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La riflessione sulle creature extraterrestri nel pensiero di Nicola Cusano

di Francesco Lamendola - 10/12/2014

Fonte: Arianna editrice




 

Molto prima che Isaac Asimov, Philip K. Dick e altri studiosi o romanzieri di fantascienza si ponessero l’interrogativo se vi siano delle forme di vita su altri pianeti e quali potrebbero essere, tali interrogativi se li era posti un filosofo tedesco del XV secolo, che fu anche teologo, astronomo, matematico, giurista, nonché uno dei maggiori umanisti a livello europeo e un cardinale della Chiesa cattolica romana: Nicola Cusano o Niccolò da Cusa (Kues, 1401-Todi, 1464).

Studioso e pensatore geniale, dalla personalità poliedrica e prodigiosa, ma anche uomo dotato di eccezionale vitalità e intelligenza pratica, svolse varie missioni diplomatiche e fu ambasciatore del Papa sia presso il Sultano di Costantinopoli, sia presso l’imperatore tedesco, venendosi talvolta a trovare in situazioni personali drammatiche, come quando fu assediato in Brunico dalle truppe di Sigismondo d’Asburgo e riuscì a fuggire, a cavallo, in maniera fortunosa.

La sua produzione filosofica e teologica è vastissima e potrebbe riempire parecchi scaffali di una biblioteca, anche se oggi viene ricordata soprattutto la sua opera «De docta ignorantia» («La dotta ignoranza»), del 1440, di cui tutti gli studenti imparano il titolo (anche se ben raramente i loro professori si prendono la briga di farne leggere loro qualche brano), ove egli sostiene, in buona sostanza, che l’anima umana, ignorante del vero, deve sforzarsi di avvicinarsi alla Verità suprema, che è Dio, non per gradi, poiché la distanza che la separa da Lui è incommensurabile, ma con un unico, perenne sforzo, che le permetta di superare il proprio limite e tendere indefinitamente alla meta. In quanto creatura, l’uomo non potrà mai giungere al Vero; solo unendosi a Dio potrebbe farlo: dunque tale unione e tale congiungimento con la Verità non possono aver luogo in questa vita, ma nell’altra, quando cadranno i limiti della materia; intanto, però, non è senza valore la tensione dell’anima che cerca la Verità già nella sua condizione mortale. Il «De docta ignorantia» costituisce, probabilmente, la più alta manifestazione di quella corrente speculativa che prende il nome di Umanesimo cristiano, nella quale si contemperano la legittima fierezza dell’umana intelligenza, protesa verso le mete più alte della conoscenza, e la consapevolezza del proprio limite, che equivale al riconoscimento del mistero divino.

In questo ampio trattato, fra le altre cose, Cusano si pone anche l’interrogativo se possano esistere, nell’universo, altre forme di vita, diverse da quelle che vi sono sulla Terra; interrogativo che, come si può facilmente intuire, ha, fra l’altro, delle notevoli implicazioni a livello teologico, perché pone il problema della salvezza e della redenzione per quelle creature intelligenti cui Dio non si è manifestato, oppure si è manifestato secondo modalità che i cristiani, abituati a considerare le Scritture e la Tradizione come le uniche fonti della rivelazione stessa, fanno fatica ad immaginare e rispetto alle quali si sentono come presi da un senso di smarrimento e di vertigine.

Anche Dante, del resto, nella «Divina Commedia», pur senza immaginare delle forme di vita extraterrestri, riflettendo sull’esclusione dei non cristiani dal piano di salvezza universale, si era chiesto come conciliare tale esclusione con l’umano senso della giustizia, cui ripugna l’idea di una irrimediabile condanna di chi è senza colpa, solo per non essere stato a conoscenza della verità («Paradiso», XIX, vv. 70-78):

`…Un uom nasce a la riva 
de l'Indo, e quivi non è chi ragioni 
di Cristo né chi legga né chi scriva;

e tutti suoi voleri e atti buoni 
sono, quanto ragione umana vede, 
sanza peccato in vita o in sermoni.

Muore non battezzato e sanza fede: 
ov' è questa giustizia che 'l condanna? 
ov' è la colpa sua, se ei non crede?"

La questione della possibilità di altre forme di vita, o anche dell’esistenza di forme di vita simili alle nostre, ma presenti su altri corpi celesti, si intreccia, poi, con un’altra delicatissima questione filosofica e cosmologica: quella relativa alla finitezza o all’infinità dell’universo medesimo. Per Cusano, infatti, il mondo fisico è “implicito” in Dio; esiste, per così dire, al Suo interno, e non fuori di Lui; il mondo è, dunque, un «Dio contratto», nel quale tutte le cose coincidono («coincidentia oppositorum»), perché Dio, essendo l’Essere, è al di là sia del principio di identità, sia del principio di non contraddizione. Infatti Dio, in se stesso, è al di là del mondo: nelle sue creature traluce sia una “complicatio”, una sua presenza essenziale, sia una “explicatio”, una sua manifestazione, pur restando, Egli, al di là di tutte le cose finite. In accordo con la concezione medievale, quindi (l’Umanesimo cristiano non nasce dal nulla, ma da secoli di riflessione filosofica!), le cose visibili, gli enti del mondo materiale, sono anche dei “segni” che alludono a qualcosa che sta oltre di essi: la dimensione soprannaturale, cui intimamente partecipano, ma che, in essi, non si esaurisce affatto, restandone in certo qual senso velata e come implicita. Per poterla vedere e riconoscere, infatti, non è sufficiente la vista materiale, né lo strumento della sola ragione, ma serve qualcosa di più: serve la vista ulteriore, spirituale, che è propria della fede.

Per Cusano esistono una logica del finito e una logica dell’infinito; noi apparteniamo alla prima, caratterizzata dal principio di identità e da quello di non contraddizione; ma esiste anche una logica superiore, divina, nella quale gli opposti si attraggono e si fondono, tanto che Vero e Falso perdono la loro caratterizzazione oppositiva e scompaiono l’uno nell’altro. Dio è l’Essere necessario, il solo che non può non essere, mentre tutte le altre cose sono relative e non necessarie, potrebbero, cioè, anche non esservi. Quello che all’uomo è dato cogliere di Dio, non è che un aspetto, un “lato”, non Dio nella pienezza del suo Essere, perché un intelletto finito non può abbracciare la Mente infinita. Così, non ci resta che procedere per “congetture”, più o meno verosimili, più o meno probabili, mai suscettibili di trasformarsi in certezza. Eppure, il sapere congetturale non è affatto irrilevante, non è privo di dignità intrinseca; ma tale significanza e tale dignità non risiedano in ciò che le congetture significano in se stesse, bensì nella tensione dell’anima verso la Verità, nella sua sete ardente d’infinito, che in esse traspare.

Per Cusano, dunque, il concetto di “epistème” è privo di valore: se Platone poteva contrapporre la conoscenza certa e definitiva alla semplice “opinione”, aleatoria e sempre provvisoria, per lui, invece, non esiste alcuna possibilità di una “scienza” stabilita una volta per tutte, perché noi ci muoviamo nella sfera del finito, dove le cose sono distinte e opposte (giorno e notte, maschile e femminile), mentre, nella sfera dell’Essere, non vi sono più distinzioni né opposizioni, ma tutto è ricondotto ad unità, tutto è «compresente a Dio». E tuttavia Cusano non è uno scettico, non disprezza affatto lo sforzo della mente umana verso la verità; le pone, però, dei limiti ben precisi, o meglio, le pone davanti il chiaro concetto della propria finitezza: essa deve sapere che, per quanto avanti possa spingersi, tale procedere sarà sempre come nulla a fronte della Verità divina, almeno finché si rimane nella sfera del finito.

Il punto di partenza della riflessione di Cusano, pertanto, è socratico (con la mediazione agostiniana): l’uomo deve sapere innanzitutto di non sapere; solo da tale consapevolezza può scaturire una qualche forma di conoscenza: la “congettura”, che non ha valore definitivo in se stessa, ma che ha valore in quanto segno della tensione dell’anima verso l’Essere. Ora, se l’universo è infinito (e non potrebbe non esserlo, essendo dispiegamento della mente divina), allora esso non ha alcun centro, e avevano torto Aristotele e Tolomeo a sostenere il contrario, ponendo la Terra al centro di esso. L’universo non ha un centro, perché, essendo infinito, il suo centro è in ogni punto; e, del resto, per Cusano la Terra non è nemmeno immobile, ma ruota su se stessa, intorno al proprio asse.

Non solo. Cusano sostiene che le stelle sono come dei Soli disseminati negli spazi celesti; che intorno ad esse possono orbitare dei pianeti e che nessuna ragione di principio si oppone a pensare questi pianeti come abitati, così come lo è la Terra. Cusano, pertanto, è stato anche un anticipatore di Copernico nel formulare la teoria eliocentrica: e, come si vede, la sua maniera, cosmologica e probabilistica, di accostarsi al problema dell’abitabilità di altri mondi, è molto in sostanza simile a quella che viene adottata dagli scienziati dei nostri giorni.

Ma vediamo più da vicino, attraverso le sue stesse parole, come egli imposta la questione della vita extraterrestre.

Scrive, dunque, Nicola Cusano nel capitolo dodicesimo  del secondo libro del suo trattato «La dotta ignoranza» (traduzione di Graziella Federici Vescovini, Roma, Città Nuova Editrice, 1991, e Milano, Fabbri Editori,1996, pp. 153-54):

 

 «Neppure in relazione al luogo che occupa possiamo concludere per l’imperfezione della terra: cioè che il luogo di questo mondo sia abitato da uomini, da animali e da piante i quali sono di grado inferiore rispetto a quello degli abitanti delle regioni del sole e delle altre stelle. Sebbene Dio sia centro e circonferenza di tutte le regioni astrali, e da lui procedano nature di diversa nobiltà in ogni regione, per impedire che alcuni luoghi dei cieli e degli astri siano vuote e impedire che sia abitata solo questa terra (che è tra i corpi più piccoli, forse) - tuttavia non sembra che ci possa essere qualche natura più nobile e più perfetta della natura intellettuale che abita in questa terra come nella sua regione, anche se nelle altre stelle ci fossero abitanti che appartengono ad un altro genere. L’uomo, infatti, non desidera una natura diversa dalla sua, ma di essere perfetto nella propria.

Gli abitanti delle altre stelle, quali che siano, non sono paragonabili con quelli del nostro mondo, sebbene la regione tutta quanta di questi si trovi in una certa qual proporzione, che a noi rimane celata, con la nostra regione per rispondere alla finalità dell’universo. Perciò gli abitanti della nostra terra o della sua regione, hanno, per la mediazione della regione universale, un rapporto scambievole, come le articolazioni minori delle dita della mano, per la mediazione della mano, hanno una proporzione col piede e le articolazioni minori del piede sono proporzionate alla mano per la mediazione del piede, sì che tutte le parti sono proporzionate all’animale intero.

Ma, siccome tale regione intera delle stelle ci resta sconosciuta, ci restano completamente ignoti anche i suoi abitanti. Così accade sulla terra: gli animali di una data specie, che formano una regione specifica, si uniscono fra di loro e si comunicano, mediante la comune regione specifica, le proprietà della loro regione, e non sanno nulla delle altre regioni o perché ne sono impediti o perché l’apprendono in modo errato. L’animale appartenente ad una specie può apprendere, infatti, la concezione di un’altra specie (che è espressa in segni verbali) solo dall’esterno, mediante pochissimi segni superficiali e, anche allora, solo dopo lunga esperienza e mai in modo sicuro.

Meno ancora potremo sapere qualcosa degli abitanti di un’altra regione con cui non siamo in relazione: li immagineremo nella regione del sole, più solari, luminosi e di intelligenza più illuminata, più spirituale di quelli della luna, dove sono più lunatici; sulla terra, invece, li immagineremmo più materiali e grossolani. Gli abitanti del sole, dotati di natura intellettuale,  sarebbero molto più in atto e meno in potenza, mentre quelli della terra sarebbero molto in potenza e poco in atto; i lunari oscillerebbero nel mezzo.

Immaginiamo che questo accada per l’influenza di fuoco del sole, per quella acquosa e aerea della luna e per l’influenza pesante e materiale della terra. Delle altre regioni astrali supponiamo in maniera analoga che nessuna di esse sia priva di abitanti, come se ci fossero tanti mondi particolari, come parti di un unico universo, quante sono le stelle che sono senza numero: cosicché, alla fine, un solo mondo universale sia contratto in modo trino, secondo la sua progressione quaternaria che degrada in tanti mondi particolari dei quali non c’è numero se non presso Colui che creò tutte le cose nel numero.»

 

Nicola Cusano, dunque, parte da una professione di ottimismo antropologico, come è naturale aspettarsi da un umanista, e sia pure da un umanista cristiano: l’eccellenza della natura umana è tale che l’uomo non desidera essere altro da se stesso, ed è improbabile che vivano, in altri luoghi dell’universo, delle creature più perfette di lui. Questa è la premessa del suo ragionamento. D’altra parte, egli argomenta, poiché nell’universo tutte le parti sono connesse le une alle altre, e anche l’uomo lo è, allora ne deriva che altre creature viventi e intelligenti, se esistono su altri corpi celesti, devono essere necessariamente in una qualche relazione di armonia e di complementarietà con gli esseri umani. Questa è la seconda premessa.

Poi fa una riflessione molto acuta, affermando che l’uomo, in ogni caso, non potrebbe comprendere sino in fondo la natura di altre creature viventi al di fuori della Terra, anche se potesse vederle e relazionarsi con esse: perché, come già vediamo, appunto, nel mondo terrestre, ciascuna specie vivente ha un suo proprio linguaggio, un suo proprio comportamento e anche, diremmo, una sua propria “visione del mondo”. È impossibile che una specie animale riesca a comprendere realmente la natura di un’altra specie animale, anche se ne riconosce, in qualche modo, il linguaggio, perché non possiede la chiave per decifrarlo e interpretarlo.

Possiamo fare il caso di un picchio che ode, dal suo ramo, il richiamo di un merlo. Che cosa potrebbe comprenderne? E, passando al caso di specie molto diverse: che cosa potrebbe capire, quel picchio, della natura delle api, osservando il loro volo? O della natura della volpe, vedendola avanzare furtivamente tra le fronde del sottobosco; o, ancora, di quella della trota, vedendola nuotare nell’acqua del torrente? E che cosa può sapere e comprendere l’uomo stesso, pur con tutta  la sua intelligenza, della natura degli altri animali, per non parlare di quella delle piante, essendo sprovvisto dei mezzi per decifrare il loro linguaggio e dovendosi limitare, per lo più, a osservarne le forme, l’attitudine, il comportamento?

Tuttavia l’etologo, si potrebbe obiettare, non è all’oscuro dei significati del linguaggio animale; e nemmeno certi bravi giardinieri, particolarmente sensibili, ignorano del tutto quel che provano i fiori e le piante affidati alle loro cure. Può darsi: ma dal riuscire a comprendere il senso di certi richiami, o dal constatare certe reazioni fisiologiche degli altri viventi, al penetrare l’intima essenza della loro natura, la distanza è grande: l’uomo fatica già moltissimo a comprendere quel che pensano e sentono i suoi simili, e perfino quel che pensa e sente egli stesso; di quel che riguarda gli altri viventi, si può dire che ne è quasi del tutto all’oscuro. Per fare solo un esempio: la sofferenza di una pianta cui viene spezzato un ramo, o del’animale che cade nelle fauci di un predatore, è paragonabile, o no, a quella dell’uomo, allorché viene a trovarsi in analoghe circostanze? Che cosa prova l’animale, che cosa prova la pianta, allorché soffrono - e non è lontano il tempo in cui filosofi come Cartesio negavano che l’animale soffra realmente, essendo solo un automa capace di emettere suoni; non parliamo perciò di quel che doveva pensare del dolore delle piante. E che cosa prova un animale che sta per morire? Prova nostalgia della luce che fugge, prova sgomento di quel venir meno delle sue facoltà vitali, prova rammarico per la bellezza della vita da cui sta per separarsi? Oppure non prova niente di tutto ciò? Non bisognerebbe avere troppa fretta di rispondere a simili domande, credendo di essere senz’altro in possesso della risposta “giusta”; domande che non sono per nulla oziose, anche se due millenni e mezzo di filosofia antropocentrica hanno finito per farcele sembrare tali.

In un libro dedicato ai suoi viaggi e alle sue avventure nella foresta boliviana, l’esploratore tedesco Friedrich Strauss, un reduce dalla prima guerra mondiale, descrive una drammatica lotta, cui ha assistito, fra un magnifico esemplare di giaguaro e un coccodrillo che, uscendo dall’acqua di un fiume, lo ha ghermito. Dopo essersi battuto per la vita con tutte le sue forze e avere artigliato a sangue il suo insidioso nemico, il giaguaro sta per soccombere e, un attimo prima di venire trascinato dalle terribili mascelle del rettile sotto la superficie melmosa dell’acqua, emette un ruggito spaventoso, nel quale, dice Strauss, paiono concentrate tutta la rabbia e la disperazione per la vita che gli sta sfuggendo. Siamo proprio sicuri che quel giaguaro non abbia provato dei sentimenti molti simili a quelli di un uomo forte e vigoroso, stroncato dall’arma di un nemico mentre è fiore degli anni, e che sente la vita defluire dal suo corpo, vede le cose annebbiarsi alla sua vista e avverte chiaramente che sta precipitando nel buio della morte?

Sia come sia, è un fatto che, se perfino l’uomo ignora la vera natura degli altri viventi ed è costretto a fare mille ipotesi su di essi (Cusano direbbe: mille “congetture”), che raramente o forse mai raggiungeranno il grado di certezze definitive, cosa potrebbero mai sapere e comprendere, le altre specie viventi, le une delle altre?

E adesso domandiamoci: che cosa prova un essere umano che s’imbatte, del tutto casualmente, in una creature extraterrestre? È accaduto a migliaia, anzi, a milioni di persone: e, salvo adottare il partito preso che si tratti di milioni di esaltati, di mattoidi o di impostori, bisogna pur ammettere che almeno una parte di essi abbia fatto realmente una esperienza reale e sconvolgente, per la quale non possedevano categorie interpretative di alcun genere. In diversi casi esistono indizi precisi della realtà oggettiva (e non semplicemente soggettiva) di simili esperienze, quali tracce sul terreno, testimonianze di altre persone, segni sul corpo, “buchi” temporali inspiegabili, e via dicendo. Ebbene, tutte quelle persone hanno fatto del loro meglio, pressoché nella totalità dei casi, per dimenticare la traumatica esperienza e per tenerla segreta: solo in un secondo tempo, oppresse dalle conseguenze psicologiche devastanti o avvicinate da studiosi che erano comunque venuti a conoscenza di qualcosa, si sono decise a parlarne, magari mettendo in gioco la loro reputazione di cittadini seri o di stimati professionisti. Quel che accomuna le loro testimonianze – almeno quelle che hanno l’aria di essere autentiche – sono proprio lo smarrimento, il turbamento profondo, il trauma di chi si è trovato faccia a faccia con l’impensabile e con ciò che credeva impossibile (nella maggioranza dei casi si tratta di persone che non si interessavano affatto agli Oggetti Volanti Non Identificati e che ne avevano sentito parlare solo vagamente, senza mai prendere tale argomento sul serio).

È come se quelle persone, che un caso bizzarro – se pure il caso esiste – ha scelto per farne i protagonisti di un incontro inaudito, avessero gettato uno sguardo oltre la finestra di ciò che chiamiamo il “nostro” mondo e fossero rimaste sgomente per aver constatato che esiste un’altra dimensione, o forse parecchie altre dimensioni, in cui tutto ciò che sappiamo, o che crediamo di sapere, intorno ala realtà, non ha più alcun valore, e in cui tutti i parametri di riferimento, dei quali costantemente ci serviamo nella nostra vita d’ogni giorno per valutare e giudicare le cose e le situazioni, sono caduti miseramente, lasciando un pauroso senso di vuoto e di vertigine. Come se avessero gettato uno sguardo sull’abisso dell’altrove, un altrove che non avevano mai sospettato neppure che esistesse.

E a questo punto, per spingerci ancora più lontano su questa linea di pensiero: che cosa proverebbe e che cosa penserebbe una creatura aliena, dopo essersi trovata faccia a faccia con una creatura umana? Non sempre, infatti, gli “incontri ravvicinati” sono il frutto di una precisa volontà e di un piano preordinato da parte dei non umani: abbiamo testimonianze di casi nei quali la sorpresa è reciproca – e non sempre l’alieno appare padrone della situazione, anzi, talvolta sembra perfino più confuso e spaventato di quanto lo siano gli esseri umani. Del resto, noi siamo soliti dire: “gli alieni”, come se si trattasse di un’unica specie; mentre è noto, ma solo a coloro che hanno studiato un poco la questione, che di razze aliene dovrebbero esisterne parecchie – proprio come aveva ipotizzato Cusano -, essendo abitanti di pianeti molto diversi e lontani fra loro.

Tornando a Cusano, la sua conclusione è suggestiva: esistono mondi infiniti nell’universo, perché questo è stato creato da Colui che è infinito; ma ben poco possiamo sapere di essi e delle forme di vita che potrebbero ospitare, perché le regioni dello spazio in cui vivono sono totalmente diverse da quella ove noi viviamo, e sulla quale sono basati tutti i nostri criteri di riferimento e tutte le nostre modalità di conoscenza. Possiamo fare delle congetture sugli abitanti del Sole o della Luna, ma, appunto, null’altro che congetture: il mistero è più grande del nostro desiderio di sapere. Senso del limite, appunto; e rispetto del mistero.

L’uomo moderno, che ha smarrito sia l’uno che l’altro, si immagina che le esplorazioni spaziali possano realmente dischiudergli il segreto degli altri mondi e dei loro eventuali abitanti. Ma che cosa saprebbe, in realtà, di quegli esseri, quando anche se li trovasse faccia a faccia, così come – del resto – affermano che sia capitato a loro milioni di cittadini qualsiasi, i quali non cercavano nulla d’insolito e che non si sono allontanati affatto, nemmeno con la semplice immaginazione, dal nostro caro, vecchio pianeta Terra? Saprebbe ben poco e capirebbe ancora meno. Forse potrebbe studiarne la fisiologia, potrebbe catalogarli e classificarli come fa il bravo naturalista con le sue farfalle o con i suoi coleotteri; ma non riuscirebbe a capire cosa sentono e cosa pensano. Tanto per dirne una: tenderebbe immediatamente a classificarli come “amici” o come “nemici”, a seconda del loro comportamento immediato; e sbaglierebbe, così come sbagliamo noi quando facciamo così nel giudicare la natura dei nostri simili. Il padre che dà uno schiaffo a suo figlio, per tenerlo lontano dalle cattive compagnie, non desidera il suo male, ma il suo bene; mentre il falso amico che si avvicina con modi melliflui e suadenti alla sua vittima, sta tramando di ingannarla, tradirla e, forse, d’infliggerle danni ancora più gravi.

Noi giudichiamo secondo le apparenze e riferiamo ogni cosa al nostro utile immediato: raramente sappiamo spingere lo sguardo appena un po’ più lontano. E come potrebbero essere evitabili dei gravi errori di valutazione, allorché delle specie differenti, addirittura provenienti da mondi diversi, si trovassero alle prese le une con le altre? L’uccellino, caduto dal nido, giudicherebbe come nemica la mano di un bambino che lo raccogliesse per tentare d’aiutarlo; e il gatto che si vedesse offrire del latte da una vicina di casa, non penserebbe certo che quella bevanda è stata avvelenata, ma le si accosterebbe con viva soddisfazione, per berla.

Del resto, vi sono moltissime persone che ogni giorno, su tutta la Terra, torturano lentamente, in cento maniere diverse, e infine uccidono gli animali, ma non pensano affatto di compiere qualcosa di terribile, semmai ritengono che il mondo dovrebbe loro della gratitudine: sono quegli scienziati che si servono degli animali per i loro esperimenti, finalizzati alla ricerca pura o alla messa a punto di nuovi farmaci. Nemmeno il macellaio che sgozza un vitello si sente un assassino; e colui che, seduto a tavola, mangia di gusto la sua brava bistecca, non pensa a quanta sofferenza dell’animale vi sia dietro le sue scelte alimentari. Così, un alieno che torturasse o uccidesse degli esseri umani per ragioni di studio, o semplicemente per nutrirsene, non si sentirebbe “cattivo” – ammesso che, nel suo mondo, esistano i sentimenti ed esista, insieme al libero arbitrio, la distinzione fra il bene e il male. E le decine di migliaia di bovini che vengono trovati dissanguati e sezionati con precisione chirurgica, in giro per il mondo, apparentemente ad opera di una sofisticata tecnologia aliena, sono stati uccisi da qualcuno che, con tutta probabilità, non pensava in termini negativi alle proprie azioni, anzi, le riteneva necessarie, oppure, semplicemente, non pensava proprio nulla circa il loro aspetto morale. Eppure quelle povere bestie hanno sofferto e hanno perso la vita, e gli esseri umani – che ritengono gli animali terrestri una loro proprietà esclusiva e insindacabile – pensano che gli autori di tali uccisioni non possano essere che dei “nemici”. Eppure, fra specie diverse, qual è il criterio per distinguere gli amici dai nemici, i buoni dai cattivi, visto che è cosa già tanto difficile trovarlo all’interno della propria specie?

Sono questioni complesse, di cui facciamo fatica perfino a parlare, perché ci è difficile anche solo farcene una semplice idea. Eppure sono questioni importanti, e non marginali, né oziose: se esiste un’etica universale, infatti, essa non può applicarsi solo agli esseri umani, né loro soltanto possono monopolizzare l’idea del bene, per proclamare lecito e giusto tutto ciò che tende ad accrescere il loro bene, senza mai tener conto degli altri esseri viventi e senza porsi il problema del male che, a questi ultimi, provoca una così unilaterale ricerca del bene.