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Cattivi pensieri…

di Mario Grossi - 05/01/2015

Fonte: mirorenzaglia


“Quando non sai cosa leggere, torna ai classici” mi diceva sempre mio padre quando andavo a chiedergli un qualche consiglio di lettura. Inizialmente lo prendevo come un ristretto indirizzo relativo al mondo dei libri ma con il passare degli anni ho cominciato a capire che quella laconica dichiarazione era riferita ad un contesto meno angusto e assai più vasto del mondo letterario.

Quel tornare ai classici, quando non si sa cosa leggere, doveva intendersi come un’esortazione estesa all’intera vita di un individuo che, quando si trova disorientato, incapace di avventurarsi su nuove strade, quando sente il suo fiato corto ed il fiato del destino più d’appresso non ha nessuna scorciatoia da prendere, deve solo riprendere la strada maestra della sua riflessione. Deve immergersi in se stesso per meglio comprendere il mondo che lo circonda, per trovare nuova linfa che irrori il suo ramo che si secca, per trovare nuovo coraggio e vivere.

A questo penso, mentre il ricordo affiora e giro l’ultima pagina di Cattivi pensieri di Susanna Schimperna che la casa editrice Castelvecchi (CLICCA QUI) ha dato alle stampe lo scorso ottobre e che, se volete nel suo piccolo, ha tutte le caratteristiche per essere un classico. È senza forma. Non è un romanzo, non è un saggio, non è un manuale, non è un diario, non è una raccolta (apocrifa o postuma) di pensieri sciolti o di appunti disordinati. O forse è tutte queste cose insieme. È atemporale, nel senso che, incarnato nel presente da cui prende spunto, se ne distacca per avventurarsi in un mondo riflessivo buono per tutti i tempi. O forse estende proprio il presente in una dimensione temporale dilatata. Torna a parlare a tutti di nozioni fondamentali che sono state sbiadite o espunte a bella posta dal panorama della vita d’oggi. È un libro che parla in brevi, agili capitoli del percorso che un individuo deve intraprendere per cercare di prendersi la più grande fetta di felicità che può ottenere dalla sua vita.

Detta così sembra la descrizione di uno degli innumerevoli manualetti che impestano le librerie, pieni di consigli altezzosi ed invadenti, propinati da guru improvvisati che promettono tutto e di più, come nei luccicanti santuari dell’acquisto. La felicità un tanto al chilo. È la stessa autrice ad avvisarci nelle note introduttive, ma ogni lettore può scoprirlo da sé fin dalla prima riga, che qui ci troviamo di fronte a una cosa del tutto diversa. Non felicità tanto al chilo, non manuale di allenamento psicologico, non tragicomico dispensatore di consigli per la formazione e la modellazione del corpo e della mente.

Qui siamo di fronte ad una narrazione che riscopre parole e concetti ormai abbandonati, che nulla hanno a che fare con le facili formule degli imbonitori da baraccone e che affondano la loro radice nell’individuo. La singola persona, ogni singola persona come motore attivo della propria felicità. Felicità, parola che ho spesso odiato perché ormai utilizzata in senso anestetico, un sentimento ottuso di presunto benessere da “paese dei lotofagi”. Ma qui felicità viene declinata in tutt’altro modo. Felicità è responsabilità in primo luogo. È la riscoperta di un duro lavoro su di sé, necessario per approdare ad una visione del mondo che sia fondamento vero della propria individualità.

L’autrice ci invita a modellare il mondo che ci circonda informandolo della nostra visione, piuttosto che farci da lui modellare. Ci invita ad una ricerca attiva che sia sviluppo di tutti i sensi, che riscopra la perizia della manualità che non trascura l’intelletto. Senza mediazioni, senza frapporre veli o cannocchiali tra il mondo e noi. “Uomini siate, non distruttori” avrebbe chiosato il nostro caro zio Ezra. Non è una lotta antiintellettuale alla riscoperta della nostra animalità, è piuttosto un disseppellire sensazioni e passioni dirette in cui c’è spazio anche per l’intelletto ma non solo.

C’è uno spirito antitotalitario nelle pagine di questo Cattivi pensieri che ci dovrebbe indurre a una riflessione dilatata su come abbiamo organizzato il nostro mondo e sui pregiudizi che abbiamo utilizzato per fondarlo. Quando si parla di carcere, di ospedali, di scuola o di qualunque istituzione potenzialmente repressiva e totalitaria la riflessione della Schimperna si fa inflessibile, incisiva nella sua luce rischiaratrice. Ma lo stupore che ci coglie è che il tono non è mai quello dell’invettiva, stupisce il lettore questa assoluta mancanza del colpevole, non è scopo di questa incessante ricognizione su se stessi trovarne uno. Quello che è necessario è comprendere senza infingimenti cosa c’è di storto, di ingiusto in un mondo o in una inclinazione e cercare una soluzione che migliori le cose.

Ecco un’altra perla che esce da queste pagine. Non si parla di Rivoluzione, di cambiamenti repentini, violenti, del tutto e subito. Si parla di cambiamento come innesco di un cammino teso a migliorare la nostra persona ed il mondo che ci circonda. Un continuo affinamento verso il miglioramento. Si tratta di una strada umile, uso a bella posta questo termine non alla moda per estrema sintonia con il testo che ho appena letto che è ricolmo, come uno scrigno benedetto, di concetti ormai completamente fuori moda come: coscienza, umiltà, verità, educazione, fierezza, autodisciplina.

Ma di nuovo, non ci troviamo a dialogo con “l’amica di nonna Speranza” non ci troviamo tra “Loreto impagliato e il busto d’Alfieri, di Napoleone i fiori in cornice (le buone cose di pessimo gusto)”. Ci troviamo di fronte ad una forza cortese che non teme di raccontare ciò che reputa fondamentale e che non si preoccupa di come verranno giudicate le sue idee. C’è solo il desiderio di dire quello che si pensa senza ipocrisie e senza edulcoranti. Quando parla di educazione, non ci troviamo di fronte ad un altro galateo moderno e non stiamo leggendo un manualetto di Bon Ton di Lina Sotis. Ci troviamo di fronte ad una persona che non ha paura (in un mondo che ben descrive come soggiogato da tante paure), che desidera confrontarsi e raccontare, ma che ha dentro di sé la capacità e la sapienza di sapere la differenza tra confronto e scontro. Non c’è violenza né costrizione nelle parole della Schimperna se non quella della forza argomentativa. Forza che non è mai un bicipite turgido in un incontro di braccio di ferro ma un cantare armonioso e convincente. Convincente anche quando non si è d’accordo con quello che racconta. Convincente perché pensato e con ogni probabilità vissuto e dunque meritevole di attenzione e rispetto.

Il suo stile sembra quasi la continuazione del suo pensiero e, come in un anello di Moebius, si fonde con esso avviluppandolo come un guanto. Anche qui non c’è eccesso ma un’eleganza discreta, non esibita, non ricercata, ma naturale svolgimento dello stesso percorso che dà importanza alla parola che corrobora il pensare e che si fa tramite, vero strumento per congiungersi agli altri ma senza compromissioni o ammiccamenti. Il suo stile è cortese ma non per questo meno tagliente nell’argomentare.

Così di capitolo in capitolo si giunge all’appendice che chiude il libro e che è una raccolta di citazioni assai eterogenea negli autori (scelti ed accostati anche qui senza nessun pregiudizio: mi colpisce Eugene Ionesco ed Emile Cioran ma questa è un’altra storia) quanto compatta nel senso, in cui spicca Socrate con queste parole: “Le parole false non solo sono cattive per conto loro, ma infettano anche l’anima con il male”. Come a dire che chi parla male mina anche la sua anima. Mi colpiscono molto perché vale anche il loro esatto contrario, perché se è vero che un parlare cattivo corrompe l’anima, è forse ancora più vero che solo il pensare bene permette di parlare bene e il parlare bene è tramite di un vivere bene. E questo libro ne è testimonianza didascalica.