiltà greca, punica e romana; che ha visto la sua terra, già potente, cadere, risorgere e ricadere, finché poté unirsi al resto d’Italia; che la vide faro luminoso nel mondo, ed oscurata dal servaggio; vive ancora, quantunque ridotto a miserabili resti. Ho raccolto, come una reliquia, dei pezzi carbonizzati del povero getto distrutto e li tengo preziosi come monito, fin che io viva, della strada che bisogna ancora percorrere, perché si possa dir vinta l’ignoranza tetra, anche della gente che, forse, sa di latino. Un suo fratello, ugualmente vecchio, se non ugualmente celebre (perché nessuna regina è andata a chiedergli ospitalità, durante un acquazzone), ha finito miseramente, sotto i reiterati colpi bestiali, 10 anni or sono. Un terzo, il “Castagno di Sant’Agata”, ultimo superstite della grande foresta millenaria, vive rispettato entro ad una vigna. Ma durerà molto? Speriamo che i viti degli studiosi e degli amici del Bello possano indurre le autorità a prendere il “Castagno dei Cento Cavalli” e quello di “Sant’Agata” sotto la loro diretta e vigile tutela.

Non meno venerandi sono alcuni colossali ulivi esistenti a Tivoli (Roma), presso l’antica villa di Cassio. Tra questi, uno è noto col nome di “Albero Bello” o anche di “Albero della Spada”, perché, nel curare il tronco da un grosso tumore da cui era affetto, il proprietario trovò nascosta, in un cavo di esso, una spada appartenente al più remoto Medio Evo. Di quale segreto, di quale storia di sangue quella spada era depositaria? Da quanti secoli era stata ivi cacciata? Certo è che, quando fu posta in quel cavo, l’albero doveva essere già colossale; dunque, molte volte secolare. L’enorme grossezza che oggidì misura, fa pensare che non debba contare meno di 2.000 anni e che, quindi, possa essere uno dei primi ulivi portati in Italia, ulivi che furono piantati, come è noto, nei dintorni di Roma verso il IV secolo avanti l’era volgare. Se così fosse, quell’albero avrebbe assistito dall’alto della collina, allo svolgesi di tutta la storia di Roma. Esso è vegeto e forte. Promette di vivere ancora parecchi secoli. Pure vegeto e forte è un altro vecchio albero, che i valdostani amano e venerano come un buon padre antico. È il famoso “Tiglio di S. Orso” ad Aosta, sotto il quale il Consiglio generale della Vallata soleva tenere seduta. Forse è sotto ai suoi rami che si decise di ripudiare la riforma religiosa di Calvino che, intorno alla metà del 1500, veniva predicata ad Aosta. Non altrettanto si può dire della storica “Quercia del Tasso” a Roma,sotto la quale l’infelice poeta, affranto dal male, soleva venire dal vicino convento di S. Onofrio, ove era ospitato, a riposarsi nella contemplazione della città eterna. Colpita dal fulmine, pochi anni or sono, è ridotta ora ad un povero scheletro, sostenuta da un muricciolo e da pilastri, ma amato e venerato dal popolo di Roma, come una preziosa reliquia. Accanto sorge un’altra querciola, destinata a sostituire la prima, quando le intemperie avranno demolito i resti della vecchia gloriosa.

Fuggitivo, dopo la battaglia di Mentana, Giuseppe Garibaldi giunse una mattina stanco e trafelato a Tivoli. Senza entrare in città, proprio alla porta d’ingresso, si gettò sotto ad un grande Olmo e si addormentò profondamente. Quell’albero avrebbe dovuto essere conservato come un caro ricordo. Invece la Società del Tramvai stupidamente lo abbatté. Quando la popolazione se ne accorse,fece collocare sul muro accanto una lapide che ricorda l’episodio. Ugual sorte toccò ad un vecchio Pioppo che esisteva fino a tre anni or sono e si poteva ammirare nel Corso Mazzini a Savona. Al suo tronco Napoleone aveva legato il suo cavallo. Era un ricordo storico che si doveva in qualche modo conservare, perché nessuna epigrafe potrà parlare all’anima del popolo, più di un autentico testimonio. Ma quanti non sono gli alberi multisecolari e venerandi del nostro paese? A Firenze gode tutte le simpatie il vecchio moncone di una grande Quercia, esistente alle Cascine. Morto da decine di anni, il “Quercione” vive nella mente del popolo. A Subiaco si narra che gli Elci del boschetto di S. Cosimato, si siano inchinati al passaggio di S. Francesco, e sono tenuti per sacri. Sulle Alpi incutono rispetto i tronchi, certo millenari, di “Pinus Cembra” che stanno morendo sulle più alte e dirupate creste, in faccia al ghiacciaio [del Piccolo S. Bernardo]. Ulivi, stranamente contorti e scavati [a Tivoli], ci parlano certo di epoche ultra remote.

Ma per vetusti che siano il “Castagno dei Cento Cavalli”, l’Ulivo di Tivoli e quello del Giardino di Getsemani a Gerusalemme, che la tradizione fa rimontare a Gesù Cristo; per venerande che siano la Quercia, detta “di Giove”, nella Foresta di Fontainebleau presso Parigi, la cui età è stimata non meno di 700 anni, e quella abbattuta nel 1812 a Bordza nelle province russe del Baltico, il cui tronco misurava quattro metri di diametro ed aveva circa mille anelli concentrici, e quella abbattuta nelle Ardenne nel 1824, che ne contava 1.500 circa, esse sono certamente delle bambine a paragone di certi Tassi che contano 3.000 anni (a Baaburn nella Contea di Kent), e di un certo Baobab delle isole del Capo Verde oil cui tronco nel 1749 misurava la bellezza di 9 metri di diametro, e che, secondo calcoli molto razionali, non poteva avere meno di 6.000 anni. Quanti ne avranno altri Baobab del Senegal, i cui fusti misurano 12 metri di diametro? Una tempesta abbatteva nel 1851 una “Dracaena” (Sangue di Drago) che sorgeva presso Orotava nell’isola di Tenerife. Il suo fusto misurava, al tempo della sua morte, 14 m. di diametro e la sua età fu valutata 8.000 anni. Attualmente, pure a Tenerife, ad Icod de los vinos, vive un’altra “Dracaena”, delle stesse dimensioni colossali e della stessa età.»

 

Il fatto che simili riflessioni, non solamente scientifiche, ma altresì storiche, estetiche e perfino speculative, unite a una serie di riferimenti naturalistici ben precisi, trovassero spazio in un libro di testo per le scuole medie superiori, sta a indicare di quanto i nostri nonni e bisnonni fossero più avanti di noi, figli del terzo millennio, quanto a sensibilità e ampiezza di vedute culturali; di quanto fossero, più di noi, consapevoli che la sopravvivenza dell’uomo si regge su un ragionevole patto con la natura e con l’ambiente, in base al quale non esistono solo, per lui, diritti illimitati, ma anche limiti e ben precisi doveri da rispettare; e di come, per converso, noi, che pure ci vantiamo delle nostre conoscenze scientifiche sempre più perfezionate e delle nostre possibilità tecnologiche, che i nostri antenati neppure avrebbero osato immaginare, siamo in realtà regrediti quanto a maturità olistica complessiva e di quanto sia diminuito il nostro livello di consapevolezza, al punto che chiamiamo tale regresso con il nome di “progresso” e ne meniamo vanto in continuazione, a proposito e a sproposito.

Qui, in effetti, si misura il danno enorme che non solo la nostra cultura, ma anche la nostra sensibilità, hanno ricevuto dal dilagare di un piatto scientismo di matrice positivista, tronfio dei suoi successi, magari apparenti, ed incapace di modestia e autodisciplina; dall’instaurarsi di un conformismo nutrito di vieti pregiudizi illuministici e di sostanziale pigrizia mentale, oltre che di una impressionante arroganza pratica; dal venir meno di quella capacità di vedere e riconoscere il bello, il buono e il vero, che pure possedevano in misura adeguata i nostri antenati, anche se meno scolarizzati, meno tecnologizzati, meno informati a livello giornalistico e televisivo, sostituita dal solo criterio dell’utile, divenuto il tirannico metro per valutare qualsiasi fatto, qualsiasi circostanza e qualsiasi azione.

Il medico di una volta, per esempio, nutrito di una solida cultura umanistica, oltre che scientifica; magari appassionato lettore di Cicerone, di Virgilio, di Orazio, sapeva vedere anche al di là dello stato puramente fisico dei suoi pazienti, che visitava a casa e che era capace di ascoltare, consigliare, confortare: non curava solo i corpi, ma anche le anime; e, quando non poteva fare nulla per essi, o perché il male era troppo avanzato, o perché derivava pressoché unicamente da fissazioni psicologiche di natura soggettiva, non di rado sapeva trovare le parole giuste per offrire un po’ di pace, un poco di speranza o almeno di serena accettazione. Il suo bagaglio culturale umanistico non era, pertanto, un di più, una inutile zavorra del tutto avulsa dalla sua professione: era l’humus necessario che gli permetteva di coltivare le proprie doti di umanità e di mettere la sua scienza al servizio di una pratica medica che rifiutava il paraocchi materialista e, né riteneva che farsi carico anche degli aspetti umani, affettivi e morali della malattia, costituisse una inammissibile deviazione dal proprio legittimo ambito professionale, stabilito una volta per tutte.

E quello che abbiamo detto per la figura del medico, possiamo dirlo per quella dello scienziato in generale, anche se è un fatto che l’estremo livello di specializzazione cui le scienze sono giunte ai nostri giorni, configura un mutamento radicale del quadro complessivo, sia di ordine speculativo che di ordine pratico, nel quale la ricerca oggi si svolge. Una scienza che non sappia vedere la bellezza delle cose e che non sappia ragionare su di esse con profondo senso di umanità, non è vera scienza, ma solo una tecnica brutale di manipolazione e di dominio.

Ora, tornando ai grandi alberi secolari, non possiamo non vedere come il rispetto ad essi dovuto, la capacità di cogliere i valori di cui sono portatori, nella loro augusta e solenne bellezza – camminare all’ombra di una faggeta è come avanzare lungo le navate di una cattedrale gotica – da un lato si lega indissolubilmente al tipo di indirizzo che vogliamo imprimere alla ricerca scientifica, dall’altro alla cura per le radici della nostra spiritualità: una volta disseccate le quali l’uomo non è più uomo, ma soltanto un primate avido e incosciente, aggressivo e irrimediabilmente autodistruttivo.