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Gli Italiani del 1943 furono meno motivati e coraggiosi di quelli del 1917?

di Francesco Lamendola - 05/01/2015

Fonte: Arianna editrice


 


 

Si discute se il morale delle Forze Armate italiane, e più in generale della nazione italiana, fosse più basso o più alto nel 1940 che nel 1915; se esse affrontarono la prova suprema della guerra mondiale con sufficiente fiducia e determinazione. Se ne discute e se ne discuterà all’infinito, anche se una cosa è certa: alla retorica costruita intorno al “maggio radioso” del 1915 non fece e non poteva fare da corrispondente alcunché di simile per il giugno del 1940: nel primo caso una guerra vittoriosa, nel secondo una guerra disastrosamente perduta; e la storia, come è noto, la scrivono sempre e comunque i vincitori. Eppure sembra che il numero dei volontari alle armi, nel 1940, sia stato maggiore che nel 1915, e più basso quello dei renitenti alla leva (fenomeno, quest’ultimo, che nel 1915 fu così imponente, accanto a quello degli auto-lesionisti, che neppure gli apologisti delle “radiose giornate”  hanno mai cercato di negarlo).

Quello che fece la differenza, probabilmente, non solo nello stato d’animo dell’esercito e della popolazione, ma anche nella percezione che l’opinione pubblica ebbe degli eventi, fu il diverso atteggiamento delle classi dirigenti. Nel 1915, benché la decisione di entrare in guerra (preceduta dalla firma, tenuta segreta, del patto di Londra con le potenze dell’Intesa) fosse presa da un pugno di uomini, Salandra, Sonnino e Vittorio Emanuele III, il grosso dell’”intellighenzia”, o almeno di quella “progressista” (o che si considerava tale) era decisamente interventista, e sia pure con una serie di variegate sfumature che andavano dal nazionalismo francamente reazionario al sindacalismo rivoluzionario, passando praticamente attraverso tutti gli schieramenti ideologici; e ciò a fronte di una popolazione nel complesso poco convinta, specialmente nella sua componente cattolica e in quella socialista. La guerra, poi, durò tre anni e mezzo, più o meno quanto il nostro apparato industriale e produttivo avrebbe potuto reggere e non oltre, pur con il consistente sostegno inglese, francese e statunitense, sia sotto il profilo finanziario, sia sotto quello logistico e propriamente militare. Se la guerra fosse durata un altro anno (come il nostro Stato Maggiore aveva preventivato, similmente a quelli degli Alleati) è dubbio che l’Italia sarebbe riuscita a reggere lo sforzo. I segni di cedimento c’erano già stati, ancor prima di Caporetto: particolarmente gravi i fatti di Torino, nell’agosto 1917, che sembravano indicare un irreversibile venir meno dello spirito combattivo. La stessa Caporetto, a detta di molti storici, più che una battaglia, fu uno “sciopero militare”, un po’ come gli ammutinamenti dell’esercito francese che si verificarono nello stesso anno; ed è verosimile che sia stato proprio lo shock dovuto alla disfatta e all’invasione austro-tedesca del Friuli e del Veneto a restituire la necessaria determinazione sia al Paese, sia, soprattutto, all’esercito, come si vide già durante la battaglia d’arresto, sul Monte Grappa e lungo il Piave, del novembre-dicembre.

La guerra, e non una piccola guerra locale o una lontana guerra coloniale, è la prova del fuoco per la solidità e la coesione di una nazione: e l’Italia, nel 1915, indubbiamente scontava il dato troppo recente dell’unità nazionale e la scarsa o nulla integrazione delle masse nella vita politica, con la sostanziale estraneità dei cattolici e con l’aperta ostilità dei socialisti. Eppure gli intellettuali (e non solo gli esaltati futuristi), i giornalisti come Luigi Albertini, i poeti come Gabriele D’Annunzio, avevano spinto rumorosamente per l’intervento: o sottovalutando l’impreparazione, morale e materiale, del Paese, o illudendosi che la guerra sarebbe stata breve. Strana illusione, dato che le vicende belliche dell’inverno 1914-15 avevano ben mostrato a tutti che la guerra di movimento si era ormai trasformata in una interminabile, estenuante, demoralizzante guerra di posizione, nel fango delle trincee, in cui avrebbe vinto chi possedeva l’apparato industriale più solido e chi controllava le linee di traffico del commercio mondiale, per assicurarsi i necessari rifornimenti di armi, derrate alimentari, combustibili e materiali necessari alla produzione bellica.

Ironia della sorte, proprio quando l’Italia ruppe gli indugi e dichiarò guerra all’Austria (ma non alla Germania, come pure si era impegnata a fare). la guerra di movimento si rimise improvvisamente in moto, sul fronte orientale, ma a svantaggio dell’Intesa: fu l’offensiva austro-tedesca di Tarnow-Gorlice, che assestò un colpo mortale (come poi si sarebbe visto) alle ulteriori possibilità belliche della macchina bellica russa e rese disponibili per il fronte italiano una parte delle truppe austriache che, fino a quel momento,  erano rimaste vincolate sui Carpazi, in Galizia e Volinia. A partire dal 1915, il fronte di guerra principale dell’Austria-Ungheria cominciò ad essere, sempre più decisamente, quello italiano: Russia e Serbia divennero nemici meno pericolosi - anche se nel giugno del 1916 gli Austriaci pagarono la “Spedizione punitiva” sul fronte italiano (da noi chiamata Battaglia degli Altipiani) con il disastro di Łuck, dove i Russi tornarono a farsi alquanto pericolosi, penetrando nelle loro linee come un coltello nel burro e infliggendo all’Austria la perdita apocalittica di qualcosa come 700.000 uomini fra morti, feriti, dispersi e prigionieri. Ma anche l’offensiva Brusilov si rivelò un fuoco di paglia, e fu l’ultimo serio tentativo russo di capovolgere le sorti del conflitto sul fronte orientale.

Il fattore decisivo per la “tenuta” dell’esercito e della nazione italiana, comunque, fu determinato dall’entrata in guerra degli Stati Uniti: a partire da quel momento, essi sentirono con chiarezza – così come avvenne in Francia e Gran Bretagna – che la guerra non avrebbe non potuto concludersi vittoriosamente. Senza quel fiume di denaro e quel fiume di vettovaglie e materiale bellico, provenienti da oltre Oceano, è difficile pensare che l’esercito italiano sarebbe riuscito ad affrontare un altro inverno in trincea, o che la popolazione avrebbe sopportato un altro inverno di guerra, al freddo, con i propri cari al fronte e con i viveri sempre più scarsi e razionati. Il fatto che gli Imperi Centrali, quanto a rifornimenti alimentari, stessero peggio dell’Intesa, non era percepito come un elemento decisivo, tanto più che sia l’esercito tedesco, sia (sorprendentemente) il tanto disprezzato e multietnico esercito austriaco, continuavano a conservare una disciplina ammirevole e un potenziale bellico di tutto rispetto, anche se i soldati erano letteralmente ridotti alla fame.

In ogni caso, sia per le ragioni materiali che abbiamo qui riassunto, sia per ragioni ideologiche legate alla percezione negativa del “militarismo” e dell’”assolutismo” austriaco e tedesco, l’opinione pubblica italiana ebbe sempre la percezione che il Paese stesse combattendo dalla parte “giusta” della barricata, ossia per realizzare la piena unificazione territoriale, per abbattere la minaccia degli Imperi “reazionari” e per ristabilire nei loro diritti le piccole nazioni “violate”, come il Belgio e la Serbia. Il fatto che il governo italiano, durante la fase della neutralità, avesse a lungo mercanteggiato con entrambi gli schieramenti e il fatto che i capi militari e gli esponenti nazionalisti, in un primo tempo, fossero stati propensi a schierarsi a fianco degli alleati formali della Triplice, Germania e Austria (per “riprendersi” Nizza e la Savoia, più la Tunisia), insomma la disinvoltura della nostra diplomazia e la spregiudicatezza - ma, ahimè, anche l’indeterminatezza, come poi si vide - dei nostri obiettivi di guerra, non mutarono quella percezione, che rimase ben salda e si rafforzò, appunto, con l’intervento degli Stati Uniti d’America, la più grande nazione democratica. Del resto, perfino alcuni noti esponenti del movimento anarchico, nel 1914-15, avevano proclamato che si trattava di una guerra sacrosanta, per la libertà e contro l’oppressione; e lo stesso avevano fatto molti sindacalisti rivoluzionari.

Nel 1941 le cose stavano assai diversamente. Anche qui si trattava di affrontare, impreparati – ma pur sempre con il vantaggio di scegliere quando e dove attaccare un nemico già provato –, una guerra che si credeva breve (l’illusione della imminente vittoria tedesca!), ma che si sarebbe rivelata lunga e terribilmente logorante: un po’ più di tre anni, fino all’8 settembre del 1943, dunque circa la stessa durata della precedente. Gli intellettuali, questa volta, con poche eccezioni, non erano stati interventisti; nemmeno la popolazione, nell’insieme, lo era stata (basti pensare alle manifestazioni di gioia che si erano viste al ritorno di Mussolini dalla conferenza di Monaco, nel settembre 1938, che era sembrata scongiurare la guerra); e tuttavia risulta che molti giovani corsero ad arruolarsi volontariamente e che il morale, nell’esercito, nella marina e nell’aviazione, non era così basso come lo si è poi voluto dipingere, anzi, nonostante la disorganizzazione (dovuta alle prove recenti della guerra d’Africa e della guerra di Spagna, che avevano provocato un altissimo consumo di materiali), pare che fosse piuttosto elevato.

Gli obiettivi di guerra, ancora una volta, erano in fondo poco chiari, benché venissero strombazzati rumorosamente dalla propaganda fascista: Nizza, Corsica, Savoia, Tunisia e alcune altre colonie africane della Gran Bretagna e della Francia. Erano obiettivi, in fondo, anacronistici, “ottocenteschi”, perché di tipo territoriale e non strategico, come la mutata situazione economica, politica e militare avrebbe richiesto: e cioè Malta, lo Stretto di Gibilterra, il Canale di Suez in primissimo luogo; poi, un collegamento fra l’Etiopia e la Libia, in modo che l’Impero non rimanesse più isolato ed esposto a qualsiasi attacco; una flotta non più solo mediterranea, ma oceanica - anche sottomarina - per sostenere il nuovo ruolo internazionale dell’Italia come grande potenza a tutti gli effetti (una grande potenza non può limitare la sua area d’interesse vitale a un mare interno di modeste dimensioni); infine, un’ampia zona di protettorato “de facto” da esercitare sui Balcani, aperta alla penetrazione commerciale e finanziaria italiana.

In ogni caso, la situazione politica dell’Italia nel 1940 era totalmente diversa da quella del 1915: qui, uno Stato che ambiva ad essere totalitario (anche se non lo era e aveva rinunciato ad esserlo, permanendo due forti centri di potere autonomo: la monarchia e la Chiesa cattolica), e in cui le massime decisioni, come quella, appunto, di entrare in guerra, spettavano ad un uomo solo, il Duce del Fascismo; lì, uno Stato liberale, con qualche accenno di sviluppo in senso democratico e con un Parlamento che, pur se non così influente come avrebbe voluto essere (il Patto di Londra era stato firmato a sua perfetta insaputa), in cui teoricamente, le supreme decisioni, come la scelta fra la pace e la guerra, spettavano al governo, con l’avallo del re.

L’Italia del 1940, dunque, entrava in guerra in una condizione politica e morale sostanzialmente ambigua: al popolo italiano non era stato spiegato chiaramente che la guerra, cui si apprestava, non era la guerra del fascismo, ma una guerra nell’interesse nazionale, che portava a termine il processo del Risorgimento, completando il quadro strategico senza il quale il Paese sarebbe rimasto sempre in posizione di vulnerabilità e di dipendenza rispetto alla Gran Bretagna, alla Francia e alla Società delle Nazioni, come si era visto nel 1936 (discorso che oggi non piace e non va certo di moda, ma che descrive esattamente la reale natura della posta in gioco il 10 giugno 1940: a meno che gli storici politicamente corretti abbiano il fegato di ammettere che anche le guerre del Risorgimento, fino alla prima guerra mondiale compresa, non furono né necessarie, né legittime, né rispondenti ai reali bisogni e interessi del nostro Paese; e che Cavour fu il primo “imperialista” a trascinare l’Italia in una serie di avventure discutibili e, in fondo, gratuite (la Crimea, la guerra del 1859, le annessioni dei Ducati, la conquista del Sud e di una grossa fetta dello Stato della Chiesa).

La differenza fondamentale che venne a determinarsi nello stato d’animo della popolazione, comunque, oltre alla spaccatura sotterranea, ma pericolosissima, tra fascisti e antifascisti (che già era esplosa durante la guerra di Spagna e che sarebbe riesplosa dopo l’8 settembre 1943, con l’inizio della guerra civile) fu dovuta, se non andiamo errati, al quadro bellico internazionale e soprattutto alle diverse caratteristiche del conflitto, con i bombardamenti aerei che, sempre più massicci e sempre più spietati, finirono per fiaccare il morale della popolazione e quello dei lavoratori dell’industria, i più direttamente coinvolti nello sforzo bellico. Il collasso morale si profilò con i grandi scioperi del triangolo industriale del marzo 1943, che la storiografia dominante ha sempre “letto” esclusivamente in chiave politica e antifascista, mentre è legittimo interpretarli anche come segno della stanchezza e della demoralizzazione, proprio come lo erano stati i sanguinosi moti di Torino dell’agosto 1917.

Se la popolazione italiana, all’epoca di Caporetto, avesse dovuto sostenere anche la prova dei bombardamenti aerei, come accadde, nella seconda guerra mondiale, a partire dal 1942 (dopo la battaglia di El Alamein e l’avanzata degli Alleati in Nord Africa, con l’avvicinamento delle loro basi terrestri e aeronavali), è dubbio se sarebbe riuscita a superarla, a parità di condizioni dovute alla fame, al freddo, all’incupirsi della situazione bellica.

Tuttavia, c’è un altro importantissimo elemento che, probabilmente, fece la differenza fra la resistenza nazionale del tardo 1917 e il crollo, anzi lo sfascio, nazionale, dell’estate del 1943: il fatto che gran parte della classe dirigente – industriali, banchieri, perfino generali e ammiragli – non credevano più nella vittoria, o per dir meglio, non ci avevano mai creduto, e avevamo fatto del loro meglio per sabotare lo sforzo bellico, incuranti del sacrificio di sangue che i soldati, gli aviatori e i marinai continuavano a versare su tutti i fronti di combattimento. Come hanno intuito e, in parte, dimostrato storici fuori dal coro, come Franco Bandini e Antonino Trizzino, il tradimento serpeggiava ampiamente nelle alte sfere della società italiana e delle stesse Forze Armate: per i loro interessi personali o di casta, questi dissimulati traditori univano i loro sforzi a quelli dell’opposizione antifascista, specialmente comunista, che, dalla clandestinità, si augurava la sconfitta dell’Italia, come la sola maniera per abbattere il regime fascista e che per tale ragione, era stata favorevole, paradossalmete, appunto all’entrata in guerra.

Anche se l’opera di questo traditori e sabotatori non deve essere sopravvalutata, perché molti insuccessi militari si possono spiegare benissimo con l’impreparazione e l’abissale incompetenza dei comandi (se Cadorna, nel 1915, non era stato un’aquila, Badoglio nel 1940 fu addirittura disastroso), sta di fatto che essa contribuì a diffondere un senso di sfiducia e di disfatta e, quindi, a minare la capacità di resistenza del popolo italiano e quella dei combattenti, i quali assistevano costernati alle sconfitte e alle dissennate decisioni politiche, strategiche e tattiche (valga uno per tutti: il modo in cui fu pensata e gestita la campagna di Grecia), che stavano trascinando il Paese verso il baratro di una sconfitta umiliante, di proporzioni catastrofiche.

A ciò si aggiunga che se l’Italia, nella prima guerra mondiale, era venuta a collocarsi nel campo più forte per potenza industriale e finanziaria e per la stessa disponibilità di materie prime e di risorse umane, nella seconda venne a verificarsi la situazione contraria, specialmente dopo che la guerra ebbe coinvolto l’Unione Sovietica e gli Stati Uniti. Per ricevere sostegno nei rifornimenti di combustibile, minerali e materiale bellico, l’Italia, nel 1940-43, poteva contare solo sulla Germania, la quale doveva fronteggiare, essa stessa, necessità sempre più pressanti e una situazione complessiva sempre più impari, poiché non era in grado di sostituire gli aerei, i carri armati e i sommergibili che la macchina bellica degli Alleati continuamente stritolava, né ad approvvigionarsi in quantità sufficiente di petrolio, carbone, cereali e altri materiali, dei quali abbisognavano sia le forze armate, sia la popolazione civile.

Infine va osservato che l’invasione dell’Italia, al tempo di Caporetto, si era verificata a partire dalla valle dell’Isonzo, ossia da quella ”porta” nord-orientale che, dal tempo delle migrazioni barbariche, era sempre stata la via d’accesso privilegiata dei popoli e degli eserciti che avevano mirato alla conquista della Penisola; un’area in cui, tradizionalmente, si era andata elaborando l’idea che la salvezza della patria dipendesse dalla difesa di quella “porta”, e che Austriaci e Tedeschi, essendo gli invasori di quella frontiera, erano anche - con il ricordo di qualche fatto clamoroso, come la distruzione di Milano ad opera di Federico Barbarossa - il “nemico storico” da cui difendersi. Nel luglio del 1943 l’invasione della patria venne invece dalle coste meridionali della Sicilia e fu attuata da un esercito anglo-americano: si trattava di un’area che costituiva, in tutti i sensi, il “ventre molle” dell’Italia (e dell’Europa), priva di tradizioni belliche e difensive; e poi perché difendersi, se gli Anglo-americani venivano, in fondo - come affermava la loro propaganda nelle trasmissioni di Radio Londra) per liberare gli Italiani stessi dai loro dittatoriali governanti?

Di qui, nacque l’idea che non di una invasione si trattasse, ma di una “liberazione”; che gli Italiani, arrendendosi a un nemico così generoso e bendisposto, avrebbero affrettato il ritorno della libertà e, perfino, salvaguardato l’onore nazionale (dissociandosi da un regime criminale come quello hitleriano); e che quel nemico, pertanto, benché avesse ridotto in cenere molti quartieri di tutte le città italiane, facendo perire sotto le bombe aeree decine di migliaia d’innocenti, non meritasse, in fondo, la qualifica di nemico, ma semmai di liberatore, appunto: e che bisognasse accoglierlo con esultanza e gratitudine. E mentre, dopo lo sbarco e la conquista della Sicilia (terra che era sempre stata fredda rispetto al fascismo), la mafia, cacciata dalla porta durante il regime, rientrava dalla finestra con le truppe di Patton e di Montgomery, l’esercito italiano si dissolveva, grazie anche alla fugga del re e del governo, e la popolazione correva incontro alle colonne alleate, inneggiando ad esse come ai propri “liberatori”. Un fatto nuovo e inaudito, addirittura impensabile: e così come nessuno avrebbe mai scommesso che se i Tedeschi, nel  1917, fossero giunti non solo fino al Piave, ma fino al Po, all’Arno e al Tevere, qualcuno li avrebbe salutati come dei “liberatori”, così pare incredibile che migliaia e milioni di persone, dopo aver subito, per mesi e mesi, i devastanti bombardamenti alleati, salutassero ora quegli eserciti non come ”nemici” e “invasori”, ma come “liberatori”: forse perché, così facendo, si sentivano un po’ vincitori (Dio sa come) anche gli Italiano stessi, esorcizzando la vergogna dell’8 settembre 1943.

Di tutti questi elementi (e d’altri ancora, che richiederebbero troppo spazio per essere esposti, sia pur brevemente) occorre tener conto, allorché si vuole istituire un raffronto fra lo spirito combattivo degli Italiani durante la prima e, poi, durante la seconda guerra mondiale, nonché la loro eventuale determinazione a battesi fino alla vittoria. Vittoria che giunse a premiare i durissimi sforzi degli Italiani nel 1918, ma che volse impietosamente le spalle ai loro figli, venticinque anni dopo. Non si giudichi solo dal risultato, però: si tenga presente anche l’effettivo stato d’animo mostrato nel corso dei tre anni e oltre di guerra e dalla disponibilità al sacrificio di tutti, ma specialmente dei combattenti più umili. Se la retorica della prima guerra mondiale ebbe Enrico Toti con la sua stampella, la storia della seconda passò quasi sotto silenzio gli eroi di Giarabub, di Cheren, di Culqualber, di El Alamein; e se la prima ebbe gi arditi sulle rive del Piave, la seconda ebbe i coraggiosi marinai che, in pieno 1943, alla vigilia del crollo, progettavano attacchi di motosiluranti contro Gibilterra, Freetown e la stessa New York. Ma se di Enrico Toti rimane il ricordo ammirato, perché legato indissolubilmente al “nemico storico” - l’Austria -, dei secondi non rimane quasi niente nella memoria, perché essi combatterono contro le potenze democratiche e gli Stati Uniti, nostri “eterni” amici, dei quali non sapremmo fare a meno e verso i quali dobbiamo nutrire perenne gratitudine… per averci “liberati”, appunto, fra il 1943 e il 1945, e restituito quella democrazia che noi, a suo tempo, non avevamo saputo difendere.

I fantasmi del passato, così, seguitano ad allungare le loro ombre anche sul presente. Noi siamo ancora perseguitati dal faccione del boia austriaco che, nel Castello di Trento, si face fotografare, con un osceno sorriso sulle labbra, accanto al cadavere dell’impiccato Cesare Battisti. Non ricordiamo più il sacrificio dei soldato tedeschi che, in Africa Settentrionale e, poi, in Sicilia, combatterono al fianco dell’esercito italiano, per tenere lontana, quanto possibile, l’invasione nemica; né ricordiamo il volto ghignante dei piloti angloamericani che, fra il 1943 e il 1945, seminarono di rovine le città italiane, mitragliando a bassa quota e sganciando bombe incendiarie, allo scopo di accrescere crudelmente, senza alcuna ragione o necessità di tipo bellico, il dramma delle nostre sventurate popolazioni…