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Nonluoghi. Come abbiamo perso la realtà

di Lorenzo Vitali - 03/12/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


Dai luoghi ai nonluoghi abbiamo perso tutto un universo, abbiamo dimenticato le storie e il vissuto nascosti sottilmente nei simboli degli antichi modi di produzione. L'operaio, il contadino, il manovale, il bracciante, il garzone vengono sostituiti da una schiera di intermediari che offrono servizi nella città spersonalizzata.
 

C’è sempre una persona profondamente indisposta davanti a quei film in cui vengono distrutte auto, case, beni, in cui si sprecano cibi e ricchezza. Questa persona coincide, con tutta probabilità, con chi le automobili le assembla, o con chi, il cibo, lo prepara. E’ una forma di apprensione sacrale nei confronti della cosa, di cui si conoscono i particolari dell’intero processo di produzione; se ne conosce la realizzazione, ci si riconosce, e si finisce per conoscere la realtà. La produzione è la prima introduzione al mondo. Sino ad allora si è bambini. E’ da questo, forse, che proviene il senso di inettitudine che proviamo quando, sbarcati oltre le distese di cemento della finzione urbana, ci imbattiamo in quell’agricoltore che, mentre ci vende le olive, ci spiega che per la raccolta è meglio la brucatura della scuotitura. Le nostre dita curate – tanto da sembrare leziose – rubano il resto dal palmo pietroso del contadino. E’ da questo, verosimilmente, che deriva l’espressione puerile dei politici e dei sindacalisti dediti ad ascoltare gli operai in fabbrica. Né il volto bonario di Poletti né la canottiera di Landini bastano a quietare il loro esser fuori luogo.

Per chi non produce, la realtà è una sconosciuta e mette sempre a disagio. Fortunatamente nelle megalopoli terziarizzate i processi di produzione sono stati delocalizzati, e sorgono al loro posto quotidianamente i nonluoghi: palestre, centri commerciali, sale d’attesa, aeroporti, macchine, negozi, lounge bar, autogrill, fast food. Spazi di passaggio, senza relazioni. Qui i beni esistono e non sono prodotti: appaiono da sé. La città assomiglia a una vetrina. L’etica delle réclame ci addestra al consumo dissociato dalla produzione. L’oggetto è li per noi, senza una storia, senza un pretesto. Non basta la dicitura made in China per portare la nostra immaginazione tanto lontano da farci scoprire i ritmi del lavoro. Gli oggetti non hanno più una causa manifesta, ed è questa datità del mondo a renderlo disprezzabile. Rosso Malpelo ereditava dal padre le scarpe, mentre per noi buttarne un paio l’anno non è sconvolgente, fintanto che nessuno, che si sappia, ha prodotto quelle scarpe. La bottega del calzolaio è la narrazione di una storia – di tutto un meccanismo sottile di produzione – e la calzatura è un simbolo che fa riferimento a quel racconto. Nei centri commerciali spersonalizzati la scarpa è un simbolo che non si riferisce più a un vissuto, e priva di richiami realistici, rimanda alla sola fiaba di cui narra il marketing.

Il nonluogo, perciò, è uno spazio fuori dal tempo, mentre il luogo è un complesso di rapporti personali, di simboli incollati alla realtà, laddove la vita si giostra tra i poli dell’attività e dell’attesa, della tradizione e dell’eredità. Il nonluogo è uno spazio impersonale che disimpegna l’individuo in un momento neutro, che non è l’attività della produzione, né la riabilitazione dell’attesa – “gioia più compita” (Montale). Nonluogo è la fermata dell’autobus se a disimpegnarci – senza però introdurci nel limbo dell’attesa – sono le cuffie dell’auricolare o lo schermo del telefono. Nonluoghi sono tutti quegli spazi in cui si manifesta un’ansia generalizzata, una piscosi individuale e collettiva, la fibrillazione che non ci permette di godere immobili del sole sulle scale di una chiesa – come quei bambini dalle sembianze di putti, di cui solo le pellicole dei film evocano l’immagine – perché siamo tremendamente distanti dalle cose, dalla realtà, dalla maniera, dalla dimestichezza manuale, tramandata di generazione in generazione da una sapienza improvvisamente svanita, che ci obbliga a dimenticarci.

E così siamo stupefatti nel vedere i vecchi contadini delle province seduti le ore sulle panchine delle piazze, in quei luoghi che noi abbiamo perso (al bar, alla “fonte sotto”, al tavolo da gioco) dediti ad attendere il tempo, o gli operai che, senza far nulla, si rallegrano dell’attesa, prima di riprendere il lavoro, o la cameriera che fuma la sua sigaretta. Questi si fissano in una più grande esperienza del mondo, quella dell’attendere, proprio perché immersi un attimo prima nel processo di produzione, che è il vero farsi della realtà, e che ha garantito loro l’accesso a quella che poi è la condizione naturale: la necessarietà di un albero, l’ineluttabilità di uno scoglio. Tutto il resto, noi, siamo di troppo.