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Nel dramma di Teodorico si prefigura il costante vicolo cieco della storia italiana

di Francesco Lamendola - 26/11/2014

Fonte: Arianna editrice


 

 


 

Il regno di Teodorico, dal 489 al 526, rappresenta un momento cruciale nella storia d’Italia e il suo drammatico fallimento prefigura una costante della nostra vicenda nazionale: l’impossibilità di cementare in un sol blocco stato e  nazione, di condurre ad unità d’intenti le diverse classi sociali, di giungere a una pacificazione politica e religiosa di lungo periodo e infine, ma non ultimo, l’incapacità di costituire un fronte compatto nei confronti di minacce esterne.

Teodorico, educato a Bisanzio e imbevuto di cultura romana - pur senza essere, personalmente, una persona colta, diciamo piuttosto un profondo ammiratore d’una civiltà che avvertiva come infinitamente più evoluta e raffinata della sua -, dopo aver piegato l’ostinata resistenza di Odoacre e dei suoi Eruli, iniziava il suo programma di governo in Italia animato dalle migliori intenzioni di giungere a una sistemazione reciprocamente vantaggiosa dei due popoli ormai conviventi nella Penisola: i Romani e gli Ostrogoti.

La sua posizione, però, era doppiamente ambigua, se non addirittura contraddittoria: era il capo di un popolo invasore e conquistatore, che ambiva a presentarsi ai vinti e ai conquistati come il loro difensore e il restauratore della loro gloria perduta; ma, nello stesso tempo, se non voleva perdere tutta la considerazione e la fedeltà dei suoi, non poteva fare finta che la conquista non vi fosse stata, né disconoscere ai Goti il diritto di accamparsi da vincitori nel Paese di adozione. Il risultato fu che i Romani continuarono a guardarlo come un barbaro usurpatore, oltre che un eretico (in quanto seguace del cristianesimo ariano), benché egli si circondasse di funzionari e di ministri romani; e che i Goti si sentirono sempre più traditi e disgustati dalle sue aperte simpatie filo-romane, e, ad un certo punto, gli imposero un brusco cambio di rotta.

Le difficoltà interne giunsero al punto di rottura a causa di fattori esterni: la politica di persecuzione anti-ariana intrapresa dalla corte di Costantinopoli, che finiva per alienargli il sostegno della Chiesa cattolica italiana, e i preparativi di guerra di quella stessa corte, resi più temibili dal crollo del sistema teodoriciano di alleanze fra i regni romano-germanici. La rottura dell’equilibrio a Occidente, dovuta alla schiacciante vittoria dei Franchi (cattolici) sui Visigoti, da Teodorico solo arginata mediante la pronta occupazione della Provenza e l’alleanza con i Burgundi e i Vandali, venne così a sommarsi alle avvisaglie di offensiva a Oriente, da parte dell’Impero che non aveva mai riconosciuto formalmente il fatto compiuto in Italia.

Il re goto avrebbe potuto, nondimeno, restare fedele alla sua politica di conciliazione interna e, anzi, avrebbe potuto trovare in essa, semmai rafforzandola, le risorse per fronteggiare la duplice minaccia esterna, a condizione di poter contare sulla collaborazione senza riserve almeno delle classi egemoni dei due popoli: ma, se i senatori romani, come Simmaco e Boezio, gli voltavano le spalle per cercare la protezione di Costantinopoli, e se i maggiorenti goti gli forzavano la mano affinché desse un segnale irrevocabile d’intransigenza verso qualunque defezione – come avvenne con la condanna a morte di quei ragguardevoli personaggi -, il suo potere veniva a poggiare sul vuoto e nessuna politica era più possibile, che non fosse quella della repressione interna e della guerra difensiva alle frontiere. Troppo poco, per tenere insieme un regno di sì recente conquista, e caratterizzato da un così profondo dualismo fra le due componenti nazionali.

In effetti, qualche romano ancor disposto a scommettere sulla collaborazione coi Goti esisteva: basti pensare al celebre Cassiodoro; e anche fra i capi Goti non dovevano mancare i fautori di una linea di compromesso, come poi si vide, ma solo per breve tempo, quando la figlia Amalasunta gli successe sul trono, prima di esserne sbalzata dai maneggi di Teodato. Ma erano troppo pochi: la maggioranza, dall’una e dall’altra parte, era incline ad attendere che la guerra, contro l’Impero o magari contro i Franchi, tagliasse il nodo di tante tensioni e contraddizioni. Quanto alla classe più numerosa, quella dei servi italiani, dei coloni e dei nullatenenti, nessun sovrano e nessun ceto pensò mai seriamente di farvi ricorso, se non quando le condizioni per intraprendere qualsiasi cosa erano ormai disperate: e ciò avverrà sotto il regno di Totila, quando la posta in gioco, nel prolungarsi della tremenda guerra greco-gotica, sarà niente di meno che la sopravvivenza stessa del popolo ostrogoto; ma troppo tardi.

Fin dal regno di Teodorico, dunque, la storia d’Italia presenta queste caratteristiche: una classe dirigente velleitaria e divisa, una totale esclusione delle classi subordinate, un peso determinate svolto dai fattori della politica internazionale, visti dagli uni come l’unica speranza di riscatto, dagli altri come la minaccia della sciagura suprema. La Chiesa cattolica, che avrebbe potuto svolgere un decisivo ruolo di mediazione fra i due popoli e fra le due politiche, quella dell’integrazione e quella della contrapposizione, non fu capace di farlo: non seppe superare lo scoglio rappresentato dall’arianesimo, né seppe convertire i Goti al cattolicesimo in tempi brevi; tutto quello che decise di fare fu attendere l’arrivo dei Bizantini, vedendo in essi, ma a torto, lo scioglimento del nodo rappresentato dalle eresie. Lo scisma dei Tre Capitoli, più tardi, avrebbe mostrato che Bisanzio era essa stessa gran parte del problema, e non già la sua soluzione.

C’è poi un altro aspetto della questione che merita di essere evidenziato: gli Ostrogoti, benché vittoriosi su Odoacre, nell’atto di insediarsi in Italia e di fondarvi un regno, si trovarono sottoposti a un vero e proprio shock culturale. Non ebbero il tempo materiale per assimilare gradualmente la cultura latina, di cui pure sentivano il fascino; in compenso ne ebbero abbastanza, perché ne bastò pochissimo, per assimilare gli aspetti peggiori della corrotta società tardo-romana, l’abitudine al lusso e agli ozi, nonché l’ostentazione di una cultura appariscente, ma ormai logora e vuota. Lo stesso Teodato, che si dice amasse la filosofia, conduceva, nei suoi possedimenti della Tuscia, la vita di un senatore romano adagiato nella mollezza e negli intrighi politici: brutta mescolanza di decadenza romana e di perfidia barbarica. I suoi vicini vivevano nel terrore, perché, a dispetto degli aurei insegnamenti del “suo” Platone, Teodato adorava cacciarli dai loro fondi e impadronirsi di questi ultimi con la forza, per pura e semplice avidità di possesso. Egli era l’esempio vivente di un incontro infelice tra le due culture: un uomo che non aveva conservato le virtù del suo popolo, né appreso quelle del popolo conquistato, ma che aveva sviluppato i difetti più sgradevoli dell’uno e dell’altro, la torbida pusillanimità e la propensione alla violenza sopraffattrice.

Coloro i quali, ai nostri giorni, si riempiono la bocca magnificando le meraviglie di una società multietnica e multiculturale, dovrebbero forse considerare con più attenzione l’ammonimento rappresentato da una pagine di storia come quella del regno di Teodorico. Le premesse sembravano delle migliori: un re forte, intelligente e ben disposto; un popolo guerriero, capace di difendere i confini e respingere qualsiasi attacco; un altro popolo civile, evoluto e con una lunga tradizione amministrativa alle spalle, per governare il Paese nel modo migliore. Eppure non funzionò: e Teodorico, nei suoi ultimi anni, distrusse la sua costruzione politica con le sue stesse mani, accanendosi a perseguitare il papa, i cattolici, i senatori romani e tutti coloro dei quali sospettava che non gli fossero totalmente e incondizionatamente fedeli. Persino nel ricordo delle generazioni successive egli non ha potuto liberarsi dal peso delle maledizioni che hanno accompagnato il suo triste declino e la sua morte senza gloria e senza splendore: per gli Italiani, egli era e sarebbe rimasto il carnefice di Boezio. Infatti, come scrisse lo storico tedesco Gregorovius, Boezio era un accusatore troppo autorevole perché la sua condanna a morte non gettasse un’ombra inescusabile su tutto il regno di Teodorico.

Uno studioso di vasta e penetrante cultura, oggi – come spesso avviene - un po’ dimenticato, il bolognese Ugo Dèttore, così aveva magistralmente tratteggiato il dramma di Teodorico (da: U. Dèttore, «Il cammino della civiltà», vol. II della enciclopedia «Arcobaleno», Novara, Istituto Geografico De Agostini, 1965, v, pp. 220-2):

 

«[Teodorico riuscì a conquistare l’Italia, fra il 489 e il 493.] E allora cominciò il suo vero dramma. Non bastava essersi impadronito dell’Italia: bisognava tenere in vita la sua civiltà. E tra i guerrieri del suo consiglio, i suoi fidi compagni di mensa e battaglia, i più valorosi e sicuri, non ve n’era alcuno che potesse governare per un sol mese una città italiana senza provocarne lo sfacelo. Ebbene, i guerrieri goti avrebbero rappresentato la forza del nuovo stato romano, lo avrebbero difeso da altre invasioni, avrebbero goduto in compenso i frutti delle sue ricche campagne; ma l’amministrazione del paese sarebbe rimasta ai Romani, i soli capaci di tenere in vita gli artigianati e i commerci, di mantenere l’ordine in quelle città di pietra e di marmo che la sua gente avrebbe saputo soltanto demolire.

Si circondò di ministri romani, si vestì alla romana, stabilì la sua reggia in uno di quei palazzi di Ravenna edificati da architetti bizantini, ricchi di colonne e di mosaici. I suoi si sentirono traditi; i Romani guardavano con diffidenza quel conquistatore che aveva bisogno del loro aiuto per dominarli. E, a un certo momento, Teodorico si sentì solo e disamato. Ma la sua maggior delusione fu nel campo religioso: egli aveva abbracciato, con il suo popolo, quella che credeva la religione di Roma, l’arianesimo. L’aveva accolta da Bisanzio, ma Bisanzio, per i Germani, rappresentava Roma: per molti secoli avrebbero continuato a chiamare Romani i Bizantini. Ed ecco che il vescovo di Roma, il pontefice, e, con lui, tutta la popolazione italica, consideravano eretica la sua fede: Roma lo respingeva proprio in nome di quella fede con la quale egli credeva di esserlesi maggiormente avvicinato. Non riuscì a superare quell’ostacolo imprevisto e infine, esasperato, reagì da barbaro: mandò a morte i suoi ministri romani, perseguitò il vecchio pontefice e morì maledetto da coloro dai quali più avrebbe voluto farsi amare.

Questo il dramma di Teodorico, che fu, in definitiva, il dramma di tutto il popolo goto in Italia.

Gli invasori, in realtà, non avevano una posizione di privilegio. Erano state distribuite loro terre, secondo le consuetudini della conquista, ma erano naturalmente esclusi dalla vita cittadina, amministrativa, commerciale e artigiana: non perché quella vita fosse loro vietata, ma perché erano incapaci di adattarvisi, anche se, nell’intimo, la invidiavano. Gli antichi Germani non amavano le città, considerandole solo possibilità di preda; preferivano l’esistenza isolata nelle fattorie, radunandosi solo quando era necessario discutere qualche problema di interesse comune. Adesso la tradizione continuava, per lo meno in gran parte, ma la vita cittadina aveva assunto per loro un diverso significato. Era scomparsa in loro l’antica semplicità e sempre più forte diveniva nel loro spirito il desiderio di partecipare agli agi e ai lussi che erano naturali nel popolo vinto. I nuclei militari, accantonati in campi fortificati nella pianura padana o più a oriente, nelle vallate della Drava e della Sava, conducevano un’esistenza monotona e ingrata: non potevano appagare i loro istinti guerrieri, perché Teodorico, tutto preso dall’ansia di dare nuova vita alla civiltà romana, evitava le guerre, e non avevano la possibilità di inserirsi in quella civiltà stessa avendo solo il compito di difenderla.

Né più soddisfatta era quella scarsa e antica nobiltà gota che costituiva un tempo il consiglio dei sovrani vivendo al loro fianco, legata a loro da vincoli di fedeltà profonda, da intime intese, e che adesso si vedeva praticamente soppiantata da ministri e consiglieri romani, anche se viveva presso la corte, circondata di onori e arricchita da generose distribuzioni di terre. Questa nobiltà che, secondo le tradizioni antiche, discendeva dagli dèi al pari dei sovrani e rappresentava il fior fiore della società germanica, era adesso costretta a imparare il latino, lingua ufficiale nella corte e nei pubblici uffici, e ad apprendere faticosamente i principi dell’amministrazione e del diritto romani.

Meno scontenta poteva essere la nuova classe di funzionari goti che si andava formando a fianco dei funzionari romani nelle varie città e che costituiva una nuova nobiltà sempre più numerosa e potente. Ma, in fondo, si trovava anch’essa in una condizione di disagio dovendo adattarsi alla vita burocratica e a quelle abitudini romane che, ammirate e invidiate se viste da lontano, divenivano fastidiose e innaturali quando si era costretti a seguirle in tutti i particolari . Era, in definitiva, il disagio dell’arricchito che si trova improvvisamente a far parte di una classe superiore e deve accettarne i modi soffocando l’oscura nostalgia della povertà di un tempo.

Certo non era facile diventare Romani, e, soprattutto, non era facile divenirlo con quella celerità che Teodorico, educato a Bisanzio e avido di romanità, avrebbe voluto…»

 

La domanda, a questo punto, è se le cose avrebbero potuto andare diversamente: se Teodorico avrebbe potuto battere altre strade per rafforzare il suo regno, passando alla storia come il primo re di un’Italia rinnovata e gloriosa, così come i re franchi, ad esempio, seppero realizzare, con successo, la rinascita della nazione gallica, creando le premesse per fare della Francia quella che sarebbe stata, a lungo, la prima nazione d’Europa.

La risposta è, quasi certamente, di segno negativo. L’Italia non era la Gallia; e Teodorico non era Clodoveo. Non era cattolico e non desiderava diventarlo; non aveva compreso che, per perseguire la sua politica di fusione, o quanto meno di stretta collaborazione, fra Romani e Goti, la conversione dei secondi al cattolicesimo era un passaggio obbligato. Lo aveva capito perfino Sigismondo, re dei Burgundi, che si convertì nel 516: dieci anni prima della morte di Teodorico; e Sigismondo era un sovrano tanto meno avveduto del re goto.

Poi, l’Italia era stata il cuore dell’Impero Romano: era letteralmente carica di memorie, di storia, di arte, di leggi, di città; la Gallia, al confronto, era una terra semibarbara e semi-selvaggia. Tanto più facile, dunque, per un popolo germanico invasore, costruire un forte regno partendo da un sub-strato così simile, in fondo, a quello degli antichi popoli germanici, come il mondo celtico, rurale e tardivamente romanizzato, che non partendo da una terra dalle forti tradizioni urbane e commerciali e dalle raffinate esperienze culturali, come lo era l’Italia, benché profondamente decaduta durante gli ultimi secoli dell’Impero. Le forze fresche, impulsive, indisciplinate degli Ostrogoti mal si conciliavano con l’ormai esangue, ma superba tradizione dell’Italia romana. Era un matrimonio male assortito fra due mondi che non avevano nessun puto in comune sul quale fondare un sia pur minimo progetto di ricostruzione.

È ovvio che la classe colta romana, a un certo punto, dovette scegliere: chi, come Boezio, scelse Bisanzio, e ne pagò il prezzo; chi, come Cassiodoro, dopo aver collaborato con i Goti fino ai limiti del possibile, dovette alfine ricredersi, e puntare sulla estrema difesa della cultura dal grande diluvio che era ormai alle porte, e che rischiava di spazzare via, per chissà quanti secoli a venire, non solo la memoria della civiltà greco-romana, ma le stesse condizioni per la sopravvivenza di una vita civile organizzata, quale che fosse.

Da qui nacque il progetto del monastero di Vivarium, in Calabria, presso Squillace: il grande e, nello stesso tempo, umile progetto di un’arca di Noè della cultura, che mettesse al riparo dalla totale distruzione quel che un millennio di storia del Mediterraneo aveva creato e accumulato, e che ora rischiava concretamente di naufragare e scomparire per sempre, nell’arco di pochi decenni o di pochi anni. Cassiodoro ebbe ragione, Teodorico e Amalasunta ebbero torto: non esistevano, allora, le condizioni per rinnovare la gloria di Roma; per quello, bisognerà attendere almeno fino a Carlo Magno – e sarà, anche in seguito, la grande ossessione del Medio Evo, la grande ossessione di Ottone III e di tanti altri uomini delle due stirpi, tedeschi come Federico II e italiani come Cola di Rienzo.

Dal progetto di Vivarium, che sembrava un progetto disperato, sarebbe germogliata, lentamente ma sicuramente, la graduale e meravigliosa fioritura dell’Europa medievale; dal progetto di Teodorico, di far rinascere la gloria di Roma con le spade dei Goti, non sarebbe nato nulla, anzi, sarebbe proseguito e si sarebbe accentuato l’irreparabile declino politico dell’Italia, durato sin oltre le soglie dell’età contemporanea…