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Shale oil e vantaggio competitivo USA

di Nicolas Fabiano - 10/12/2014

Fonte: L'intellettuale dissidente


La svolta tecnologica e capitalista del più grande debitore al mondo.

  

La geografia ha sempre fatto capricci. Capricci che gli Stati non hanno mai accettato e che mai accetteranno  fino a quando il modello stato-centrico non verrà definitivamente abbattuto. L’accumulazione tecnologica e la montagna di brevetti che in questi anni hanno fatto degli Stati Uniti il fulcro del sistema capitalistico “senescente” -senescente quando per rimanere in piedi anziché sui salari ti inizi a poggiare sul debito- sta tuttavia iniziando a dare i suoi frutti: la tecnologia dello shale oil ovvero l’estrazione dell’oro nero dall’argilla tramite avanzate tecniche di trivellazione, consentirà agli americani, che ne detengono sul loro suolo il primato mondiale, di rendersi meno vulnerabili nei confronti dell’estero. Insomma, scordiamoci le situazioni accadute durante gli anni settanta, le crisi petrolifere e la conseguente importazione di inflazione nei paesi occidentali. Quella era una situazione dove la manipolazione tecnologica era dominata interamente dalla posizione geografica. In altre parole il cartello dell’Opec, degli attuali dodici paesi dell’organizzazione degli esportatori di petrolio, dettava legge su tutta la linea. Oggi la situazione è alquanto più complessa e l’abbassamento dei prezzi al barile ne è una testimonianza che danneggerà sicuramente alcuni importanti fondi petroliferi

Sembrerebbe paradossale dirlo ma i membri dell’Opec non hanno mai estratto tanto oro nero come adesso, eppure la loro quota di mercato sta venendo meno. I vantaggi naturalmente per gli importatori tra cui l’Europa, sono abbastanza chiari: il calo del prezzo del petrolio ridurrà i costi dei rispettivi paesi importatori, questo vuol dire che dovrà per forza di cose venir meno qualsiasi assenza di rischi che le politiche monetarie degli importatori di risorse prime hanno assunto in questi anni. La mancanza di inflazione e la debole domanda aggregata che di conseguenza si viene a creare, dovrà indurre i policy makers ad azzardare politiche monetarie espansive

D’altra parte non bisogna neanche pensare che questa risposta “deflattiva” dei paesi esportatori sia in qualche modo innocente e volta a far ripartire le nostre economie. La tecnica dello shale oil di recuperare il combustibile contenuto nelle rocce, di fatto fa acquisire gli Stati Uniti di un vantaggio competitivo. E si sottolinea come questo in effetti sia un vantaggio competitivo non comparato perché siamo in assenza di concorrenza libera e perfetta, poichè a detenere il primato mondiale e a contrattare i futuri prezzi sono gli Stati, non le aziende. L’indipendenza che gli americani potranno ottenere a loro vantaggio grazie allo shale oil sarà tale che si potrà a ben vedere parlare di nuova autarchia economica che in realtà è il sogno che ogni stato nella propria intimità desidera: detenere un vantaggio sugli altri Stati. A fronte di tutto questo la reazione del cartello dell’Opec è immunitaria: il crollo dell’inflazione che di per sé è determinato dai paesi grandi, cioè da quelle potenze che possono stabilire il prezzo internazionale, mira alla strategia di rendere nullo il vantaggio acquisito dagli americani: infatti per essere sostenibile la produzione di petrolio con la tecnologia “shale”, il prezzo minimo a barile richiede tra i 50 e i 60 dollari. Pertanto la strategia è chiara: disincentivare e rendere meno competitivo lo sviluppo tecnologico acquisito e detenuto da parte degli americani.

In tutto questo è inevitabile che a pagare le conseguenze maggiori saranno Paesi in via di sviluppo come il Venezuela e lo stesso Iran, che giovano del mercato petrolifero come principale se non unica fonte di sostentamento. Il Venezuela,ad esempio, ha bisogno che la quota di greggio viaggi a 162 dollari a barile, e si capisce bene quali e quanti saranno i danni per un Paese che vede il prezzo del petrolio decrescere. In tutti questi anni gli Stati Uniti hanno continuano a perseguire una strategia che portasse all’inevitabile detenzione di rendita petrolifera, non a caso se negli anni 70 il cartello dell’Opec poteva permettersi di fare il bello e il cattivo tempo perché di fatto controllava tra il 50 e il 60% del monopolio petrolifero, oggi non è più così: l’aumento di estrazione americana sta rilanciando da questo punto di vista una potenza che appare tutt’ora indebolita e carente di leadership sul piano internazionale. E anche se esistono molte incertezze in proposito, alcuni studiosi stimano che gli introiti assicurati dal petrolio possano largamente superare quelli assicurati da qualsiasi altra fonte di rendimento. La rendita annua determinata dallo sfruttamento delle risorse naturali equivale al 6% del PIL mondiale e nelle previsioni continuerà a crescere, esattamente come è aumentata nell’ultimo decennio rispetto agli anni 90. E per uno Stato che vuole continuare a esercitare una certa egemonia nel mondo tutto questo è oro colato.