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Russia: un’economia ferita?

di Enrico Turco - 05/01/2015

Fonte: millennivm

1 Rublo 1967 R

Nel mese di dicembre, il prezzo del petrolio ha subito un notevole crollo, scendendo sotto quota 60 dollari al barile, ai minimi dal 2009. Le cause di questo crollo sono (i) il continuo calo della domanda globale a causa di una ripresa sempre più lenta e incerta dalla crisi finanziaria del 2008; (ii) le aspettative di apprezzamento del dollaro – che nel mercato valutario si concretizzano in apprezzamento effettivo – dovute al possibile aumento dei tassi di interesse della Federal Reserve e alla definitiva interruzione dell’acquisto massiccio dei titoli di stato (quantitative easing). L’apprezzamento del dollaro rende più caro l’acquisto di beni denominati in tale valuta, come ad esempio l’oro nero.

A rimetterci chiaramente sono i paesi produttori ed esportatori di petrolio, i quali vedono peggiorare le proprie ragioni di scambio e quindi diminuire il benessere nazionale. In particolare, la situazione pesa maggiormente sui paesi la cui economia si basa quasi esclusivamente sulla produzione e lo scambio di questa fonte energetica, come il Venezuela e la Russia. L’Economist ha recentemente definito la Russia “a wounded economy”. È realmente così?

Il crollo del greggio ha rappresentato per l’economia russa un calo del valore delle esportazioni e un netto deprezzamento della valuta, arrivata a 72 rubli per dollaro, il livello più basso dal default del 1998 (ha perso il 20% in una sola notte, cifre da capogiro). La svalutazione della moneta fa diventare più cari i prezzi dei beni importati (macchine, chimica, tessile, alimentari) determinando un aumento dei prezzi interni. Una collega in scambio universitario a Mosca mi ha raccontato di essere caduta nello sconforto quando il cassiere del negozio le ha comunicato che la valigia appena acquistata costava 7625 rubli, anziché 7125 come da cartellino, a causa di un aggiornamento tempestivo dei prezzi della merce inviato dalla ditta. Nella giornata di martedì 16 dicembre, per contrastare l’aumento dell’inflazione (9% su base annua) e rendere la valuta più appetibile, la Banca Centrale della Federazione Russa ha deciso di aumentare i tassi di interesse portandoli dal 10,5% al 17%, producendo tuttavia un effetto distorsivo sulla trasmissione del credito e sugli investimenti.

Non dimentichiamo che la Russia si trovava in una situazione di congiuntura economica e politica non del tutto favorevole. Infatti, un altro fattore che ha inciso negativamente sulla salute dell’economia russa sono state le sanzioni economichestabilite dalle autorità europee in seguito all’annessione della Crimea e ai conflitti nell’est dell’Ucraina. Le sanzioni, unite al crollo del prezzo del greggio, sono state le due principali cause del calo delle esportazioni (intaccando la bilancia commerciale che nel 2013 ha visto un surplus pari a 181,9 miliardi di dollari) e del seguente deprezzamento del rublo.

Tuttavia, Putin appare molto tranquillo circa la situazione. Come ribadito dal ministro saudita del petrolio Ali al-Naimi, i paesi dell’OPEC non hanno la minima intenzione di tagliare la produzione di oro nero, la qual cosa farebbe stabilizzare il prezzo del petrolio portandolo a livelli antecedenti la recente caduta; lo stesso Putin ha ribadito che l’economia russa deve imparare a convivere con questi scivoloni del mercato petrolifero. Inoltre sono diverse le armi che il presidente russo avrebbe a disposizione qualora la crisi valutaria dovesse peggiorare ulteriormente. Innanzitutto, la Banca di Russia ha già impiegato 70 miliardi di riserve valutarie, detenute per un ammontare pari a oltre 400 miliardi (decisamente superiore rispetto alla crisi del 1998, quando toccavano quota 10mld). L’adozione di tale strategia ha provocato una brusca inversione sulla discesa del rublo, causando miliardi di perdite agli speculatori finanziari che avevano scommesso su un continuo calo. Come sostiene l’economista francese Jacques Sapir su Le Figaro, un’altra strada che il Cremlino potrebbe tenere in considerazione sono i blocchi ai movimenti di capitali, che frenerebbero i flussi sui mercati valutari stabilizzando il valore della valuta, ma costringerebbero imprese e famiglie a finanziarsi soltanto in madre patria.

È inevitabile che sono molti gli interessi geopolitici in ballo, anche se non si capisce bene chi possa effettivamente trarre un vantaggio da tale situazione. Se il Cremlino non vive i suoi giorni migliori, non se la passa meglio la Casa Bianca, che vede minacciare il proprio business di estrazione di petrolio shale oil. A partire dal 2008, il governo americano ha investito numerose risorse su questa attività, spiazzando i produttori di petrolio leggero più simile a quello americano, tra cui la componente africana dell’OPEC (Algeria, Nigeria, Angola), ma non direttamente l’Arabia Saudita che produce un tipo greggio diverso e possiede un bacino di consumatori ben più ampio. Tuttavia, onde evitare che la domanda (e quindi l’offerta), in particolare europea, di energia si sposti verso fonti energetiche alternative, mantenere un prezzo del petrolio così basso rende più conveniente acquistare oro nero a discapito di altre produzioni.

Del crollo del petrolio dovrebbe giovare l’economia globale, poiché buona parte dei costi di produzione risiede nel costo dell’energia: una sua caduta dovrebbe aumentare il peso dei ricavi e quindi della produzione in generale. Tuttavia, ciò non è così evidente nel nostro continente dove l’impatto negativo delle scelte in materia di politica economica e commerciale delle istituzioni europee sembra non compensare il dividendo emerso dal crollo del greggio, trovandosi l’intera eurozona in una situazione economica piuttosto grave. La decisione di imporre le sanzioni economiche alla Russia si può definire eufemisticamente miope, dato che rappresentava un mercato per l’export europeo, e in particolare italiano, non indifferente. La decisione, portata avanti con estrema determinazione soprattutto dagli USA e dalla stampa occidentale, sembra un modo per limitare il commercio a est ed indirizzarlo verso l’altra sponda dell’oceano. Considerati gli accordi segreti sul trattato trans-atlantico di libero scambio (TTIP) che si portano avanti nei palazzi di Bruxells, questa ipotesi sembra qualcosa di più che una semplice congettura.

Paradossalmente (o no) a essere particolarmente colpita da questa situazione di instabilità dei mercati riaccesa da molteplici conflitti geopolitici sembra essere la povera Italia. La nostra economia, già in crisi per le scellerate politiche austere imposte da Bruxelles e per la costruzione di un sistema monetario europeo alquanto zoppicante, soffre più di altre il peso delle sanzioni alla Federazione Russa, poiché rappresentava un grande mercato di sbocco per diversi settori del Made in Italy, dall’alimentari a lusso e turismo.

Le sanzioni economiche e il calo del rublo limiteranno alla lunga le importazioni delle famiglie russe, le quali consumeranno meno prodotti agricoli mediterranei, risparmieranno sui capi di moda e molto probabilmente rinunceranno alla consueta vacanza natalizia sulle Alpi nostrane (con annesse cene da 2000 euro di mance).

Cari agricoltori, cari imprenditori e cari camerieri, sicuramente anche voi leggerete i giornali. Forse starete iniziando a capire che il problema del nostro paese non sta tanto nella possibilità di licenziare più facilmente un lavoratore, quanto più nell’incapacità di una classe politica di comprendere i punti di forza della nostra economia, intraprendere le politiche migliori per valorizzarli e attribuire un ruolo centrale nello scacchiere internazionale al nostro paese, dal quale deriverebbero accordi commerciali favorevoli alla nostra economia.